La “Resistenza immaginaria” non poteva non avere un canto… immaginario!
Durante le nostre ventennali ricerche sulla RSI sull’Appennino Umbro-Laziale mai ci siamo imbattuti in canti partigiani. Questo non vuol dire che i ribelli, in queste zone, tra il 1943-1944, non avessero avuto dei canti propri, ma solo che l’elaborazione canora – come quella politica e culturale – fu estremamente limitata. E questo per una serie di ragioni, come l’impreparazione politica e culturale dei guerriglieri, la brevità dell’esperienza della guerra civile, ecc. Se vi furono canti, quelli furono essenzialmente canti politici del socialismo “antico”, come potevano esserlo Bandiera rossa o L’Internazionale. Nelle formazioni dei primi tempi o in quelle che non furono monopolizzate dal PCI forse si cantò qualche inno di tradizione risorgimentale – del resto, tutta la successiva produzione patriottica fu pesantemente influenzata dal fascismo – ma, ripetiamo, non ci sono giunti documenti su tutto ciò.
Che i partigiani comunisti cantassero canzoni intimamente politiche – della tradizione socialista – ci sembra del tutto coerente con il loro impegno nella guerriglia, che si proponeva la conquista del potere per instaurare la dittatura del proletariato con tutto il suo bagno di sangue “purificatore”. Che per il PCI, ossequioso esecutore degli ordini di Stalin, ciò costituisse un problema fu fin da subito evidente. Parallelamente alla “conquista” delle formazioni partigiane, infatti, subito si cercò di mascherare il loro volto politico, cercando così di oscurare le loro finalità politiche che avrebbero trovato l’opposizione di gran parte degli Italiani, antifascisti sì, ma non certo accondiscendenti verso i progetti totalitari bolscevichi.
Fu una lotta dura quella del mascheramento imposto ai partigiani dal PCI. Del resto, i ribelli erano saliti sui monti, ammazzando e facendosi ammazzare, non certamente per sostenere la dittatura di Badoglio, il Governo in nome di Sua Maestà il Re d’Italia (fino a poche settimane prima anche Re di Albania e Imperatore d’Etiopia), oppure una coalizione di partiti “borghesi” senza poteri e nessun seguito nel Paese, più proiezione di un vituperato passato che una conquista del “radioso futuro”.
Nel primo dopoguerra, tutti gli Italiani sapevano cosa era stata la cosiddetta Resistenza ma, poi, con gli anni, tale fenomeno storico perse le sue connotazioni reali, trasformandosi sempre più in mito che il PCI volle porre a fondamento non solo della Repubblica Italiana ma, addirittura, di tutta la storia d’Italia. Fu quell’operazione di manipolazione della storia, iniziata negli anni ’60, quando cominciarono a diffondersi in tutto il Paese i famosi istituti della Resistenza, foraggiati con milioni e milioni di Lire di denaro pubblico. A loro fu affidato il compito di riscrivere la storia della guerriglia – compito che si è poi ampliato a tutta la storia d’Italia – creando le premesse della nascita di un mito, che con la realtà dei fatti aveva davvero poca attinenza. È la cosiddetta “Resistenza immaginaria”, ovvero una rielaborazione politica e pedagogica dei fatti avvenuti tra il 1943 e il 1945, funzionale agli obiettivi politici del PCI che solo cementando un granitico antifascismo tra la popolazione italiana poteva aspirare alla conquista elettorale del potere, agganciando in un “compromesso storico” la DC. Come, per l’appunto, a “bei tempi” dei Comitati di Liberazione Nazionale. Con questa impostazione storica, i CCLN dovevano porsi a base della legittimazione di tutti i Governi italiani.
Come nella Primavera 1944, il compito principale del Partito Comunista fu quello di oscurare il volto politico della guerriglia, cancellando intere pagine di storia “scomode” (leggasi: i crimini contro l’umanità commessi dai ribelli) ed inventando fatti mai avvenuti. Il tutto condito da mezze verità, episodi reali e verosimili, nella tradizionale e consolidata opera di disinfomatja tipica dei bolcèvici, attraverso la quale si è riscritta la storia d’Italia, poi fossilizzata in dogma storico inconfutabile, da difendere ad ogni costo contro tutti coloro – non importa se animati da onestà intellettuale o da semplice curiosità – che avessero voluto sottoporla al vaglio dei documenti.
