La Redazione di identirario.org, con piacere, ripropone lo stralcio di un’opera pubblicata da Passaggio al Bosco Edizioni. Si tratta di “Stile Ribelle”, scritto a quattro mani da Mario Michele Merlino ed Emanuele Casalena. Quest’ultimo, nella seconda parte del testo, passa in rassegna moltissimi artisti italiani di grande valore, troppo spesso sottovalutati o volutamente silenziati dalla cultura ufficiale per via dei loro percorsi politici o ideali “non allineati”. Tra questi, con tutte le sue sfumature, figura anche Ottone Rosai.
Sono le 13.30 del 15 aprile 1944; l’auto di Giovanni Gentile è al portale di villa Montalto, al Salviatino, residenza del filosofo. S’arresta, l’autista scende ad aprire il cancello: due gappisti si avvicinano alla macchina, uno di loro – Bruno Fanciullacci – picchia sul vetro. Gentile lo abbassa e lui gli chiede: “È lei Giovanni Gentile?”, “Sì”, “Questo lo manda la giustizia popolare”. Questo sono sette bang a bruciapelo: l’accademico morirà all’ospedale di Careggi per le ferite. Fu un assassinio premeditato dal Pci mediceo, l’ipotesi oggi più accreditata: l’esecuzione e la sua preparazione ricordano la strategia delle BR, con le fotografie del bersaglio per memorizzarne i tratti e l’indicazione di Gentile ai suoi carnefici – fatta dalla Chicchi (T. Mattei) – studentessa universitaria e sua allieva. “È lui Gentile”; il piano d’attacco appuntandosi orari, abitudini, tragitti: c’è un filo rosso con la tragedia del delitto Moro. L’esecutore materiale finì suicida il 17 luglio, volando giù da una finestra di villa Triste: un gesto per turarsi la bocca, non rivelando i nomi dei compagni del GAI, o insopportabile peso della delazione? Qualcuno sostiene che il Fascismo si spense quel 15 di aprile, col cuore del suo più alto intellettuale. A questo “eroe” della resistenza gigliata fu attribuito anche l’attentato a Bruno Landi, il “Pollastra”, noto esponente fascista. Il Fanciullacci fu affrontato dai congiunti del ferito: volarono insulti e minacce, lui cercò di svignarsela; riconosciuto dalla polizia fu arrestato, torturato, ricoverato in ospedale, ma i compagni del Gruppo B riuscirono a prelevarlo dall’ospedale di Santa Maria Nova, beffando i piantoni, e in fretta e furia lo nascosero – con altri due gappisti – in casa del pittore Ottone Rosai in via de’ Benci, noto fascista rosso che aveva, dal ’44, allacciato contatti forti con la resistenza fiorentina. Comunque, al boia di Gentile, l’artista ebbe a dire, schifato: “Bella impresa uccidere un povero vecchio”.
Non è poi così strano che questo Pasolini coi pennelli, violento antiborghese, anarco-fascista come Viani, Ricci e Gallian, picchiato duro dopo il 25 luglio del ’43 per la sua militanza in camicia nera, ma forse ancor di più perché “frocio”– ut olim dicebatur– volga alla sponda rossa. Il Fascismo toscano, quello di Pavolini, del Bargello e dell’Universale – fondato dall’anarchico nero Berto Ricci – soffiava forte contro l’imborghesimento del PNF, fiutava il marcio, voleva la soluzione finale della Rivoluzione, non certo il suo spiaggiarsi in compromessi e burocrazia. Il Fascismo degli arditi e degli squadristi, quello dell’assalto al treno del capitalismo liberista come della lotta di classe socialista; il Fascismo sintesi degli opposti impresa-lavoro era scemato, il Corporativismo di Spirito riposto nel cassetto delle promesse non mantenute, lo Stato clerico-borghese nuovamente in sella già dal Concordato del ’29. Delusione per quel ribelle cacciato perfino dall’Accademia di Firenze: fu quello forse il retro crack a fargli provare la goletta rossa, ma pure quella, se n’accorse, imbarcava acqua. Diciamo fu un abbaglio, a quel tempo anche per i comunisti: maschio o femmina, alter non datur. A dire il vero, pare che un rovello di ripensamento sul Fascismo, Rosai l’avesse avuto già dopo il delitto Matteotti: un segmento d’un paio d’anni seguito da un ritiro per ragioni di lavoro. Il suo amico Ardengo Soffici restò in piedi, senza tentennamenti, dritto fino all’abisso del ’45, aderendo alla RSI, schierandosi con i repubblichini fino alla macelleria messicana di Piazzale Loreto: scrisse sul foglio “Italia e Civiltà” assieme al giovane Giovanni Spadolini, restando un’icona di riferimento per la destra del dopoguerra.
