L’unica rivoluzione italiana giunta al potere: Bottai e la nuova civiltà

Apr 27, 2024

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Negli ultimi anni, parallelamente all’ossessiva diffamazione massmediale, gli studi sul fascismo hanno conosciuto una crescita di quantità e di qualità davvero torrenziale. Più viene sovraccaricato di odio e contraffazione, più il fascismo viene studiato, pubblicato, diffuso. Più lo infamano, più gli scaffali delle librerie si affollano di testi – certamente non tutti buoni, anzi spesso scadenti – su un movimento politico che ancora calamita, bene o male, l’attenzione del grande pubblico. L’interesse verso quell’unica forma di rivoluzione italiana mai arrivata al potere cresce in modo inversamente proporzionale allo sforzo quotidiano di tenere in vita il fantasma del “male assoluto”, adatto a riempire il vuoto pneumatico dell’odierna politica.

Il Colosseo quadrato di Roma - The Travelling PetSitter

In questo quadro, accanto a lavori di grande spessore scientifico, diciamo così ufficiali, di storici inseriti nel sistema dominante, ma spesso sufficientemente onesti nel riconoscere i chiaroscuri della realtà, e che volta a volta definiscono il fascismo come “regime dell’arte”, “regime degli editori”, “ventennio degli intellettuali”, “dittatura di sviluppo”, e così via, esiste anche un vasto spazio di rivendicazione ideologica che si pone apertamente quale luogo di revisionismo storico: laddove, come disse De Felice e come il semplice buon senso conferma, ogni lavoro di storico è, e non può non essere, lavoro di revisione, approfondimento, correzione, avendosi, altrimenti, il ruminare sui soliti standard recitativi, che nulla hanno di scientifico.

Parlare del fascismo significa rievocare un movimento che cent’anni fa scosse l’Italia dalle fondamenta, realizzando in pochi anni il mutamento sociale e politico che era stato nei voti di rivoluzionari provenienti dalle più varie sponde: sindacalisti, socialisti eretici, soreliani e corridoniani, anarchici, repubblicani, poi nazionalisti, arditi, legionari fiumani e dannunziani, ex-combattenti, giovani e giovanissimi, quel ricco mondo interventista che si faceva notare soprattutto per la capacità militante di vivere il radicalismo con spirito di quotidiana applicazione.

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Fulcro e motore politico di tutto ciò fu lo squadrismo, primo e unico esempio di milizia armata conosciuto nella storia italiana che, costretto a passare sul terreno della violenza politica sul quale già da tempo si trovava il socialcomunismo del “biennio rosso”, pervenne al potere dopo una campagna biennale di vera guerra civile, con centinaia di morti dell’una e dell’altra parte. Fu quella l’unica forza rivoluzionaria italiana che, conquistato il potere per vie extra-parlamentari, lo mantenne per due decenni e con crescente consenso, dilatandosi esponenzialmente da forza politica regionale a movimento ideologico e politico prima nazionale poi mondiale, generatore di eventi storici di portata epocale, dei quali ancora oggi, dopo così tanto tempo, risentono gli assetti della politica internazionale.

Alla base del fascismo non vi fu un’idea solo politica, ma un sentimento essenzialmente culturale e ideologico, legato alla volontà di sovvertire l’ordine del tempo, centrato sull’improduttiva dialettica fra liberaldemocrazia e socialcomunismo, al fine di erigere uno Stato di popolo nazionale e sociale, orientato a concepire sin dall’inizio non un semplice cambio di governo, di istituzioni e neppure di regime, bensì un rovesciamento delle basi ideali della società, attivando il mito mobilitante di una nuova civiltà in azione.

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Per affrontare un compito di tale natura, il fascismo mise in campo una volontà innovativa, modernizzatrice, di progressismo sociale e di razionalizzazione economica, attraverso la quale la vecchia e fragile Italia uscita dalla prima guerra mondiale, arretrata e bloccata nel conservatorismo classista, divenne uno Stato totalitario di massa, promotore della partecipazione politica attiva del popolo, chiamato alla mobilitazione permanente, avendo per fine ultimo la civiltà del lavoro, lo Stato sociale plasmato in un mondo di arti, mestieri, corporazioni, realizzazioni, opere pubbliche, bonifiche, collaborazione sociale, industrializzazione, progressismo futurista – per quanto era nelle possibilità della nazione – legato alla ricerca del record, dell’innovazione, del costante miglioramento in avanti di ogni sorta di tecnica: dall’automobile da corsa all’areo dei raid, allo sport, all’igiene e alla cura del corpo, fino alla ricerca chimica alternativa, alle nuove materie autarchiche, alla meccanizzazione dell’agricoltura, etc.

