“Requiem for a dream”: l’importanza di un caso cinematografico

Ott 7, 2023

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Nel secondo semestre del 2000, in un anno fondamentale che, salutato il secondo millennio, viveva le prime incerte luci del terzo, dopo aver già seminato panico, sconcerto, orrore e raccapriccio nell’atmosfera ovattata del Festival di Cannes (fuori concorso), Requiem for a Dream si accingeva a fare il suo controverso approdo nelle sale americane. Per capire in pieno oggi, a più di vent’anni dalla sua uscita, l’importanza capitale dell’opera seconda dello statunitense Darren Aronofsky, un’importanza travalicante i pur ampi confini della cinematografia, è necessario però aprire una premessa piuttosto lunga, correndo indietro nel tempo di circa ben trent’anni, retrocedendo addirittura sino al fatidico spartiacque del Sessantotto.

Acquista Requiem for a Dream (2000) - Microsoft Store it-ITNel divenire della grande contestazione, all’abbattersi di un sistema educativo reazionario, paternalista e per molti versi discutibile, dalle sue ceneri ebbe purtroppo ad originarsene uno peggiore, che cestinando quel che di positivo il vecchio ordine ancora aveva in sé, riplasmò drasticamente la cultura, ed utilizzò i media, le università, i giornali, i concerti per imporre ovunque la nuova religione della sovversione e del materialismo, la quale, come ogni altro credo, necessitava senz’altro di un dogma centrale, un tratto identificativo, un cemento ideologico e simbolico collante ultimo di ogni rivendicazione. Non ci volle molto ad individuare tali dogmi, ben prima di qualsivoglia argomentazione politica: furono essi la rivoluzione sessuale, da cui a cascata discesero, fra le altre cose, la seconda, la terza, la quarta ondata del movimento femminista e la gender theory, e la diffusione massiva della droga, come autentico oppio delle coscienze.

A differenza del libertinaggio, sempre più consumistico e degenerato, il cui dilagare, dalle battaglie dei radicali sino all’esplosione della pornografia, ebbe un impatto diretto, immediato e talvolta anche contraddittorio, all’uso di droga, e particolarmente alla tossicodipendenza da eroina, venne attribuito una sorta di alone romantico, che si incistò in profondità e causò, sul breve, medio e lungo periodo, danni pesantissimi. La droga fu ovunque, e tanto più il suo utilizzo si espandeva in strati sociali anche eterogenei, tanto più si faceva evidente l’aura di “ribellismo”, di “maledettismo” che in modo più o meno esplicito veniva a caratterizzarla.

Un saggio notevole e celeberrimo di questo approccio, che si mantenne invariato attraverso tre decenni, si riscontra nel film Trainspotting (1996), opera di maggior risalto del cineasta britannico Danny Boyle. Notevolissimo successo di critica e botteghino (costato appena due milioni, ne incassò oltre settanta, finendo pure per guadagnare una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale), Trainspotting segue le vicende di un gruppo di giovani in quel di Edimburgo, amici fra loro ed associati dalla comune soggiacenza al giogo dell’eroina. Mark, questo il nome del protagonista interpretato da Ewan McGregor, sin dalle prime scene non fa mistero di quale sia la sua visione del mondo, chiarendola, in termini più che cristallini, già nella sequenza iniziale, uno dei segmenti cinematografici più omaggiati e celebrati di sempre, il cui famosissimo monologo vale la pena riportare:

Scegliete la vita; scegliete un lavoro; scegliete una carriera; scegliete la famiglia; scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. (…) Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi; scegliete un futuro; scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos’altro, le ragioni? Non ci sono ragioni, chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”

