“Fondare Roma” ha sempre significato qualcosa di più che la semplice “inaugurazione” di una nuova città: Roma non nasce come colonia, ma come “Urbe” – la città per antonomasia e il suo popolo resta un vero mistero nel panorama delle civiltà indoeuropee perché capace di coniugare retaggi antichissimi con nuovissime realtà. “Mettere insieme” è sempre stato il leitmotiv da quando Roma “appare” sulla storia: gli storici possono dibattere e scornarsi quanto gli pare sull’attendibilità o meno dei miti di fondazione che avvolgono Roma del mistero aurorale della sua nascita; noi che ci fidiamo sappiamo bene che a partire da un dato luogo e da un preciso momento lo spazio e il tempo di Roma ha inizio e distinguerà per sempre il prima dal dopo, il dentro dal fuori, l’amico dal nemico.
I Romani – la cui sensibilità divina è sempre stata sottovalutata – non hanno mai coltivato l’idea di “venire dal nulla”, anzi: “fondare” in latino si dice condere (il calendario romano calcolava il tempo Ab Urbe “Condita”, cioè dalla fondazione), un verbo composto da cum e dare e vuol dire appunto “mettere insieme”. Alla fondazione di Roma quindi corrisponde un momento irripetibile: un atto sacrale e giuridico allo stesso tempo. Per i Romani un popolo non era semplicemente un gruppo di uomini qualsiasi, ma l’aggregazione di uomini resi socii vincolati e solidali fra loro dalla condivisione di tradizioni, leggi e scopi. Un patto tra uomini, sì. Ma anche un patto con gli Dèi, perché a sovrintendere questa fondazione furono chiamati anche i celesti: all’epoca la terra non era in vendita, non era una “proprietà” umana ma parte integrante di un ordine superiore, un sovramondo sensibile ed intelligibile. Insomma per fondare qualcosa era necessario avere un pezzo di terra, e per avere un pezzo di terra bisognava ottenere l’assenso divino. Mettere insieme cielo e terra: una missione ambiziosa che resta tra le più sbalorditive mai tentate, soprattutto osservando ciò che Roma ha rappresentato per l’Italia, l’Europa e il mondo tutto nei secoli “storici” della nostra Era.
L’età oscura – il famigerato Kali Yuga – non inizia ieri. Probabilmente Roma – in quanto impresa collettiva, politica e divina – rappresenta il primo tentativo rivoluzionario per sovvertirlo: la dimostrazione pratica che anche immersi nella sua voragine una via “eroica” è percorribile da una comunità di destino. Quella stirpe di “eroi” a cui secondo Esiodo è data la possibilità di conquistare l’immortalità e di partecipare ad uno stato simile a quello dell’età aurea. Roma indica quindi nella sua stessa natura una via da seguire ed un principio d’azione: quella “pura azione” che per usare le parole di Julius Evola non ha solo il “significato di ascesi virile, ma anche di purificazione e via verso forme di vita superiori”. Sempre secondo Evola “tale eroismo dei migliori può realmente assumere una funzione evocatoria, quella, cioè, di ristabilire il contatto, da secoli allentato, tra mondo e sopramondo”.
Roma si configura quindi più come una possibilità che come una realtà data per sempre. Una possibilità di superamento dei limiti della condizione umana attraverso l’azione, oltre che con la contemplazione. Due poli per altro a cui lo stesso Evola dà medesima importanza e che può riscontrarsi in quella che Georges Dumézil definisce “antitesi complementare” tra la figura di Romolo e Numa accostandoli alla coppia divina Mitra-Varuna e che il filologo francese così espone: “Mitra è il sovrano nel suo aspetto razionale, chiaro, ordinato, calmo, benevolo, sacerdotale; Varuna è il sovrano nel suo aspetto aggressivo, cupo, ispirato, violento, terribile, guerriero”. La cosa incredibile, sottolinea lo stesso Dumézil, è come queste due figure sovrane di “opposizione collaborante” siano inserite entrambe nel tempo e nello spazio dei Romani e nella storia di Roma in “successione” e non solo come facce dello stesso oggetto: Numa segue Romolo al trono, ovvero l’aspetto “modificatore” di Numa corregge le “durezze” di Romolo. Un aspetto che vediamo ripetersi in tutte le cosmogonie indoeuropee: Zeus il regolatore subentra (dopo l’interregno di Crono) all’esuberanza di Urano; la stirpe degli Asen subentra a quella dei Vani ecc… In questa antitesi “apparente” vive tutta la tensione vibrante del mito di Roma:
“Tu non distingui l’un dall’altro volto ma pulsare odi il cuor che si nasconde unico nella duplice figura”
Canta D’Annunzio nel suo “Fanciullo”. È un caso, o forse no, che proprio nell’idea di gioventù si può leggere meglio questa feconda opposizione: Romolo è un giovane (iuuenis), Numa è chiamato a regnare in età già matura; il primo morirà presto in circostanze misteriose e sfolgoranti, il secondo ultraottantenne a causa di una malattia. Insomma, al principio di Roma – quella fase non ancora del tutto storica ma ancora mitica – sta la gioventù: irrazionale, esuberante, guerriera; quella che propriamente può definirsi “figlia di Marte”. Quello stesso Dio che esorta Romolo alla guerra con i Sabini e che sembra riecheggiare i più noti passi della Bhagavad-gita, riporta infatti Ovidio nei Fasti (3, 197-98): “Io ti ho ispirato, o Romolo, una risoluzione conforme alla Natura di tuo Padre: basta con le preghiere, ho detto; ciò che desideri, te lo daranno le armi”. È Romolo il fondatore, il Re Guerriero e non Numa, il Re Sacerdote e Legislatore. È la gioventù a dar vita alle primavere sacre dei popoli italici, e non è strano che questa sia personificata a Roma dalla Dea Iuuentas la quale si occupa della società proprio in ciò che gli assicura forza e durata, ovvero il perpetuo rinnovamento dei iuuenes. Ricorda ancora Dumézil come “gli Iuuenes non costituiscono solo l’essenziale della popolazione mobilitabile… sono anche la parte germinativa della popolazione, e in tal modo ne assicurano l’indefinito rinnovamento”.
