Robot e Kami. La visione spirituale giapponese nella robotica e nei manga di genere mecha

Set 13, 2023

Tempo di lettura: 15 min.

La redazione di identitario.org, con grande piacere, riceve e pubblica questo bel contributo degli amici di Prometheica, che invitiamo i nostri lettori a seguire e sostenere…

«Un burattino senza spirito mette solo una gran tristezza. Soprattutto se nelle sue vene scorre sangue rosso».
L’affermazione di Batou, il forzuto cyborg partner del Maggiore Kusanagi, la protagonista dell’iconico Ghost in the Shell, è insieme enigmatica e provocatoria. Chiunque abbia visto il film sa bene come tutta la trama ruoti intorno a una grande domanda esistenziale: cosa ci rende noi stessi? Se tutto il nostro corpo venisse sostituito da parti meccaniche, questo ci renderebbe meno umani? Nel mondo futurista e cyberpunk di Ghost in the Shell la gente comune si dà una risposta molto semplice, forse superficiale, che tuttavia non lo è più di quella che ci si è sempre dati in secoli di storia. Quello che ci rende “umani”, o meglio vivi, è lo spirito. Il ghost del titolo, il quale vivifica un guscio vuoto, lo shell appunto. Ma in un mondo in cui robot puramente meccanici, umani del tutto “naturali” e ibridi cyborg convivono in un’armonia naturale, questo concetto vale per tutti. Lo shell è sia il corpo umano che l’esoscheletro cibernetico. E il ghost esiste sia per gli umani che per le macchine, financo per i software, come il virus Burattinaio che è il principale antagonista, se non co-protagonista del film. Un concetto che potrebbe far rabbrividire chi è abituato ad un modo giudaico-cristiano di concepire anima e corpo. Ma che, tuttavia, è del tutto normale in Giappone. E che proprio per questo rende l’Impero del Sole molto diverso dal cosiddetto mondo occidentale per quanto riguarda il rapporto con i robot e con le macchine.

Terminator vs Astro Boy

Spesso si fa notare come il rapporto dei Giapponesi con i robot sia quasi diametralmente opposto al nostro. Quando noi vediamo nei notiziari l’annuncio di un nuovo robot umanoide particolarmente “realistico”, la nostra reazione è quella di trovarlo inquietante. In parole povere: ci fa paura. In Giappone è invece tutto accolto con entusiasmo, i robot vengono comunemente utilizzati per scopi che ci farebbero inorridire, come tate, assistenti agli anziani e badanti, addirittura sacerdoti. L’esempio più estremo è appunto Mindar, un monaco robot installato nel tempio Kodaiji di Kyoto e progettato per recitare sermoni buddisti.
Questa opposizione totale di reazioni è stata evidenziata anche nella letteratura. James K. Wight, ad esempio, mostra due visioni “archetipiche” e diametralmente opposte riguardanti questo rapporto. In occidente c’è Terminator, manifesto del terrore umano su un futuro in cui le macchine possano prendere il controllo e invertire il naturale rapporto servo/servitore fino alle estreme conseguenze.

6x6 Astro Boy Pop Art stampa - Etsy ItaliaIn Giappone invece c’è Astro Boy, eroe simbolo del risveglio nipponico del dopoguerra attraverso il progresso tecnologico e che ha una particolarità ben rara nelle storie occidentali: è totalmente meccanico, un robot dunque, ma è il protagonista assoluto della storia, mai adombrato da personaggi umani. Alle stesse conclusioni giunge Amos Zeeberg:

«Queste visioni divergenti della tecnologia sono state rivelate nella cultura pop della seconda metà del XX secolo. Uno dei personaggi giapponesi più influenti di questo periodo fu Astro Boy, che fu introdotto nei fumetti manga nel 1952 e continuò ad apparire in libri, spettacoli televisivi, film e una vasta gamma di prodotti come action figure e trading cards. Astro Boy era un androide che usava i suoi poteri sovrumani per il bene e radunava il paese intorno a un messaggio positivo sulla tecnologia. […] L’Occidente ha anche raccontato storie positive sui robot, ma quelle più influenti riguardano le minacce che hanno posto all’umanità. In 2001: Odissea nello spazio, il sistema informatico intelligente Hal va fuori controllo e uccide diversi membri dell’equipaggio dell’astronave che controlla. In Do Androids Dream of Electric Sheep? e nell’adattamento cinematografico, Blade Runner, androidi dalle sembianze umane e convincenti si ribellano alla loro servitù finché non vengono cacciati e uccisi. La paura dell’Occidente nei confronti dei robot è stata cristallizzata con più forza nella serie Terminator, in cui la rete di computer di difesa SkyNet acquisisce consapevolezza di sé, gli umani cercano di spegnerla e SkyNet usa androidi chiamati Terminator per far loro la guerra con successo. Molte opere occidentali di fantascienza richiamano gli stessi avvertimenti morali di Frankenstein e RUR: la follia di creare vita artificiale, il paradosso se qualcosa fatto dagli umani possa avere un’anima, l’impossibilità di far coesistere le persone con le nostre creazioni più sofisticate».

Terminator Survival Project è il nuovo videogioco open world di Nacon Studio Milan, teaser e primi dettagli

Una questione di spirito

Certamente l’influenza di Astro Boy nel segnare una via di speranza dopo il disastro della sconfitta bellica, che ha portato poi a una visione estremamente positiva della tecnologia e della robotica, è stata enorme. Il bisogno di trovare una via per risollevarsi e per colmare il gap con i nemici che avevano sconfitto il paese è stato uno dei motori del boom nipponico.

«Secondo Tezuka, lui era stato costretto a disegnare un quadro molto ottimista della tecnologia dalla sua casa editrice e dai suoi lettori per dare speranza ai giapponesi, che negli anni ’50 soffrivano ancora delle distruzioni della guerra e della consapevolezza della loro inferiorità tecnologica rispetto ai vincitori occidentali della guerra».

E Astro Boy mosse davvero le coscienze, diventando un vero e proprio seme per il futuro nipponico e per la visione giapponese della robotica. L’ingegnere Yoji Umetani sostiene che

«la robotica giapponese è guidata dal sogno di Astro Boy. “Se non ci fosse la narrativa robotica, non ci sarebbe la robotica”, è il credo di molti ricercatori e sviluppatori di robotica in Giappone. Fin dal liceo, hanno sognato Astro Boy e sono diventati robotisti grazie a lui».

Ma al di là dell’influenza di Tezuka, per la quasi totalità di studiosi che hanno voluto analizzare la diversità di vedute tra Giappone e occidente, il motivo di questa assoluta divergenza di visioni ha radici principalmente religiose. Tutto sta nella radicale differenza tra una visione profondamente influenzata dalla morale giudaico-cristiana e una visione che invece deriva da secoli di tradizione del politeismo shintoista che non ha mai subito contaminazioni dal moralismo biblico.

«Secondo la visione tradizionale occidentale, una macchina che si comporta come una persona sta violando i confini naturali, confondendo pericolosamente il sacro e il profano. Questo avvertimento etico appare in modo prominente nei moderni miti sulla tecnologia, come Frankenstein, che deriva gran parte del suo messaggio morale dalla Bibbia, dice Christopher Simons, professore di cultura comparata all’International Christian University di Tokyo».