Non vi è bisogno di complesse esegesi per recepire il messaggio di tali accoratissime parole, messaggio che vediamo permeare l’intera opera, dal principio al suo termine. L’alternativa antinomica ed irriducibile al conformismo piccolo-borghese ed agli orizzonti limitati dei benpensanti – questo, in estrema sintesi, affermerebbe Mark – non si individua nell’Uomo, in colui che, pur vivendo nel mondo, vuole mantenersi sano e saldo, dritto in piedi guardando avanti, bensì nell’eroinomane, nel tossicodipendente che annichilisce sé stesso pur di non diventare un cittadino obbediente, figliolo compito e perbene “che tanto piacerebbe alla mamma”. Nonostante alcune scene di sicuro impatto – la rivoltante sequenza del bagno sudicio, le crisi di astinenza del protagonista, ed infine la morte di una neonata nell’incuria dei genitori strafatti – anche il trionfo finale di Mark, il suo diventare un “bravo ragazzo” dopo aver truffato i propri ex-amici, altro non fa che confermare la tesi di partenza: l’unica via di redenzione per un eroinomane è “arrendersi”, e tramutarsi in quel piccolo-borghese già aspramente spregiato, riproponendo inalterato il dualismo secco che tanto ha supportato la narrativa che andiamo delineando.

Requiem for a Dream - Recensione, trama, trailer - Ecodelcinema

Dalla musica rock, le cui morti per overdose si susseguivano nell’ammirazione dei giovani per le star che “avevano saputo liberarsi”, al cinema, dall’arte performativa alla letteratura, gli esempi in tal senso davvero non si contano. La deprecabile epopea di Woodstock probabilmente ne costituì lo zenit, ma la romanticizzazione della droga come supposto mezzo di affermazione della persona in contrasto alla società borghese finì per essere letteralmente onnipresente, e per tre decenni infrangere tale schema sembrò concretamente impossibile. Mantenendosi nel campo della Settima Arte, non è difficile constatare come, fra i molti progetti aventi la droga quale fulcro concettuale, anche quelli apparentemente disposti a mettere in discussione un certo stile di vita non si mostrassero in realtà mai pronti a muovere un passo veramente definitivo. Se modeste produzioni, quali Amore tossico (1983) del nostro Claudio Caligari, tratteggiarono tossicodipendenti troppo devastati, abbrutiti ed irrecuperabili per permetterne una qualche immedesimazione nello spettatore desideroso di recidere i vincoli del vizio, tante rinomate opere, pur condannando nella teoria determinate istanze, non riuscivano nella pratica a distaccarsene del tutto, lasciando alle proprie trame una sfumatura glamour destinata a portare inevitabilmente il pubblico a conclusioni assolutorie; ecco dunque che lo spacciatore Bobby di The Panic in Needle Park (1971), interpretato da un Al Pacino fascinoso e tormentato, trova ad aspettarlo fuori dal carcere la sua amata, che pure, stanca delle sue intemperanze, lo aveva denunciato alla polizia e fatto arrestare, ed ecco come la comparsata di David Bowie nei panni di sé stesso e la colonna sonora alla moda di Christiane F. – Wir Kinder vom Bahnhof Zoo (1981) sostanzialmente ne vanifichino ogni sforzo.

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Cosa accadde, dunque, in quell’inverno di più di vent’anni fa? Perché la rilevanza del capolavoro esaminato in questa sede è da considerarsi a tal punto pivotale?