Si intendeva realizzare, così, la fusione fra l’etica eroica del singolo d’eccezione, il guerriero campione della stirpe uscito dai ranghi del popolo, e la massa del collettivo comunitario, che si diceva riscattata dalla sacralizzazione del passato italico e romano. La protezione della tradizione, del ceppo familiare atavico, in questo modo, doveva essere l’altra faccia del rinnovamento, della conquista modernista, dell’applicazione razionale della tecnologia all’industria e alla vita quotidiana. “Destra” e “sinistra”, in questo modo, perdevano ogni senso oppositivo, dando vita a un’intima compartecipazione al progetto comune di edificazione della nuova civiltà italiana, preconizzata in strutture di dimensioni grandiose, come testimoniato ad esempio dall’Esposizione Universale di Roma, prevista per l’anno 1942. Le strutture architettoniche dell’EUR, tuttora visibili come storica testimonianza dello stile razionalista, non sono in fondo che la pietrificazione monumentale del mito fascista, legato alla nuova civiltà romana del lavoro.

La Carta del Lavoro: così il fascismo realizzò la terza via tra capitalismo e comunismo

Rivoluzione culturale, oltre che politica e sociale, il fascismo fu pensiero e azione simultanei. E per vent’anni sospinse in avanti la volontà del cambiamento senza uscire dai confini ideologici: primato della politica sull’economia, del bene del popolo sugli interessi del singolo, dell’idealismo sulla concezione materialistica e utilitaria della vita. E, al di là della figura carismatica di Mussolini, vi furono leaders ideologici, uomini d’azione e di cultura, che segnarono quell’epoca, ma lasciando tangibile traccia di sé anche ai giorni nostri. Uno di essi fu sicuramente Giuseppe Bottai, il cui attivismo nella promozione della cultura rivoluzionaria viaggiava in parallelo col suo ruolo di ministro e di uomo delle istituzioni, sin da giovane squadrista abituato a presidiare posizioni d’avanguardia.

A lui sono stati dedicati molti studi, già da parecchi anni. Lo stesso antifascismo professionale si è lasciato sovente sedurre da questo personaggio fatto di studi e riflessione, ma anche di coraggio, interventismo politico e culturale. Alla fine, alla svolta del 25 luglio 1943, presero corpo tuttavia il cedimento caratteriale e l’amara resipiscenza e, in certa misura, anche il rinnegamento. Il personaggio è certamente complesso. Su questa sua fragilità emotiva – di cui recano testimonianza i Diari – si sono da tempo incistati tentativi di distorsione (come già accaduto con altri personaggi di prima grandezza, come D’Annunzio o Evola), finendo col fare, di uno dei massimi e più radicali interpreti del fascismo, quasi un santino antifascista o, meglio di niente, a-fascista. Ne è un esempio un recente e malconcepito libro di marchiana falsificazione, che intende, sin dal titolo, trasformare Bottai in qualcosa che non fu [1].

Critica fascista, a. VII, 1929, 11 numeri | eBay

Se invece apriamo il recente lavoro di Lino Ulderico Cavanna, “Critica Fascista”, un discorso interrotto. L’italica, originale, ardua e necessaria “Terza Via” tra Capitalismo e Marxismo (Passaggio al Bosco), noi vediamo che il ventennale lavoro portato avanti da Bottai, di cui la rivista “Critica Fascista” fu essenziale strumento, torna ad essere inquadrato nella giusta maniera, senza accentuare o smorzare a piacere i dettagli. Avviene così che il fascismo sia presentato come uno sforzo continuo di perfezionamento, una rivoluzione permanente, nella quale anche l’episodio delle leggi razziali, così tanto oggi enfatizzato, si inserisce con un suo senso compiuto. Cavanna giustamente ricorda che Bottai nel 1938 fu uno dei gerarchi più oltranzisti nell’applicazione delle leggi razziali nella scuola di ogni grado (era in quel momento ministro dell’Educazione nazionale), nella convinzione che questo fosse un passaggio non persecutorio, ma totalitario, come allora il fascismo teneva a qualificarsi. E ne riporta il giudizio, uscito su “Critica Fascista” del 15 ottobre di quell’anno:

