La Redazione di Identitario.org ringrazia La Verità per la concessione dell’articolo.
Le migrazioni? Ci sono sempre state. Quante volte abbiamo sentito questa argomentazione, pronunciata con l’aria di chi crede di avere in mano una carta dialettica decisiva? In realtà, dire che qualcosa «c’è sempre stata» non vuol dire niente, perché innanzitutto bisognerebbe vedere se i fenomeni confrontati sono veramente paragonabili, e comunque bisogna sempre vedere «a che prezzo»? Nessun cambiamento storico, infatti, avviene in modo indolore, imponendosi con la sola forza delle sue «buone ragioni». Ogni tornante storico ha i suoi vincitori e i suoi vinti. E ci vuole poco a capire che nelle migrazioni odierne, i vinti, alla lunga, saremo proprio noi.
Alla natura capziosa, ipocrita e mendace di certi paragoni è in gran parte dedicato il saggio Contro il globalismo, di Tommaso Indelli (Passaggio al bosco). L’autore, storico e medievista, ha buon gioco nello smontare uno a uno gli argomenti di chi propone certi imbarazzanti paralleli. Prendiamo per esempio la fase storica che ancora qualche anno fa veniva chiamata delle «invasioni barbariche» (col tempo si è imposto il termine tedesco Völkerwanderung, migrazioni di popoli, per l’appunto).
«È improprio», scrive Indelli, «ogni paragone, in senso diacronico, tra l’immigrazione attuale e i fenomeni migratori che hanno riguardato l’Europa o altri continenti molti secoli fa, spesso invocato da storici, giuristi, intellettuali, giornalisti e politici appartenenti all’establishment immigrazionista europeo, per piegare il Passato alle necessità del Presente e giustificare, così, il flusso continuo e illegale di immigrati verso l’Europa». Nello specifico, «i “Barbari” erano agglomerati umani di poche centinaia di migliaia di guerrieri con uno spirito di coesione molto scarso, pur avendo caratteri culturali ed etnici condivisi dalla generalità dei loro componenti. Ignoravano la scrittura, avevano un artigianato sviluppatissimo e, in gran parte, appartenevano ad una matrice culturale comune, “germanica”, cioè indoeuropea: una categoria linguistica ed etnico-antropologica importantissima per comprendere l’origine profonda dell’identità culturale dell’Europa».
Indelli snocciola i numeri, per far capire le proporzioni: le invasioni barbariche avvenivano in un Impero romano d’Occidente che in tutto non contava più di 25 milioni di abitanti. I barbari, in compenso, non erano più di mezzo milione. C’è poi un altro fattore da considerare: quei movimenti di popolazioni avvenivano in un contesto dove i «diritti umani» non esistevano e la legge del più forte era largamente accettata come norma regolativa fondamentale delle relazioni umane. La violenza, tanto offensiva che difensiva, era incontestata e non dava adito a obiezioni. Chi invadeva, lo faceva con la forza, chi si difendeva, pure. Una sorta di meccanismo darwiniano, che nella sua brutalità aveva tuttavia un’onestà di fondo. Cosa un po’ diversa da uno scenario come quello attuale, in cui un presunto diritto universale che passa sopra agli ordinamenti postivi imporrebbe solo e soltanto l’accoglienza.
Anche la storia degli europei migrati dall’altra parte dell’Atlantico non è paragonabile ai movimenti demografici di oggi. All’epoca, scrive Indelli, «si emigrava verso tali territori per il semplice fatto che si trattava di nazioni in costruzione, in piena fase di sviluppo, di popolamento e di assestamento politico-istituzionale». Anche le ingenti risorse presenti in quei luoghi sono divenute tali solo a contatto con una civiltà che le ha sapute sfruttare. Ciò non toglie, tuttavia, che dal punto di vista delle popolazioni autoctone l’arrivo degli europei possa legittimamente essere visto come una iattura. Ed è proprio questo aspetto prospettivistico che manca ai sostenitori dei paragoni storici azzardati: anche ammesso che certi fenomeni siano confrontabili, se «le migrazioni ci sono sempre state» è anche vero che esse hanno incontrato sempre resistenze. L’eccezionalità del caso presente è nel fatto che si pretenderebbe la totale passività degli invasi.
Il saggio di Indelli, assolutamente condivisibile nei presupposti di fondo e nelle argomentazioni storiche, termina con una domanda: «Forse che, guardando anche alla contemporaneità, e in un futuro non molto lontano, la “salvezza” dell’Europa possa venire da Oriente?». La questione non è ulteriormente argomentata, ma la citazione successiva lascia intendere che questo Oriente sia quello russo. Giova tuttavia ricordare che la Russia ha tassi di fecondità paragonabili a quelli europei e un presidente che anche recentemente ha ribadito la natura intangibile del carattere multirazziale e multiculturale della Federazione, per non parlare dell’«antinazismo» paranoide che funge ormai da ideologia di Stato. Il che ci porta a concludere che la salvezza dell’Europa, semmai ci sarà, verrà sempre e solo dall’Europa stessa.