Requiem for a Dream, suddiviso in tre capitoli intitolati significativamente “Estate”, “Autunno”, “Inverno” – l’assenza della “Primavera” è deliberata – non mostra relitti umani, né ragazzi che giocano a fare i finti ribelli, né adolescenti in crisi. Requiem for a Dream, infatti, parla di persone normalissime, con l’unica, drammatica tara di un’enorme fragilità spirituale. Si può in sicurezza affermare che senza questo colpo di biliardo, l’opera di Aronofsky sarebbe passata oltre senza nulla incidere, al di là di criteri valutativi meramente tecnici, perdendosi nel mare magnum di un argomento ampiamente trattato. A differenza dei protagonisti di Trainspotting, i membri della famiglia Goldfarb non sono irredimibili sbandati, completamente avvinti da un deplorevole marciume che rivendicano con orgoglio. Sara Goldfarb (Ellen Burstyn) è infatti una paciosa e bonaria casalinga sessantenne, rimasta precocemente vedova, la cui vita di poche pretese si dispiega sempre uguale fra lunghe chiacchiere con le vicine, un’indole sedentaria che la conduce a trascorrere molto tempo davanti al televisore, e la speranza di un avvenire roseo per il proprio unico figlio, Harry (Jared Leto), la cui attitudine affettuosa ed una certa propensione alla menzogna nascondono un’esistenza ben lontana dalle dorate fantasie della madre. E’un tossicodipendente, Harry, così come la bella fidanzata Marion (Jennifer Connelly) ed il migliore amico Tyrone (Marlon Wayans); è anche un ragazzo debole, abituato a vivere di espedienti, che però nonostante tutto non rinuncia a sognare. Vorrebbe un futuro costruttivo, Harry, sposarsi con l’adorata Marion, ed assecondare il desiderio di lei di aprire un atelier di moda e diventare stilista; anche la madre bramerebbe uscire dalla monotonia del quotidiano, sperimentando ancora l’emozione di una felicità autentica della quale la vedovanza l’aveva resa dimentica, e l’inaspettatissma chiamata a partecipare come ospite al proprio quiz televisivo preferito sembra esser per Sara l’occasione, la svolta, l’evento risolutivo, da celebrare indossando un abito rosso nel quale tuttavia una linea perduta da tempo non le permette proprio di entrare. Sull’orlo di un desiderio che pare prossimo a realizzarsi, però, ecco avere inizio la caduta. Un dietologo disonesto, contro ogni deontologia professionale, prescrive a Sara delle pillole magiche per dimagrire, che all’insaputa della paziente si rivelano essere amfetamine; il traffico di stupefacenti maldestramente messo in piedi da Harry e Tyrone, finalizzato a racimolare i fondi necessari per cambiar vita, dopo un effimero successo fallisce miseramente, lasciandoli in brevissimo tempo privi di risorse. Ecco dunque il demone della droga stagliarsi in tutta la sua crudelissima ferocia, come un drago sbranando su schermo, sequenza dopo sequenza, i fragilissimi protagonisti.

Requiem for a Dream | Film inspiration, Film stills, Film movieÈ un vero massacro, Requiem for a Dream, ed il verbo “sbranare” non è usato a caso. Scena dopo scena, infatti, fra luci che divengono progressivamente più fredde e lugubri, ed inquadrature a grandangolo storpiate e deformate, la droga si mangia tutto, dilania le anime, sfregia i corpi, invade le menti e distrugge gli affetti; scena dopo scena, l’orrore diviene sempre più manifesto, un orrore rabbioso, sanguinario, quasi allucinatorio. L’eroina, l’amfetamina non hanno più niente di glamour, di anticonformista, di bohémien, non c’è pietà per chi, inchinandosi alla propria debolezza, e con il concorso di altre dipendenze così diffuse nella nostra epoca – la televisione, in particolare, vera sirena tentatrice della povera Sara – ad esse si concede, ed oltre la pastiglia, oltre il buco, oltre la dose, altro non rimane che la più dolorosa e devastante delle disfatte.