Nella visione cosmica e armonica nipponica, invece, non esistono contrapposizioni dualistiche, semmai complementarità naturali. Soprattutto è molto difficile pensare a una confusione tra sacro e profano. La vita giapponese è infatti permeata di sacro in tutti i suoi aspetti. Ogni atto della giornata viene effettuato in modo quasi rituale, cercando di farlo tendere alla perfezione. Soprattutto, si è sempre al cospetto del divino, poiché esso non è un qualcosa di solamente trascendente e soprattutto non è mai qualcosa di esterno al mondo naturale. Una delle caratteristiche principali della religione shintoista è la presenza di kami, che sono insieme spiriti e divinità, in ogni cosa. Non solo negli esseri viventi, in cui sarebbe naturale anche per noi considerare una presenza per lo meno animica di origine ultraterrena, ma anche negli oggetti. Chiunque sia stato in Giappone avrà sicuramente visto gli impiegati delle pulizie inchinarsi per un saluto reverente ai treni che hanno appena curato, ma basterebbe osservare anche i calciatori inchinarsi rivolti al campo al momento dell’ingresso o dell’uscita. Cosa fanno? Se glielo chiedeste, loro risponderebbero “stiamo salutando riverentemente i kami del campo”, o del treno, o di qualunque cosa stiano omaggiando in quel momento. Non è un esempio poi così distante dal concetto di daimon greco o di lar romano, quindi a qualcosa di culturalmente presente anche nella nostra identità ancestrale, anche se ovviamente ci sono notevoli differenze. Ma è qualcosa di lontano anni luce rispetto alla tradizione culturale cristiana o giudaico-cristiana che più di tutte ha influenzato il modo di pensare occidentale negli ultimi sedici secoli.

«I seguaci dello Shinto, a differenza dei monoteisti giudeo-cristiani e dei greci prima di loro, non credono che gli umani siano particolarmente “speciali”. Invece, ci sono spiriti in ogni cosa, un po’ come la Forza in Star Wars. La natura non ci appartiene, noi apparteniamo alla natura, e gli spiriti vivono in ogni cosa, comprese le rocce, gli strumenti, le case e persino gli spazi vuoti», spiega l’imprenditore Joi Ito.

Parole simili a quelle, ancora una volta, di Osamu Tezuka, il creatore di Astro Boy:

«I giapponesi non fanno distinzione tra l’uomo, la creatura superiore, e il mondo che lo circonda. Tutto è fuso insieme, e accettiamo facilmente i robot insieme al vasto mondo che ci circonda, gli insetti, le rocce – è tutto uno. Non abbiamo l’atteggiamento dubbioso verso i robot, come pseudo-umani, che si trova in Occidente. Quindi qui non c’è resistenza, semplicemente una tranquilla accettazione».

Ecco, quindi, che il robot non è più qualcosa che sfida le leggi della natura ma fa parte della natura stessa. E che non può essere visto come qualcosa di peccaminoso che va contro Dio proprio perché, anch’esso come tutto il resto, proprio per il fatto di far parte del mondo, non può che partecipare alla natura divina del cosmo.
Anche casi estremi come il monaco robot Mindar trovano una spiegazione naturale che per un giapponese è una ovvietà e mai una giustificazione. «In quanto giapponesi, possiamo sempre vedere una divinità dentro un oggetto», ha spiegato Kohei Ogawa, lead designer di Mindar. Shigeo Hirose, del Tokyo Institute of Technology, ha affermato: «I robot possono essere come santi – intelligenti e altruisti». Chiosa Daniel Dinello: «Forse i santi robot si evolveranno in Giappone, la cui costituzione impedisce la ricerca sulle armi e le cui società private finanziano quindi lo sviluppo della robotica per applicazioni commerciali». Di fatto oggi, secondo la Treccani, il Giappone è il maggiore produttore di robot al mondo e offre il 56% della fornitura globale, destinata soprattutto a Nord America, Cina, Repubblica di Corea ed Europa. Una leadership in cui è difficile non vedere l’influenza di un determinato retaggio culturale. Ha scritto Mario Vattani:

«È curioso constatare questo contrasto nel modo in cui asiatici e occidentali interagiscono con gli androidi. Può essere che le religioni monoteiste abbiano difficoltà a relazionarsi con una figura non organica ma intelligente. La tradizione orientale invece non ha alcuna difficoltà a dotare le cose di un’anima, come gli tsukumogami, oggetti domestici che dopo quasi cento anni al servizio di una famiglia, ne diventano parte. E quando alla fine viene il momento in cui si rinuncia alla compagnia di uno tsukumogami ormai inutilizzabile, lo si porta al santuario, dove viene bruciato in un’apposita cerimonia».