È la gioventù quindi che fonda e feconda: l’atto fondativo di Romolo cos’è se non una fecondazione della Terra (il principio femminile per eccellenza, e che ha la stessa radice di feto) con le potenze del Cielo, l’elemento virile del deus–pater? È prerogativa della gioventù saper mettere insieme, conciliare le antitesi e percorrere nuove vie, sapersi sacrificare e combattere oltre ogni ragionevole dubbio, saper mettere in gioco quel “tutto o niente” che sta alla base di quello spirito eroico di cui si parlava sopra: quello spirito che può tagliare di netto il guscio dell’uovo cosmico come rappresenta Salvador Dalì nel suo celebre “Nascita dell’uomo nuovo”. Ricorda Jean-Pierre Vernant: “Il giovane uomo nel fiore degli anni e della bellezza che cade in battaglia non vedrà sul suo corpo gli avvizzimenti, il rammollimento che l’età reca ai mortali”. Il giovane è colui che ha ben chiari quali sono i “beni essenziali” che non sono sostituibili e che “quando vengono perduti non possono più essere ritrovati”. È l’onore eroico, cioè ciò che in ogni momento decisivo non è monetizzabile o commerciabile.
Roma dalla sua fondazione fino ad oggi è una storia di gioventù, uno spirito ardito che sa portarsi oltre le apparenti dualità per tracciare un percorso che le sintetizzi in avanti. Romolo è violento e rapido, intorno a sé ha sempre dei giovani che si chiamano Celeres (veloci) che lo servono camminando davanti a lui, scartando la folla con cinghie e bastoni. Saranno proto-squadristi? Sono sempre i giovani a scrivere le pagine più eroiche della sua storia: da Muzio che dichiara la guerra della gioventù romana al Re Porsenna fino a quella “gioventù militare” che come ricorda Tito Livio si barrica nel Campidoglio all’arrivo di Brenno per difendere “gli Dei, gli uomini e il nome romano”. A loro si rivolgono i vecchi abbandonati nel momento di crisi, “affidando al loro coraggio e al loro giovane vigore tutte le speranze che restavano”. Roma vive costantemente in questa tensione forza /saggezza, arditismo/sacerdozio, ma sarà sempre la forza a rompere quello stallo che nessuno riesce a risolvere altrimenti: è la via dell’azione, è la via della gioventù, è il potere fondativo che si perpetua nello spazio e nel tempo come un continuo sovvertimento e messa in forma del principio Romuleo e Numinoso.
A fianco ai giovani ci sono i seniores, destinati nel migliore dei casi a diventare maiores, intesi come coloro a cui i giovani si ispireranno. I senatori, formalizzati proprio da Romolo, destinati a consigliare: la bellissima etimologia che ipotizza cum sidere (sedere assieme) o cum silere (fare silenzio assieme). Momenti sacri in cui le parti sono riunite e creano i destini con atti magico sacrali. Seniores sono anche i patres, custodi dei riti e dei culti. Senatori sono coloro che non abbandonarono Roma all’arrivo dei Galli, ma rimasero seduti ad attenderli simili a statue dalle fattezze divine, tanto da impressionare gli invasori che non riuscivano a distinguerle da quelle di marmo e pietra. Circa ottanta furono i senatori che trovarono la morte nella battaglia di Canne. Come urlavano i latini, nel nono canto dell’Eneide, ai Troiani sbarcati nel Lazio: “Né la tarda vecchiezza indebolisce i vigorosi spiriti o li muta: l’elmo calchiam su la canizie, e sempre fresche amiam prede e viver di rapina”.