In questo scenario di depoliticizzazione e manipolazione, un ruolo non secondario ebbe anche una canzonetta, subito elevata agli onori degli altari dai comunisti ed oggi considerata il principale, se non l’unico, canto partigiano, che tutti devono cantare, dai bambini delle scuole ai politici di primo piano, dai personaggi dello spettacolo a quelli della cultura: Bella ciao. Un canto talmente condizionante, una vera e propria marchetta da fare al sistema ciellenista al potere per garantirsi una qualsiasi carriera e un qualsiasi impiego ben remunerato con i soldi pubblici, che non stupirà sia stata proposta addirittura come inno nazionale! Nella Primavera del 2021, si evidenzi la data, un gruppo di Parlamentari del Partito Democratico, Italia dei Valori, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali (sigle transitorie, ma riconducibili a partiti di sinistra ovviamente), ha presentato un Disegno di Legge per far eseguire Bella ciao dopo l’Inno di Mameli in tutte le cerimonie pubbliche per la festa del 25 Aprile.
Sebbene tale Disegno di Legge sia stato subito affossato nel ridicolo, chiara è la portata di una simile iniziativa e dove si vuole arrivare.
Oggi, dicevamo, Bella ciao è il canto della Resistenza per antonomasia, addirittura l’unico realmente conosciuto dagli Italiani come tale, intonato in ogni occasione, che sia una cerimonia pubblica, che sia una contestazione al nemico politico di turno della sinistra. È un canto per nulla impegnativo e compromettente. Serve a rafforzare il “nostro antifascismo”, direbbe uno Scurati di turno.
Eppure, tutta questa storia ha un aspetto grottesco: Bella ciao non fu mai cantata dai partigiani!
E questo si è sempre saputo, solo che per “abitudine”, perché il canto era “bello e funzionale”, la realtà dei fatti è passata in secondo piano e, alla fine, la si è cancellata, prima di tutto dalla coscienza. «Bella ciao fu un canto dei partigiani», si afferma solennemente e con orgoglio a sinistra, in specie da coloro che non sanno nulla di quello che accadde nel tragico biennio 1943-1945. Tuttavia, pochi, per dire nessuno, può indicare chi l’avesse cantata… Ma questo non ha nessuna importanza. Come la “Resistenza immaginaria”, inventata a tavolino e assurta a dogma religioso, anche Bella ciao ha subito la stessa trasformazione funzionale, con tanto di partigiani che, adesso, ricordano di averla cantata ai “bei tempi”…
Abbiamo detto che da anni si sapeva tutto, ma fino a che la realtà dei fatti veniva evidenziata nei ristretti ambiti culturali dei neofascisti, si ebbe facile gioco nello stendere una cortina fumogena su queste “provocazioni reazionarie”, ignorare e continuare a “cantare” come se nulla fosse. Un po’ come è avvenuto dopo la recente sentenza della Cassazione sul saluto romano. La Suprema Corte ha stabilito, tra lo sconcerto degli antifascisti di mestiere, che salutare romanamente durante una cerimonia – come quelle in ricordo dei caduti, col rito del “Presente!” – non costituisce reato, almeno che non si possa provare il tentativo di ricostituzione del Partito Fascista in atto (Legge “Scelba”) o che tale manifestazione costituisca un pericolo grave per l’ordine pubblico (Legge “Mancino”). Cosa impossibile infatti. Ebbene, nonostante ciò, alcuni “giornaloni” hanno titolato trionfanti: “Il saluto romano è reato”… Aggiungere altro sarebbe superfluo. «Nun ce vonno proprio sta’», si direbbe a Roma.
Del resto, come la sinistra influenzi ancora l’opinione pubblica, con la stessa destra che segue la scia del politicamente corretto, lo si è visto durante il “caso Salis”, l’antifascista italiana detenuta nelle carceri ungheresi con accuse che, se fossero vere, farebbero rabbrividire. Ebbene, nonostante le evidenze, tutta la sinistra – con la destra a rimorchio – si è mobilitata contro l’“ingiusta” detenzione di una cittadina italiana (antifascista ovviamente!) inscenando manifestazioni di solidarietà che non si vedevano dai tempi di Soccorso Rosso. Evidentemente, gli “amici di Achille Lollo”, il caro compagno implicato nel Rogo di Primavalle durante il quale rimasero assassinati i fratelli Mattei, ancora pontificano dall’alto della loro “superiorità morale”. Immaginiamo se nelle carceri ungheresi, con le stesse accuse, fosse finito un neofascista italiano…
E così, come il saluto romano è un reato nonostante la sentenza della Cassazione; così come la Salis è solo una “maestrina dalla penna rossa” ingiustamente incarcerata nonostante le accuse dei Tribunali ungheresi; Bella ciao è un canto partigiano che tutti devono cantare nonostante che durante la Resistenza nessuno lo abbia mai fatto.