Arrivare alla conclusione dei 97 minuti del capolavoro di Aronofsky non è affatto semplice. È una sofferenza, quella rappresentata, che si vorrebbe respingere, dalla quale ci si vorrebbe allontanare financo con lo sguardo, domandando istintivamente una tregua per chi si trova a pagare tantissimo, e che sempre di più viene maciullato, sino ad altro non averne che poltiglia. Giunge però l’ “Inverno”, e l’apoteosi della tragedia si compie. Harry, corroso dalle cancrene, viene ricoverato in ospedale per un’amputazione d’urgenza; Tyrone, arrestato, è condannato ad una lunga pena detentiva, ed assegnato ad un campo di lavori forzati; Marion, abbandonato il fidanzato, dona totalmente il suo corpo alla droga, prostituendosi; Sara, resa folle dalla dipendenza, finisce in manicomio, dove un elettroshock le sottrae definitivamente ogni lucidità. Gli ultimi dieci minuti del film emergono con forza fra i più sconvolgenti di tutta la storia del cinema, ad un montaggio forsennato, aggressivo e sincopato, sovrapponente le immagini dell’orrendo elettroshock di Sara, di una squallidissima performance di Marion per i sollazzi di un gruppo di danarosi depravati, della nuova durissima vita da prigioniero-schiavo di Tyrone, e del sanguinolento ricovero di Harry, facendo seguito le strazianti note di “Lux Aeterna” del compositore Clint Mansell, ed il congedo dei quattro protagonisti che, privati ormai chi della propria dignità di donna, chi della propria salute e dei propri arti, chi della propria sanità mentale, chi della propria libertà, si abbandonano in silenzio ad un annichilimento, ad un’illusione, ad una disperazione, ad un rimpianto destinati a non aver sollievo.

Requiem For A Dream' Poster By Graphix Displate | lupon.gov.phDall’uscita di Requiem for a Dream in avanti, non sono mancati film inerenti lo spinoso tema – fra gli altri si può citare il gioiellino dei fratelli Safdie Heaven Knows What (2014), ancora inedito in Italia – ma la narrativa romanticheggiante che abbiamo descritto si è sgretolata, venendo finalmente meno, troppo funesta ed atroce la sorte di Sara, Harry, Marion e Tyrone per poter essere ignorata a livello immaginifico, indorando il loro invisibile aguzzino con stolte sfumature di fascino ribelle fuori tempo massimo; in un vero circolo virtuoso, inoltre, sempre più cineasti di talento hanno trovato il coraggio di guardare oltre putrefatte retoriche, affrontando anche altre dipendenze in espansione – memorabile, in tal senso, il tragico capolavoro di Steve McQueen Shame (2011), con un magistrale Michael Fassbender nei panni di un uomo schiavo della pornografia – e denunciandone perentoriamente l’estrema dannosità personale e sociale. Non solo: scorrendo i commenti agli estratti dal film pubblicati su YouTube, è possibile leggere le testimonianze di innumerevoli internauti, narranti come la traumatica visione di Requiem for a Dream abbia dato loro la forza decisiva e la risolutiva spinta per ergersi e sconfiggere la bestia che li opprimeva, spezzando le catene della tossicodipendenza e tornando a vivere. L’opera di Aronofsky, così come il dickensiano “fantasma del Natale futuro”, ha saputo infatti mostrar loro, nella più aspra misura possibile, cosa avrebbero trovato al termine del gorgo che già li aveva risucchiati, se non fossero stati in grado di vincere le proprie debolezze, prevalendo su sé stessi: non redenzione, non amore, non solidarietà, ma soltanto distruzione, angoscia, umiliazione, morte.

Ecco dunque lo sgomento di molti – forse neppure totalmente disinteressato – in quel lontano 2000, ecco oggi l’inalterata nitidezza del valore di questo capolavoro, la cui importanza, vent’anni dopo, appare ancora ben lungi dal venir meno. In un tempo in cui, da una critica troppo spesso assertiva e conformista, e da un pubblico avvezzo a ricever sempre meno e mirare sempre più in basso, viene assegnato all’Arte un ruolo meramente conciliatorio, moderatore, rilassante, o in cui l’Arte stessa è al contrario spacciata per vana ed allineata provocazione, oltremodo appaiono infatti quanto mai necessarie opere coraggiose, in grado di spostare la visuale, infrangere specchi di cristallo, aprire squarci e rivoltare coscienze, anche e soprattutto laddove stantii status quo davvero non gradirebbero.