Hostis, Inimicus e sacre scritture: il concetto del “nemico di Dio” nella storia

Apr 23, 2024

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Chi sono i nemici di Dio da combattere? Chi sono i nostri nemici da perdonare? Per comprendere meglio la differenza bisogna capire prima di tutto la concezione Latina di Hostis e Inimicus. Hostis è il nemico pubblico della città di Roma, nemico esterno, mentre Inimicus è il nemico interno e privato, cittadino con il quale si ha una relazione agonica, con il quale si può giungere anche all’annientamento fisico. L’ambivalenza racchiusa nel senso originario (straniero/ospite) si è dileguata e hostis indica in modo univoco lo straniero-nemico. Quella di hostis publicus, cioè di nemico pubblico, era nel diritto romano una condizione dichiarata dal Senato nei confronti di un cittadino ritenuto particolarmente nefasto per le sorti della Res publica.

In base a tale concetto, chi era colpito dalla dichiarazione di hostis publicus diveniva estraneo e nemico della comunità e dello Stato e come tale perseguibile alla stregua di un nemico esterno. Inimicus, invece, il nemico privato rientra nella caratterizzazione di un individuo o di un gruppo come un nemico si chiama demonizzazione. La propagazione della demonizzazione è un aspetto importante della propaganda. Un “nemico” può anche essere concettuale; usato per descrivere fenomeni impersonali come la malattia e una miriade di altre cose. In teologia, “il Nemico” è tipicamente riservato a rappresentare una divinità malvagia (1), diavolo o un demone.

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Analizziamo ora la terminologia usata nella lingua a noi più vicina per definire straniero. “In latino, per un lungo periodo, straniero si dice hostis” (2). Questa parola si usava in contrapposizione a quella che definisce cittadino, l’in-genuus, colui che per nascita, cultura e sangue appartiene alla comunità di riferimento. Originariamente il termine hostis concentra in sé tutte le figure dell’alterità senza però coincidere con la caratterizzazione ostile. Questo avverrà più tardi. Nella Legge delle XII tavole (451-450 a.C.) del Diritto Romano lo hostis era considerato detentore di un diritto uguale a quello di chi apparteneva al popolo romano, in conseguenza a un processo di parificazione. Anche il grammatico romano Sesto Pompeo Festo, con una precisazione etimologica, ci viene in aiuto nella comprensione del significato originario di hostis: “Ponebatur hostire pro aequare” (3). Il termine hostis deriverebbe dal verbo hostire, che significherebbe compensare, uguagliare, ricambiare.

Nella frase egli è figura alla quale mi lega un rapporto di compensazione: sono verso di lui in obbligo di contraccambiarlo per qualcosa che ho ricevuto. “Mediante il ricambio, allo hostis viene riconosciuta quella piena parità alla quale egli ha diritto” (4). Sulla base dell’analisi linguistica non ci è chiarita la natura del dono che egli porta con sé. È però assodato che sussiste un obbligo a ricambiare per chi entri in contatto con lui. Con la parola hostis si indica quindi colui che era peregrinus (forestiero) uscito dal proprio paese. Egli è l’advena, colui che viene da fuori, al di fuori dei limiti della comunità. Per lui si parla di condizione esistenziale, non tanto giuridica, e la sua accoglienza rientra nell’atteggiamento di umana ospitalità.

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Nelle fonti giuridiche, almeno fino agli inizi del III secolo d.C. “il peregrinus [forestiero] è il non civis [cittadino]; nelle fonti letterarie è il non civis o il civis in un luogo che non è il suo luogo di nascita” (5), considerato un’estraneità non tanto giuridica, quanto topografica. Possiamo aggiungere che se hostire evoca l’aequa reddere [rendere l’equivalente], la conferma dell’obbligo al controdono viene da un’altra parola modellata sul verbo hostire, vale a dire hostia. Questo termine infatti non indica la victima, bensì l’offerta di riscatto con cui gli uomini cercano di ristabilire l’equilibrio con gli déi. Prima di avere valore religioso – sacrificio di animali – il termine aveva un significato giuridico, indicava il pareggio dei doni ospitali.

Dal latino arcaico l’evoluzione linguistica vedrà hostis assumere una valenza di significato opposto, “ostile” e hostis diverrà il nemico, colui che una volta si definiva con la parola perduellis (nemico pubblico). Si giunge poi a una differenziazione dei termini a seconda della posizione che il nemico assume nei confronti della civitas [comunità cittadina] o delle istituzioni politiche. Con l’aggiunta del deittico pet, dalla stessa radice di hosti, (ghosti)(6) viene coniato il termine hospes, hosti-pet-s. Attraverso una modifica morfologica si recupera la figura di straniero-amico, protetto dal vincolo dell’ospitalità, con il quale si scambiano doni nella logica già descritta del controdono. (7) Ne deriva che la condizione di hostis e quella di hospes non sono immutabili; vivono piuttosto di quella dinamica sempre possibile del tradursi l’uno nell’altro. Dopo questa analisi linguistica appare più chiaro che le nozioni di nemico, straniero e ospite – per noi oggi unità semantiche e giuridiche ben distinte – nelle lingue indoeuropee antiche presentavano strette connessioni.