È in base a tale impostazione politica e spirituale dell’azione di difesa della razza che acquista pienezza e chiarezza di significato l’intransigenza, che possiamo definire chirurgica, nel senso mussoliniano, con cui il Regime ha affrontato la questione nel settore scolastico.[2]

Sulla rivista di Bottai l’argomento razziale veniva dibattuto dai più vari orientamenti, non rappresentando né un tabù né un abbassamento etico dei toni. Del resto, ci sono studiosi contemporanei che hanno giudicato l’antisemitismo novecentesco la prima idea rivoluzionaria del secolo, che, al di là di ogni giudizio postumo di carattere morale o moralistico, rappresentò di fatto «il rafforzamento del carattere religioso dell’ideologia politica», che portò alla «radicalizzazione sia del pensiero mitico […] sia dell’atteggiamento tragico davanti alla vita», introducendo una «rivoluzione antropologica» che avrebbe dovuto portare all’avvento dell’uomo nuovo [3]. Nulla quindi di malvagio, secondo i canoni di giudizio di oggi, a un secolo da quei fatti, ma una concezione del mondo e dei rapporti umani che, nella cultura dell’epoca, aveva vasta accoglienza, non soltanto presso i vari fascismi, ma anche, e non di meno, presso la diffusa pratica razzialista e segregazionista di importanti democrazie occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti.

Dottrina Fascista" Giugno 1941 - RBNr Militaria

Ma “Critica Fascista” e il suo leader ideologico Bottai – che poté contare su uno stuolo di collaboratori di prima grandezza, molti dei quali riciclatisi nel dopoguerra su posizioni antifasciste – stanno ben fermi nella storia culturale e politica del Novecento per altri e più importanti motivi.

Innanzi tutto, per il lancio di quel concetto di “rivoluzione corporativa”, attorno al quale la rivista saldò aspettative grandissime, che ebbero risonanza internazionale, in grado di prefigurare la via attraverso la quale superare le contraddizioni del capitalismo – alla svolta degli anni Trenta entrato in una fase di coma apparentemente irreversibile – e pervenire così, finalmente, a quella giustizia sociale dello Stato etico del lavoro che rappresentò il lato “socialista” del fascismo, il suo essere, sul terreno socio-economico, di “sinistra”[4]. Lunghi anni di questo sforzo vennero proprio da Bottai dispiegati, da direttore di “Critica Fascista” e organizzatore culturale, ma anche nel ruolo di ministro delle Corporazioni, da lui ricoperto dal 1929 al 1932.

Sul punto Cavanna riconferma come centrale il famoso II Convegno di studi corporativi tenutosi a Ferrara nel 1932, che rappresenta un po’ l’apogeo di questa stagione non solo riformista, ma proprio rivoluzionaria del fascismo. Con il modello corporativo, infatti, concepito come “terza via” di collaborazione interclassista fra capitalismo e comunismo, si dava un’indicazione concreta per erigere una moderna e armonica società comunitaria, che per svariati anni parve a portata di mano: «Bottai riesce così», scrive Cavanna, «in pieno regime, che del resto ha il merito d’aver aperto un tema tanto importante ed innovativo, a dar vita ad un profondo e spregiudicato dibattito». Soprattutto, Bottai riesce a trasferire una così delicata discussione dal ristretto pubblico delle sue riviste a quello ben più ampio del congresso. La scientifica libertà in cui egli chiede si svolgano gli studi e le ricerche, passa dal chiuso delle aule universitarie alla ribalta d’una grossa manifestazione pubblica di livello internazionale.[5]

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Altro elemento determinante, che caratterizzò “Critica Fascista” come palestra di studi e di affinamento ideologico, fu la costante attenzione portata verso i problemi legati alla cultura, all’arte, alla civiltà. In questo, la rivista bottaiana fu spesso un apripista per determinare dibattiti, prese di posizione e anche polemiche sui più vari argomenti. Bottai, specialmente negli anni centrali del regime, fu un po’ il motore della ricerca culturale e dell’affinamento ideologico, rendendosi protagonista di accese discussioni fra testate, fossero di militanza giovanile oppure di già affermata importanza, cui venne riservato uno spazio di libertà che gli storici sottolineano come particolare, in uno Stato che ambiva a definirsi totalitario.