La realtà dei fatti per gli antifascisti non è una discriminante, ci sono delle necessità morali che vengono prima di tutto e tutti. Costi quel che costi. Hanno ammazzato impunemente milioni e milioni di persone a fin di bene, per costruire il “paradiso in terra”, figuriamoci…
Per anni, quindi, si è avuto facile gioco nel sostenere che Bella ciao fosse un canto partigiano dall’alto valore morale che tutti devono cantare. Poi, un giorno d’Estate del 2018, una doccia fredda venne a turbare le coscienze di tanti antifascisti che per decenni si erano esibiti sulle cattedre di scuole ed università (con i soldi pubblici). Il giornalista Luigi Morrone – niente meno che sulle pagine in rete del “Corriere della Sera” – sparava, nel vero senso della parola, un articolo dal titolo sensazionale: La vera storia di “Bella ciao” che non venne mai cantata nella Resistenza. Un vero e proprio terremoto che fece tremare la terra sotto i piedi ai tanti intellettuali militanti di sinistra che avevano avallato nei loro studi la tesi del “canto dei ribelli”, individuando addirittura la formazione che la cantava (la Brigata “Maiella”) o i luoghi ove si era diffusa (Val d’Ossola, Langhe, Emilia, a seconda del “compositore”). Tutto falso, invece. Come i numerosi testimoni chiamati in causa. Mentivano, come sempre, sapendo di mentire.
Luigi Morrone ha ricordato che già da anni c’era chi sosteneva la tesi revisionista, citando chi aveva sostenuto che il canto fosse stato creato a tavolino dai giovani comunisti italiani durante la rassegna Canzoni Mondiale per la Gioventù la Pace, a Praga nel 1947. Ma nessun documento esisteva a sostegno di questa tesi. Tesi fantasiosa quindi, ma che apriva una breccia nel mito partigiano di Bella ciao.
Chi ha studiato la musica della canzonetta è entrato in un altrettanto complicato mosaico di ipotesi. La più accreditata, che trova almeno un riscontro nel motivetto del tutto uguale tra le due canzoni, è quella che vuole la musica cui si ispirò il ritornello di Bella ciao tratta dal pezzo Oi oi di Koilen, inciso da Mishka Ziganoff nel 1919, in un disco di musica Klezmer Yiddish, genere che fonde elementi popolari ebraici e slavi. Su quest’ultimi torneremo.
Quindi, se la musica ispiratrice bene o male ha una identificazione, quello che a noi più interessa è quando comparve il canto vero e proprio. È qui lo snodo cruciale di tutta la faccenda.
È accertato che nessun canzoniere partigiano del primo dopoguerra riporta tra i canti della guerriglia Bella ciao. Cosa che dovrebbe mettere fine ad ogni discussione, ma che invece – con sapienti giri di parole, “capriole artistiche”, illazioni e false testimonianze – viene semplicemente ignorata.
Ma, allora, quando nasce il famoso canto “partigiano”?
Sentenzia Luigi Morrone:
È […] del 1953 la prima presentazione Bella ciao, sulla rivista “La Lapa” a cura di Alberto Mario Cirese. Si dovrà aspettare il 1955 perché il canto venga inserito in una raccolta: Canzoni partigiane e democratiche, a cura della commissione giovanile del PSI. Viene poi inserita dall’Unità il 25 Aprile 1957 in una breve raccolta di canti partigiani e ripresa lo stesso anno da Canti della Libertà, supplemento al volumetto Patria Indifferente, distribuito ai partecipanti al primo raduno nazionale dei partigiani a Roma.
Nel 1960, la Collana del Gallo Grande delle edizioni dell’Avanti, pubblica una vasta antologia di canti partigiani. Il canto viene presentato con il titolo O Bella ciao a p. 148, citando come fonte la raccolta del 1955 dei giovani socialisti di cui si è detto e viene presentata come derivata da un’aria “celebre” della Grande Guerra, che “durante la Resistenza raggiunse, in poco tempo, grande diffusione”.
Nonostante questa enfasi, non c’è Bella ciao nella raccolta di Canti Politici edita da Editori Riuniti nel 1962, in cui sono contenuti ben 62 canti partigiani.
Bella ciao nasce così, inserita in un contesto di canti politici “e” della Resistenza nei primi anni ’50, poi confusa come canto politico “della” Resistenza. Ma la speculazione?
La speculazione è di poco successiva, quando negli anni ’60 si dovette reinventare un antifascismo popolare per sbarrare le porte governative al MSI o, meglio, per agevolare l’apertura a sinistra della DC, dapprima al PSI e, successivamente, al PCI, nell’ambito della riscoperta della “radiosa stagione” dei Comitati di Liberazione Nazionale, posti a fondamento del sistema politico della Repubblica. Comitati che avevano dimostrato come democristiani e comunisti potevano governare insieme. Le differenze politiche venivano meno davanti al grande valore morale comune: l’antifascismo. E Bella ciao fu funzionale a questa lettura: depoliticizzare e mitizzare un passato “comune” e porlo come base morale fondante la governabilità del Paese.