Il Cattolicesimo fa propria la retorica della Pax Romana in Pax Deorum, la Res Pubblica non è più solo una costituzione isolata ma è il mondo intero, il Cosmos di cui Dio ne è sovrano. La Pax deorum è un’espressione adoperata in diritto penale romano, nel periodo regio, per indicare una situazione di concordia tra la comunità dei cives e le divinità della religione romana. È importante dire che la funzione di far mantenere la Pax deorum all’interno della società era affidata al collegio dei pontefici che affiancava spesso il rex in ogni sua scelta, e che la Pax deorum è collegabile anche al raggiungimento della concordia civium (concordia civile) all’interno della società cioè la pace tra le varie classi sociali. Dunque la prassi della concordia non ha più base nell’istituzione statale fine a se stessa ma nel riconoscimento di un Regno Divino. In tal senso, l’Ecumene, la Terra dei cristiani, risponde alla medesima di una Res Publica, in cui la concordia è sancita dai comandamenti divini. La guerra giusta contro il nemico esterno che minaccia l’esistenza della Res Pubblica, il Bellum Iustum (8) diviene così Sanctus Bellum cioè Guerra Santa.

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L’affermazione della Santità della Guerra, anche solo della “liceità” di una guerra, assolve dunque alla funzione di nobilitare la motivazione guerresca e di garantire preventivamente al soldato la liceità di quanto sta per compiere. Analoga alla non imputabilità giuridica del soldato che uccide, sorge dunque la discriminante religiosa, per la quale nemmeno la Legge di Dio è stata violata se la guerra risponde all’interesse della religione. Questa attribuzione viene appunto rilasciata dall’autorità religiosa, a volte con enfatica determinazione, ma più spesso con implicito avallo, a seguito di specifiche interpretazioni dei rispettivi riferimenti teologici (della sistematizzazione interpretativa posteriore) ma anche scritturali, cioè quelli esplicitamente rintracciabili nel libro sacro, ove possibile. In genere, l’esegesi a ciò finalizzata produce il risultato che “a talune condizioni” la guerra sarebbe un “male minore”, un “necessario sacrificio” e un doveroso intervento comunque ben gradito al Signore; coloro che si rivolgono con approccio critico verso simili sinergie fra autorità religiose e politiche, non mancano però di sottolineare la variabile elasticità interpretativa delle rispettive Scritture. Anche nell’antica Roma monarchica si sviluppò il concetto di “guerra santa”, con il complesso di operazioni rituali eseguite dai feziali. Tito Livio ci testimonia nelle sue Historiae le formule in uso all’epoca allorché il Senato decideva l’avvio delle operazioni di guerra contro il proprio vicino:

«Propongo che si richiedano con pia e santa guerra (puro pioque duello): a questo mi associo e questo approvo.» (9) In ciò si comprende meglio che il perdono è volto all’idea di un comunitarismo divino che unisce chiunque è posto sotto il Regno di Dio. Bisogna dunque perdonare i propri nemici là dove possono essere convertiti a Dio. Ma il Satana, cioè il nemico (di Dio), come indica il suo nome stesso in ebraico, sàtana (più com. Sàtana; ant. Satàn, Satanno) s. m. [dal lat. tardo, eccles., Satan o Satănas, gr. Σατᾶν o Σατανᾶς, dall’ebr. śāṭān «avversario, nemico»] è il vero Hostis della Res publica Christiana da battere, e i suoi seguaci i nemici di Dio. La sintesi di finale di questa esegesi si conclude nell’apologia di San Bernardo di Chiaravalle riguardo alla concezione di “malicidio”:

«“I Cavalieri di Cristo, al contrario, combattono sicuri la guerra del loro Signore, non temendo in alcun modo né peccato per l’uccisione dei nemici né pericolo se cadono in combattimento. La morte per Cristo, infatti, sia che venga subita sia che venga data, non ha nulla di peccaminoso ed è degna di altissima gloria. Infatti nel primo caso si guadagna [vittoria] per Cristo, nel secondo si guadagna il Cristo stesso. Egli accetta certamente di buon grado la morte del nemico come castigo, ma ancor più volentieri offre se stesso al combattente come conforto. Affermo dunque che il Cavaliere di Cristo con sicurezza dà la morte ma con sicurezza ancora maggiore cade. Morendo vince per se stesso, dando la morte vince per Cristo. Non è infatti senza ragione che porta la spada: è ministro di Dio per la punizione dei malvagi e la lode dei giusti. (Rm, 13,4; I Pt, 2, 14). Quando uccide un malfattore giustamente non viene considerato un omicida, ma, oserei dire, un «malicida» e vendicatore da parte di Cristo nei confronti di coloro che operano il male, difensore del popolo cristiano.» (10)