Cavanna, in proposito, spiega con parole importanti il nesso fascismo-cultura elaborato da Bottai, che fu il pilastro attorno al quale ruotarono tutte le grandi tematiche ideologiche, dal progressismo alla cura per i valori tradizionali, dalla politica sociale a quella estera, a certe tendenze in specie giovanili di avvicinamento alla Russia sovietica, alla lotta al capitalismo, allo svolgimento del grande tema idealistico dell’italianità. Lo Stato fascista avrebbe dovuto lavorare tutti i giorni, e in tutti i campi, come l’educatore del popolo, a cominciare dai giovani, in qualità di indicatore delle tappe da raggiungere in continua successione:

Il “divino ufficio” della cultura, per lui, era la sua funzione di sostenitrice e d’aiuto indispensabili per l’elevazione del cittadino verso mete superiori. Caratteristica, in Bottai, come del resto nel suo maestro Gentile, è la funzione educatrice della cultura. Egli vede una quasi identità tra cultura, etica e pedagogia in quanto, proprio come nell’attualismo gentiliano, ricercare è educare e nel contempo auto-educarsi. Ma il fascismo non volle educare soltanto, ma educare politicamente, affinando – alla maniera di tutte le vere rivoluzioni – la sensibilità comunitaria e l’istinto partecipativo delle grandi masse moderne: Naturalmente “Critica Fascista” non si può definire una rivista culturale per eccellenza; il suo ruolo, nella realtà politica del Ventennio, è superiore. Le sue ventiquattro pagine quindicinali vogliono dare una risposta essenzialmente politica ai problemi del momento anche se, come s’è detto, in tale risposta la cultura ha il suo importante ruolo.[6]

Il significato generale, storico, di un’esperienza lunga e laboriosa come quella della rivista “Critica Fascista” risiede certamente nel valore dell’intelligenza, che venne dispiegata per innalzare il livello del dibattito ideale e politico del tempo. Un’intelligenza che gli storici di solito riconoscono a Bottai e ai suoi collaboratori, ma che sovente purtroppo non si rintraccia in quanti, per piaggeria o ignoranza, non sanno o non possono cogliere il significato di un’intera epoca, che va ben oltre i bilanci terroristici stilati dai vincitori in sede storica. A sfogliare la rivista di Bottai, come si potrebbe fare per molte altre pubblicazioni dell’epoca, l’uomo libero del nostro tempo trae la sensazione che – al di là degli errori e dei tragici lutti finali – la disperata volontà del fascismo fu di costruire sulla nostra terra una sorta di nuova Atene in perenne fermento di idee e di opere, in un clima di febbrile volontà di oltrepassamento. La si direbbe un’epoca in cui le idee circolavano più di quanto possa immaginare chi attribuisce a quel movimento novecentesco solo caratteri per forza negativi. Il fascismo volle creare una nuova civiltà, sulle orme antiche del suo passato, ma tutta proiettata verso il futuro: se si ha un minimo di sensibilità estetica, cosa fu l’umanesimo del lavoro perseguito dall’ideale fascista lo si può intuire anche solo osservando il grande mosaico “L’Italia corporativa” di Mario Sironi.