Pensare a un robot che abbia in sé la presenza non solo di un’anima, ma proprio di un kami è esattamente il concetto del ghost in the shell. Ecco perché nell’anime di Mamoru Oshii cade fin dal principio il problema etico del connubio uomo macchina, anzi l’unione finale tra il maggiore Kusanagi, cyborg dal corpo meccanico ma dal ghost umano, e il software senziente Burattinaio, programma puramente virtuale e senza “guscio”, viene visto come un atto di nuova creazione di un nuovo essere che supera i confini finora imposti dai limiti strutturali di uomo, macchina e software e che può dominare un mondo la cui infinita potenzialità, prima celata, gli si apre davanti agli occhi.

«Quando ero bambino parlavo come parla un bambino, pensavo come pensa un bambino, ragionavo come ragiona un bambino, ma una volta che sono diventato un uomo adulto, ho finito con eliminare tutto quello che apparteneva al bambino. Qui ormai non esistono più né il programma conosciuto come il Burattinaio, né la donna che si faceva chiamare maggiore. E ora, dove andrà questo nuovo essere creato? La rete è vasta e infinita».

Una visione che tuttavia non ha nulla del meccanicistico e a tratti messianico punto di vista del transumanesimo classico anglosassone. Non è un punto di vista evoluzionista, né di sconfitta della morte in senso scientifico, né un mito progressista di meccanizzazione dell’uomo. È anzi un atto di conquista e superamento teso ad una trascendenza, un diventare “altro” superiore rispetto alla propria natura originale e che ha come motore una pura volontà di potenza, conquista e affermazione.
Una visione che, in fondo, non è del tutto estranea al nostro mondo. È di fatti molto simile a quella del Transcendence di Wally Pfister, citato nel primo numero da Adriano Scianca, ma anche a quella di un Mafarka il futurista di Marinetti o de Il Guerriero dell’Anello, romanzo di Karl Edward Wagner con protagonista l’immortale Kane, eroe howardiano che, come il Conan a cui deve l’ispirazione, è fortemente influenzato dalla filosofia nietzschiana. Ma che, in più, assume anche un tratto metafisico in quanto non solo non nega, ma anzi afferma una natura divina da dover attuare.

Robot giganti, divinità possenti

Go Nagai, il creatore di Goldrake e Mazinga: Ma se un robot è “posseduto” da un kami divino, cosa potrebbe essere un robot gigante classico della letteratura dei manga che va da Go Nagai in poi, se non una possente divinità? Ed infatti fin dal primo cosiddetto Super Robot apparso nei manga, il celeberrimo Mazinga Z, tutti i robot giganti hanno sempre avuto le caratteristiche delle divinità giapponesi. In molti si sono soffermati sul loro aspetto di eredi futuristi dei samurai. Quando, ad esempio, nel febbraio 2009 fu allestita al Palazzo Reale di Milano la mostra Samurai, che raccoglieva armi, armature, elmi e accessori militari nipponici della collezione Koelliker oltre ad alcune opere provenienti dalle Raccolte d’Arte Orientali del Castello Sforzesco, l’ultima sala fu esclusivamente dedicata al mondo dei manga e degli anime. L’idea era proprio che i grandi robot che per primi sono arrivati in Italia dal Giappone, come Mazinga, Goldrake e Jeeg Robot, altro non fossero che moderni samurai. Anche esteticamente le fattezze dei grandi robot ricordavano le armature dei guerrieri giapponesi, soprattutto le teste che avevano chiaramente le fattezze del kabuto, il tradizionale elmo delle armature samurai. E non è un caso, infatti, che il primo “pilota” del primo Super Robot – Mazinga Z appunto – si chiamasse proprio Koji Kabuto e pilotasse il gigante proprio dalla sua testa. In alcuni casi, si pensi a L’imbattibile Daitarn 3 o a Gundam, la testa-elmo del robot era addirittura ornato con il datemono, il classico cimiero crestato posto sulla fronte dei caschi samurai.
Ma a ben vedere quei robottoni erano molto più che moderni samurai. A notarlo era stato persino lo scrittore di narrativa d’infanzia Gianni Rodari, che in piena querelle anti-cartoni animati giapponesi lanciata dall’allora partito comunista, scrisse in difesa degli eroi meccanici dalle pagine di Rinascita:

UFO Robot Goldrake - Wikipedia

«Invece di polemizzare con Goldrake cerchiamo di far parlare i bambini di Goldrake, questa specie di Ercole moderno. Il vecchio Ercole era metà uomo e metà dio, questo in pratica è metà uomo e metà macchina spaziale, ma è lo stesso, ogni volta ha una grande impresa da affrontare, la affronta e la supera. Cosa c’è di moralmente degenere rispetto ai miti di Ercole?».

Rodari aveva notato la palese caratteristica “divina” dei grandi robot spaziali degli anni ’70 e il paragone con Ercole era tutt’altro che casuale. Non solo per quanto riguarda le imprese da affrontare, ma proprio per una estrema similitudine mitologica e simbolica. Mazinga e i suoi eredi, proprio come l’eroe olimpico, combattono mostri e giganti che provano a divorare il cosmo, diventando i difensori del mondo terrestre e umano e i paladini delle forze luminose e solari, proprio come l’Ercole classico o il Thor norreno o l’Indra vedico. Ma vi è di più. Oltre alle caratteristiche estetiche prese in toto dalle armature nipponiche, i grandi robot condividono anche i poteri delle divinità che proteggono i luoghi sacri giapponesi. Ai lati degli ingressi dei templi buddisti del Giappone, solitamente, campeggiano gli dei-demoni Rajin e Fujin, spiriti guerrieri rispettivamente del tuono e del vento. Essi proteggono la sacralità divina dalle forze oscure e malevole. E a ben guardare i robot di Go Nagai e dei suoi emuli fanno proprio questo. Il colpo “tuono spaziale” di Goldrake, ovvero una scarica di fulmini lanciata dalle corna del robot, è palesemente parte del repertorio di Rajin, come di Indra, o Thor. E il raggio ciclonico di Mazinga Z, un soffio di vento lanciato dalla bocca meccanica e che diventa un vortice tempestoso che spazza via i nemici, simile alla tromba d’aria generata dal robot Getter 2, è chiaramente un potere preso da Fujin, o da Rudra. Ancor più simbolicamente palese è il potere di Daitarn 3, che sconfigge tutti i suoi nemici grazie all’attacco solare, divenendo così senza ombra di dubbi una manifestazione delle potenze luminose contro le forze demoniche. E i nemici dei robot sono sempre demoni infernali, siano essi esseri organici in carne ed ossa o anch’essi robot, ovviamente posseduti da yokai, spiriti malevoli, demonici e malvagi, così come Mazinga e i suoi sodali sono animati da kami.
Si potrebbe ribattere o ipotizzare, ad una prima analisi, che i nemici si contrappongano agli eroi proprio per il fatto di essere esseri meccanici “senzienti” e non “animati” dal coraggioso eroe umano. Ma, al di là del fatto che, come abbiamo visto per Astro Boy, questo dualismo è del tutto inesistente in Giappone, questa divisione non vale neanche per le storie con i grandi robot. Anzi, esistono casi in cui il robot gigante sia quasi del tutto autonomo rispetto al suo pilota umano e che proprio in questi casi assuma ancor più le caratteristiche di un dio possente. Dorothy Florence Holland-Minkley ha ben analizzato questi casi, prendendo ad esempio gli anime Giant Robot e The Big O.