Ancora Morrone:
Sarà il Festival di Spoleto a consacrarla. Nel 1964, il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi come canto partigiano all’interno dello spettacolo omonimo e presenta Giovanna Daffini, una musicista ex mondina, che canta una versione di Bella ciao che descrive una giornata di lavoro delle mondine, sostenendo che è quella la versione “originale” del canto, cui durante la Resistenza sarebbero state cambiate le parole adattandole alla lotta partigiana. Le due versioni del canto aprono e chiudono lo spettacolo.
Una spiegazione di comodo che, comunque, attira l’attenzione di tutti. Il canto è funzionale all’operazione del PCI. La grande macchina propagandistica si mette così in moto.
Intanto, nello scenario dei “diritti d’autore”, si inserisce tale Vasco Scansiani che asserisce di aver scritto lui la versione delle mondine nel 1951 e di averla data alla Daffini e, nella discussione, si sostenne che la versione delle mondine fosse successiva a quella “partigiana” e non il contrario. Poi, si sono affacciati altri autori che, senza documenti, asserirono di aver scritto loro la canzonetta, ma sempre nel dopoguerra. Insomma, grande confusione senza nessuna prova, se non quelle che collocano Bella ciao – in tutte le sue versioni – negli anni ’50. Niente mondine anticipatrici, niente partigiani cantanti, quindi. Ancora una volta.
Davanti l’evidenza dei fatti e dei documenti la sentenza è stata impietosa:
Gianpaolo Pansa: «Bella ciao. È una canzone che non è mai stata dei partigiani, come molti credono, però molto popolare». Giorgio Bocca: «Bella ciao… canzone della Resistenza e Giovinezza… canzone del Ventennio fascista… Né l’una né l’altra nate dai partigiani o dai fascisti, l’una presa in prestito da un canto dalmata, l’altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell’Italia antifascista e di quella del Regime mussoliniano… Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto».
Sebbene Bocca erri su Giovinezza la cui sola musica deriva da un canto giovanile universitario, ma fu fatta propria, cambiando le parole ovviamente, dagli Arditi della Grande Guerra, dai Legionari dannunziani e, infine, dagli squadristi fascisti, la sentenza del giornalista-partigiano (ex fascista) non ammetterebbe appello. Eppure, ancor oggi, si fa finta di nulla.
Ma Bocca ci dà il là per introdurre l’ultimo “schiaffone” al mito del “canto della Resistenza”. Abbiamo visto il giornalista-partigiano dichiarare che il testo fu preso in prestito da «un canto dalmata», cosa che non è stata specificata ed è caduta senza seguito. Ha chiuso il cerchio, scrivendo la parola fine al decennale dibattito sulla canzonetta, Renzo de’Vidovich, Presidente, tra l’altro, del Centro di Ricerche Culturali Dalmate di Spalato. Dalle pagine del giornale “Il Dalmata Libero” ha denunciato che il testo di Bella ciao, oltre ad essere stato scritto nei primi anni ’50, non è nemmeno originale, ma volgarmente copiato da una canzone dalmata, quella delle Bersagliere di Dalmazia, scritta alla fine del XIX secolo:
In verità si trattava di molto di più [della derivazione da un canto popolare dalmata, come asserì Bocca, “molto di più”], cioè l’inno delle donne Bersagliere di Dalmazia nate a cavallo dell’ ‘800-1900, quando sorsero a Sebenico, Zara, Spalato e Neresine dei reparti che l’allora alleata Austria consentì alle donne e agli uomini di Dalmazia di vestire con i colori della divisa dell’Esercito italiano ed il cappello piumato.
A leggere il testo della canzone si rimane a bocca aperta: “Una mattina, mi son svegliata / o bella ciao, ciao, ciao / e ho trovato in Dalmazia / un crucco invasor. / O Bersagliere, portami via / O bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao”.
E questo spiegherebbe, come abbiamo visto, anche l’utilizzo di un ritornello musicale popolare di origine slava che potrebbe essere stato preso proprio dalle Bersagliere di Spalato e Zara per il loro inno. Niente partigiani e niente mondine.
Testo e musica, abusivamente presi in prestito, quindi.
“Resistenza immaginaria” e canto immaginario, dicevamo.
E tutto ciò dovrebbe essere messo a fondamenta di uno Stato?