Luca Leonello Rimbotti

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NOTE:

[1] Cfr. Angelo Polimeno Bottai, Mussolini, io ti fermo. Storia leggendaria di Giuseppe Bottai, scelse la patria, combatté i nazisti, Guerini e Associati, Milano 2023. Per l’appunto di “storia leggendaria” conveniamo si tratti. Bisogna infatti rimarcare che, prima dell’8 settembre 1943, Bottai non combatté affatto i nazisti, ma ne fu solerte e convinto collaboratore. Circa il suo positivo giudizio del nazionalsocialismo come sorta di “umanesimo razzista”, la sua assidua frequentazione di istituti ed esponenti nazionalsocialisti, i suoi viaggi in Germania, l’amicizia col ministro della Cultura del Terzo Reich Bernhard Rust, la guerra dell’Asse considerata come “guerra rivoluzionaria”, infine circa l’intreccio, portato avanti dal medesimo Bottai, fra «la campagna razziale e la polemica antiborghese, che vide molti esponenti della sinistra fascista associare l’ebraismo alla plutocrazia», cfr. Nicola D’Elia, Giuseppe Bottai e la Germania nazista. I rapporti italo-tedeschi e la politica culturale fascista, Carocci, Roma 2019, pp. 113-122. Circa poi la convinzione bottaiana che il «concetto ariano-nordico» rappresentasse al meglio «un ideale etico di pura genuina, originaria, italianità», cfr. ad es. Stefanella Spagnolo, La patria sbagliata di Giuseppe Bottai. Dal razzismo coloniale alle leggi razziali (1935-1939), Aracne, Roma 2012, p. 137. Ma il discorso sarebbe molto lungo.

[2] In Lino Ulderico Cavanna, “Critica Fascista”, un discorso interrotto, Passaggio al Bosco, Firenze 2024, p. 61.

[3] Cfr. Francesco Germinario, Fascismo e antisemitismo. Progetto razziale e ideologia totalitaria, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 53-54.

[4] Questa denominazione, di tipo parlamentaristico, come si sa è molto controversa, e il fascismo stesso, come detto, tentò di superare la dicotomia “destra/sinistra” presentandosi come un movimento – e poi un regime – che inglobava entrambe le tendenze. Tuttavia, molti fra gli stessi fascisti, da Carli a Ricci, da Farinacci a Bilenchi e a Malaparte, di dissero “di sinistra”. Bottai mostrò di apprezzare «un anticapitalismo concreto, applicato; il fascismo inteso come forza “di sinistra” superiore e non negatore degli ideali dell’89»: cfr. Diario 1935-1944, a c. di G. Bruno Guerri, Rizzoli, Milano 1982, p. 159. Ma anche in seguito, nel settembre 1941, tornò a farsi fautore di un «moto a sinistra», in nome del corporativismo. Su tutto l’argomento cfr. Giuseppe Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, il Mulino, Bologna 2000, in cui tra l’altro si cita il mio libro Il fascismo di sinistra. Da piazza San Sepolcro al Congresso di Verona, Settimo Sigillo, Roma 1989, che, molto modestamente, fu il primo in ordine di tempo a occuparsi di questo tema, poi divenuto di grande diffusione. Cfr. l’edizione aggiornata, Fascismo rivoluzionario. Il fascismo di sinistra dal sansepolcrismo alla Repubblica Sociale, Passaggio al Bosco, Firenze 2018.

[5] Cavanna, p. 174. Il convegno, cui parteciparono importanti studiosi come Volpicelli, Carnelutti, Sombart, Olivetti, etc., e che ebbe ripercussioni anche all’estero, ad esempio negli USA, dove il New Deal di Roosevelt si abbeverò non poco all’idea corporativa di intervento pubblico nella conduzione economica, fece da volano al fenomeno dell’Internazionale fascista, lanciato nei primi anni Trenta da Gravelli e Coselschi, e a cui contribuirono a livello europeo intellettuali militanti della cerchia di Bottai, come Spampanato e Luchini. Sulla risonanza mondiale della rivoluzione corporativa, cfr. ad es. Francesco Carlesi, Rivoluzione sociale. “Critica Fascista” e il Corporativismo, Aga Editrice, Milano 2015, pp. 320 e seguenti.

[6] Le due ultime cit. da Cavanna, pp. 188-189. Impossibile con far cenno alla qualità eccezionale dei collaboratori, alcuni dei quali l’autore non manca di ricordare: da Soffici a Spirito, da Pratolini a Piacentini, a Michels, Marinetti, Maccari, Malaparte, Pellizzi, etc. Tono più ancora d’alta cultura e di critica artistica e letteraria, oltre che naturalmente di sostegno politico, ebbe come noto la rivista “Primato”, fondata da Bottai nel 1940, alla quale collaborò, ancora una volta, il meglio dell’intellettualità dell’epoca.