«La storia [di The Big O] si svolge in una città in cui tutti gli abitanti hanno misteriosamente perso la memoria quarant’anni prima. La città era per lo più isolata; le pochissime persone che vi entravano erano misteriose e poco inclini a dire ai suoi cittadini cosa stava succedendo nel mondo. I robot stessi provenivano dalle profondità della città, dopo essere rimasti dormienti per anni finché non furono finalmente riscoperti dagli esploratori che cercavano di comprendere cosa fosse accaduto alla loro città dopo la strana comparsa dell’amnesia. Queste imponenti macchine sceglievano di obbedire a un umano ciascuna, anche se erano ancora in grado di agire indipendentemente. Il robot protagonista, per esempio, obbediva al protagonista della serie, Roger Smith. […] The Big O è capace di pensiero indipendente, in quanto agirebbe da solo per proteggere Roger se necessario, anche senza ordini, ed è assolutamente consapevole di ciò che lo circonda».

The Big O: Anime Review - Breaking it all Down

In questo caso vediamo che i robot sono esseri senzienti e coscienti che esistono da secoli e che vengono “risvegliati”, proprio come i demoni micenei di Mazinga Z, ma senza averne le caratteristiche malevole, tutt’altro. Anzi il loro essere, di fatto, delle divinità viene assunto come oggettivo dagli abitanti della misteriosa città da cui provengono.

«Un’altra caratteristica distintiva dei robot giganti in questa serie è che la loro divinità era resa chiara: indipendentemente dal fatto che le loro azioni servissero ad aiutare o a danneggiare l’umanità, ognuno di loro veniva indicato come un “megadeus”, un termine che è rimasto non tradotto nella serie ma che può essere chiaramente inteso come “grande dio”».

Analogamente, la Holland-Minkley analizza la storia di Giant Robot il cui protagonista meccanico, anche fisicamente, ha le sembianze di un dio antico di una perduta civiltà.

Giant Robot | Terre di Confine Magazine«Anche la natura semi-autonoma di Giant Robot è nettamente diversa dal caso americano. Giant Robot è completamente capace di agire da solo, e non esita a prendere l’iniziativa se sente che il suo operatore è in pericolo. Anche quando viene “manovrato”, i comandi che Daisuke gli dà sono generalmente poco specifici, come “Combatti!”. In realtà non ha bisogno di quei comandi, né di un operatore: sceglie di farsi manovrare da Daisuke per affetto verso il ragazzo. È chiaro, però, che Giant Robot esisteva molto prima che Daisuke nascesse e continuerà ad agire secondo la sua volontà molto tempo dopo che Daisuke sarà diventato vecchio e morto. Il fatto che scelga di obbedire a Daisuke è un favore per lui, non un obbligo».

Forse inconsapevolmente, l’autrice della tesi fa qui notare anche un altro importantissimo aspetto del rapporto tra robot e pilota, tra dio e uomo. Il Dio sceglie il suo campione e il campione ha la capacità di “costringere” il dio con cui ha stipulato un vero e proprio patto di fides ad agire secondo la sua volontà. Non è affatto diverso dalle pratiche rituali della teurgia del mondo classico del tardo Impero e dell’età ellenistica – e forse già di epoca arcaica – che poi sarebbero riemerse nel Rinascimento e più tardi con l’esoterismo alchemico.
In questa prospettiva viene quasi da pensare che questa fusione tra il pilota e il robot – sempre palese ed evidenziata dal profondo legame tra l’umano e l’essere meccanico, che porta anche a far avvertire al pilota il dolore negli stessi punti in cui il robot viene colpito – sia una unione che permette all’uomo di partecipare della natura “divina” del gigantesco mecha, permettendo dunque un superamento trascendente e guerriero. Se Goldrake è dunque il dio del Tuono, Daisuke non è altro che l’eroe che trascende divenendo esso stesso un dio tonante. Si può dunque dire che attraverso il fuoco prometeico della tecnica robotica, l’eroe trascende al divino attraverso una via marziale ed erculea. Con capacità che, viste dai limiti umani di chi quell’ascesi non la può affrontare, sembrano infinite e oltremodo pericolose.

«Chi otterrà quel potere avrà capacità infinite oltre l’immaginazione. È questa la facoltà che può scatenare questo Mazinger. Può diventare un Dio, ma anche un demone».

Autore :