San Bernardo di Chiaravalle, chi era il monaco che si festeggia il 20  agosto- Corriere.it

Nel medioevo, inoltre, venne messa la scomunica per l’uso della balestra (11) il motivo era dovuto alla sua efficenza di mortalità in territorio europeo. Poiché l’Europa era la terra dei cristiani, muovere guerra ad altri cristiani minava le fondamenta di una Res Publica Christiana, esattamente come per Roma nelle guerre civili. San Tommaso d’Aquino nella I-II della Somma Teologica (12) studia la Legge del Vecchio Testamento. Egli distingue tre tipi di precetti:

1°) i precetti morali (q. 100), che appartengono alla Legge naturale e durano per sempre; 2°) i precetti cerimoniali, che riguardano il culto divino del Vecchio Testamento e terminano completamente con la nascita del sacerdozio della Nuova ed Eterna Alleanza, della quale essi sono un’ombra e una prefigura; 3°) i precetti legali o giudiziali, che riguardano la giustizia nei rapporti degli uomini tra di loro e che anch’essi nel loro insieme vengono rimpiazzati dalla Nuova ed Eterna Alleanza, tranne qualche loro principio, che essendo una specificazione del Decalogo permane ancor oggi vero, giusto e attuale ed è stato ripreso e perfezionato dalla Nuova Alleanza.

La Legge giudiziale dell’Antico Testamento (13) è uno sviluppo del Decalogo riguardante l’ambito civile e criminale, per cui alcuni precetti di essa conservano ancor oggi il loro valore giuridico e legale. Essa legifera sui rapporti degli uomini tra di loro, sui loro doveri e contiene dei precetti giusti. Quindi anche se rimpiazzata e perfezionata dal Nuovo Testamento, la Legge giudiziale dell’Antico Testamento mantiene alcuni precetti di giustizia e verità e, perciò, può aiutarci a risolvere il problema dell’accoglienza indiscriminata di tutti i profughi che sbarcano sulle nostre coste.

La Legge giudiziale stabilisce anche precetti ragionevoli in rapporto alla guerra con gli stranieri. Il Deuteronomio (14) comanda che prima di attaccar guerra si offra la pace agli stranieri e di usare moderazione in caso di vittoria, risparmiando donne e bambini. Risolvendo la seconda obiezione l’Angelico cita Aristotele (15), il quale spiega che si può diventare cittadini di una Nazione in due maniere:

  1. a) in senso assoluto e totalmente, quando lo straniero di terza generazione si è integrato nella Nazione ed ha la capacità di partecipare alla vita pubblica di essa cercandone il bene comune;
  2. b) in senso relativo quanto agli stranieri che non sono in grado di trattare le cose che interessano la comunità e di cercarne il bene comune temporale.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica infine parla chiaro: «Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente:

1 Che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo.
2 Che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci.
3 Che ci siano fondate condizioni di successo.
4 Che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di comunicazione.

Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della “guerra giusta”. La valutazione di tali condizioni spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune.» (16)

In che modo la Chiesa cattolica ha modellato la storia della legge?

 

Note e Fonti:

1) Edward Burnett Tylor, Primitive culture (1873), p. 323-4.
2) Umberto Curi, Straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, p. 57.
3) Ibidem.
4) Ibidem, p. 59: “Un tempo hostire significava pareggiare”.
5) Ibidem, p. 58.
6) Proseguendo nell’indagine, modellati sulla radice della parola latina hostis troviamo il gotico gasts, lo slavo antico gasti. Nelle lingue moderne l’inglese guest, il tedesco Gast e lo slavo gosti.
7) A sua volta il termine hospes subirà una scissione interna e assumerà il duplice valore di “ospite” e “ospitante”.
8) Il buon esito della guerra dipendeva certamente dai generali e dall’esercito, ma soprattutto dal bellum iustum (guerra legittima), da una condizione di necessità che giustificasse il ricorso alle armi. La guerra era accettata secondo una concezione sacrale del potere. Da questa premessa religiosa derivava la necessità di compiere alcuni riti indispensabili per accertarsi la protezione divina.
9) Trad. di Luciano Perelli, Torino, UTET, 1974, I, pp. 200-201.
10) Bernardo di Chiaravalle, Liber ad milites templi. De laude novae
11) L’uso dell’arco e della balestra è vietato contro i cristiani canone 29 del concilio Lateranense II, tenuto dal 4 all’11 aprile 1139 sotto la presidenza di Papa Innocenzo II, è considerato come decimo concilio ecumenico dalla Chiesa cattolica.
12) Somma Teologica (q. 98-105)
13) ibidem (S. Th., I-II, q. 104, a. 1, in corpore)
14) Deuteronomio (XX, 40)
15) Aristotele, Politica, libro III, capitolo 3, lezione 4
16) Tratto dal Catechismo Maggiore di San Pio X, PARTE TERZA. Dei Comandamenti di Dio e della Chiesa. Capo III. Dei comandamenti che riguardano il prossimo. § 2. – Del quinto comandamento, n. 2309