Il Senato rimase sempre l’ultimo baluardo di fronte ai nuovi culti che minavano le radici e i valori fondanti di Roma: famoso fu l’editto contro i Baccanali che portò a quasi diecimila condanne a morte, come riporta Livio “non tutti gli accusati furono condannati, ma la maggiorparte”. Purtroppo non ebbe lo stesso successo l’opposizione del Senato di fronte all’imposizione del cristianesimo, o il tentativo di ripristino dell’Altare della Vittoria: tragici eventi che stravolsero Roma e ne determinarono la caduta (almeno sul piano visibile).
Ben diversi dai moderni pensionati che osservano l’impercettibile avanzamento dei cantieri, i maiores hanno sempre svolto la funzione di custodi del sacro e, alla bisogna, hanno indossato elmi e corazze per difendere Roma.
Non c’è modo migliore quindi di concludere questa escursione nella fondazione di Roma – o sarebbe meglio dire fondazioni? – che tentare di riprendere il filo da dove abbiamo iniziato, ovvero quel “mettere insieme” che a Roma si diceva condere-fondare. L’episodio che più ci permette di intendere Roma come una possibilità eroica che si propone a noi abitanti di un’epoca oscura; di vedere quel pendolo che oscilla costantemente tra irruenza e saggezza, tra Mitra e Varuna, tra Romolo e Numa. È il momento finale della guerra tra i Romani e i Galli di Brenno, quando la città con tutte le sue promesse di imperio universale sembrano svanite nel nulla e nei miasmi di una città completamente sfigurata dalla guerra. Furio Camillo, il vincitore, tiene un discorso ai cittadini romani che presi dallo sconforto vogliono abbandonare l’Urbe e trasferirsi a Veio. Oltre il ben noto “Hic manebimus optime” Furio Camillo rimette insieme il volto diviso di Roma, la sua testa:
“È qui che c’è il Campidoglio dove un tempo, quando vi fu scoperta una testa umana, gli interpreti dichiararono che la testa del mondo, la sommità dell’impero, sarebbero stati in questo luogo. È qui, quando si trassero gli auspici per liberare il Campidoglio dai suoi vecchi abitanti divini, che Iuuentas e Terminus, con grandissima gioia dei vostri padri, non permisero che li si spostassero. È qui che ci sono i fuochi di Vesta, qui gli scudi inviati dal cielo, qui tutti gli Dei che vi favoriranno se restate…”.
Vediamo due divinità minori associate a tutto ciò che di più alto aveva prodotto la religione romana: Iupiter stesso nel suo tempio capitolino e lo scudo che egli ha fatto cadere su Roma, custodito a sua volta dal collegio dei Salii di Marte, insieme a Vesta e il suo focolare perpetuo – non era forse Romolo il figlio di Marte e di una vestale Albana?
Iuuentas e Terminus partecipano della maestà del Dio Padre a tal punto che iscrizioni erano dedicate sia a Iupiter Iuuentas ed a Iupiter Terminus, insomma come attributi della stessa regalità propria del Dio Rex. Fondare e consolidare, guerra e pace, gioventù e maturità, conquista e confine.
Questa è Roma così come l’hanno immaginata i romani fin dalla sua fondazione: uno stato-dinamo, dove i fuochi perpetui della gioventù alimentano le fondamenta forti e durature, come due magneti che si attraggono e respingono costantemente generando quel movimento di cui nessun essere nell’universo può fare a meno. Questo è il significato che dobbiamo attribuirgli noi del presente, il quale seguendo il consiglio di Georges Sorel consideriamo i miti come “mezzi per agire sul presente”. L’irruzione del mito nella storia ha sempre segnato un momento rivoluzionario: pensiamo dopo alla caduta di Roma agli eventi che segnarono le imprese storiche di Giuliano, di Federico II, del Risorgimento Italiano o della nascita in seno al secolo di acciaio di un sentimento politico come il Fascismo che più di tutti mise Roma come sua stella polare. Sono sempre i giovani ad aver colto nelle alterne vicende i momenti di rottura, le faglie, le possibilità. Lo spirito ardito di chi nella dualità della opposta trincea si scaglia oltre il filo spinato nell’assalto, che non è mai solo assalto ad un nemico politico, ma un assalto a quella nostra parte meschina e debole, un assalto contro il nostro peggior nemico: noi stessi e la nostra paura della morte, il nostro istinto di conservazione e il nostro costante bisogno di certezze ed abitudini. La genialità e l’originalità di Roma sta proprio nell’aver posto alla base della sua civiltà questa lotta, questo confronto-scontro, questo Πόλεμος cosmico. Roma ha messo in forma umana e politica i moti perpetui di inverno e primavera, vita e morte, gioventù e vecchiaia. Roma ha riunito presente, passato e futuro nel medesimo istante in cui il suo fondatore scaglia la sua lancia sul Palatino: è un atto di forza e di presa di possesso, ma la lancia si pianta a terra e si trasforma in vivo corniolo, pianta robusta e duratura. Roma ci porta a testimonianza, ancora oggi, la più alta forma di civiltà organica, partecipativa ed eroica che il mondo ricordi. Fondare Roma è sempre possibile: ogni volta che in noi sappiamo conciliare e mettere insieme tradizione e rivoluzione, origine e missione.