Sepolto è l’onore del mondo – Katyn (A. Wajda)

Feb 15, 2024

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Chiunque viva in sé una determinata visione del mondo, al ricordo del massacro della foresta di Katyn, durante il quale – fra l’aprile e il maggio del 1940 – 22.000 notabili polacchi, giornalisti, ufficiali, industriali, prigionieri, l’asse portante di una comunità nazionale, furono sommariamente trucidati da uomini dell’NKVD sovietico, non può che avvertire un sussulto sin nei più reconditi accessi dell’anima. 

L’eccidio di Katyn, sbandierato fra le colpe dei vinti per decenni (il giurista Roman Rudenko lo utilizzò come pezzo pregiato delle sue arringhe nell’aula di Norimberga), e poi curiosamente dimenticato dalla storiografia dei buoni non appena le reali responsabilità iniziarono ad emergere, non fu infatti soltanto un orrore bellico. Katyn, prima di tutto, fu lo stupro, feroce e crudele, di una Patria, privata nel giro dei due mesi dei suoi figli migliori, massacrati nel freddo di una foresta inospitale e gettati via come immondizia della Storia; oltre a ciò, però, quella strage è anche rimasta il triste simbolo di un’Europa ferita, violata, prima ancora che dalle asprezze della sconfitta, da quel senso di colpa imposto e artefatto nelle cui spire i padroni del discorso, gli alfieri dell’Oro, i ladri del ricordo hanno avvinto non solo il suo passato, ma anche il suo futuro. 

Andrzej Wajda non è certo un regista di primo pelo. Annoverato fra i principali esponenti del cinema polacco di tutti i tempi, è stato per ben quattro volte candidato all’Oscar per il Miglior Film Straniero, Oscar che, onorario alla Carriera, ha ricevuto nel 2000. Oltre a ciò, un profluvio di riconoscimenti, tra cui numerose fra le più importanti onorificenze dell’ordinamento polacco. Un notabile, potremmo tranquillamente dire, non troppo distante nella statura umana da molti che nella foresta di Katyn trovarono la morte. 

Wajda è un regista che del racconto, spassionato e scevro da vezzi e propagandismi, della storia e della vita della sua Nazione ha fatto uno dei segni distintivi di una lunga carriera artistica. Da sempre sostenitore accanito di Solidarność, ai venti nazionalpopolari che andavano sospingendo la sua Polonia verso l’agognata libertà dalla “luce rossa d’Oriente” ha dedicato pellicole memorabili, e nel suo L’uomo di ferro (Człowiek z żelaza, 1981) lo stesso Lech Wałęsa comparì in un breve ruolo nelle vesti di sé stesso. Tuttavia, Katyn (2008, 118 min.) non è un film politico. Meglio: non è soltanto un film politico, ma qualcosa di assai più doloroso e profondo.  

Katyn, infatti, scaturisce dal romanzo Post Mortem, di Andrzej Mularczyk, tetra drammatizzazione della strage. Soprattutto, però, nasce da un sangue sparso. Per la precisione, il sangue di Jakub Wajda, ufficiale di cavalleria e padre di Andrzej, che a Katyn fu ucciso. Una tragedia familiare che si sovrappone e si somma alla tragedia nazionale, entrambe frustrate e vilipese dalla denegata memoria, aberrante sbrano che Wajda, non più solo figlio orfano ma affermato artista, avverte il bisogno di sanare – per quanto sanarlo sia realmente possibile – così come un intellettuale dovrebbe: parlando, anche e soprattutto quando la corrente porta altrove, e il pacifico silenzio sarebbe preferibile. 

In più interviste, Andrzej Wajda ha dichiarato quanto l’eccidio di Katyn abbia segnato la sua vita, e non c’è da stupirsi se da un simile tormento interiore abbia avuto origine il suo capolavoro più dolente. Negli altri film marcatamente politici del regista, nella bruttezza dello status quo si incuneavano l’entusiasmo della gioventù in lotta, il cocciuto orgoglio dell’arte e il desiderio di rivalsa; in Katyn, invece, il registro è ben diverso. 

In Katyn, infatti, non è la lotta politica a dettare il ritmo. Piuttosto, a regnare sovrano è il dolore. Quasi due ore di dolore purissimo, per nulla semplici da attraversare. Due ore sofferte, in cui mille tesi lasciano spazio alla forza delle immagini, forza sommessa ma mai piagnucolosa, delicata ma non pudica, brutale ma lungi dal compiacimento morboso. Un’opera, Katyn, che a bassa voce tocca l’animo dello spettatore, ma nel silenzio grida a squarciagola, infrangendo di slancio il muro di gomma del silenzio, delle menzogne, delle contraffazioni, delle bocche chiuse e delle orecchie serrate, che per decenni hanno defraudato quelle vittime e la Polonia tutta non solo di un lutto immenso, ma di una dignità, e noi più di altri ben sappiamo quanto la dignità rappresenti un valore irrinunciabile. 

Katyn, dunque, è dolore. Il dolore di un figlio che ha perduto il padre. Il dolore di una Patria che ha perduto i suoi figli. Il dolore della giustizia a cui troppo tardi è stata (parzialmente) restituita la verità. Nel film, il dispiegarsi dell’eccidio si mostra solo alla fine, in un lugubre tripudio di colori freddi. Muoiono, i martiti polacchi. Poi, dissolvenza al nero e nulla più, ad accompagnare solamente le note struggenti del Requiem Polacco a Quattro Voci di Penderecki. Dopo la morte, non c’è più nulla da aggiungere, ogni parola si fa superflua. Spetta piuttosto a chi guarda, scorsi ormai i titoli di coda, dare a quei morti quella voce che le pallottole sovietiche, il fango delle fosse comuni e l’omertà interessatissima credevano davvero di aver loro tolto per sempre.