Rosai non fu un fascista della convenienza o per necessità di bottega, fu nell’ala dura che mollava cazzotti alla pancia grassa del sistema; pure lui le aveva suonate con quelle manone agli antifascisti “reazionari”, nonostante le sue opere sembrassero raccontare d’una personalità mite, amante di paesaggi, vicoli fiorentini e quegli omini, quasi buffi, che ci ricordano – chissà perché – i graffiti di Haring, anche lui omosessuale. La giornalista Manuela Grassi – a commento della mostra su Rosai a Firenze, in occasione dei cinquant’anni della sua scomparsa – scrisse questo profilo su Panorama. Egli fu “Fascista anarchico e manganellatore, cristiano e omosessuale, antiborghese e ultimo erede della tradizione pittorica iniziata da Masaccio”. Noi diremmo da Giotto. Canteremmo per lui sulle note dell’Avvelenata di. Guccini “Io anarchico, io fascista, […], io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista! Io frocio […]”.
Sì, gli calza a pennello perché anche Rosai non ha mai detto che coi colori si fan rivoluzioni: i suoi dipinti non tirano pugni, ma carezze agli umili popolani con una lirica cristiana di condivisione alla loro Passione. Il mitico vàgero Viani amava gli stessi soggetti ma pazzi, ubriaconi, diseredati: portavano i graffi sul corpo e nella mente di chi era uscito dalla caverna di Platone. Il Futurismo, grimaldello della storia italiana prima e dopo la Grande Guerra, continuò a circolare nel suo sangue, non dal punto di vista tecnico-estetico – scarsa la sua produzione in tal senso, priva di dinamismo – era invece il suo credo d’ ideali fin dall’ ingresso in Lacerba, la rivista shock della Firenze dei grandi fermenti. A fianco di Papini e soprattutto di Soffici, Rosai sposò il zagtum dell’Etna sovversivo di Marinetti, ariete dell’interventismo in guerra, immaginifico condottiero verso il nuovo mondo. Di lui disse: Preveggente, indovinatore, precursore dei fatti importanti della storia. Presentì la guerra e fu assieme a Mussolini uno dei felici propugnatori del Fascismo. Interessante quell’assieme: non c’è subalternità, anzi lascia capire che la rivoluzione possibile aveva nei suoi geni il Futurismo, spina nel fianco del regime. 280 Partì granatiere nel ’15, con dentro il fuoco di farsi onore, essere cinto d’alloro, vincere o morire, senza paure. Fu un tanto valoroso combattente da vedersi appuntare due medaglie al valor militare, una di bronzo e l’altra più luccicante, d’argento. In lui non c’erano retorica o tracce di romanticismo: era in trincea o all’assalto per far nuove tutte le cose con una guerra totale, “unica igiene del mondo”. Quello spilungone alto un metro e ottantacinque s’arruola nel dicembre del ’14: sente odore di polvere da sparo per l’Italia e l’anno seguente è inquadrato nel 1° Reggimento granatieri; a maggio la prova del fuoco al fronte, a luglio resta ferito, guarisce, torna in trincea; nel ‘17 è promosso aiutante di Battaglia, Comandante di plotone. È sempre in prima linea, taglia fili spinati, si becca una scheggia, va ad occupare una linea nemica facendo prigionieri soldati e ufficiali.
Quel “teppista” del caffè le Giubbe Rosse, in guerra, era un Geronimo col tomahawk tra i denti: ardito, leale, in prima fila, petto al sole per la Patria e i suoi commilitoni. Si può dire che Lacerba aveva dato i suoi frutti. In quella Vittoria del 4 novembre 1918, c’era anche la sua firma di soldato: lasciava il fango, per tornare al cavalletto sul quale poggiare tele bianche rimembrando la lezione di Giotto e Masaccio, un genio morto a soli 27 anni. È lì nella sua Firenze “addormentata”, il testamento di Giovanni Cassai, nella Cappella Brancacci o in S. M. Novella: è dipinto sui muri. Rosai osserva, studia, riprende il filo della tradizione: è questo il suo ritorno all’ordine, ma senza gocce di retorica. Medita la grande lezione di Cézanne, si muove nella direttrice di quell’anarchico di Carrà che – mollato il Futurismo – volge lo sguardo al ‘300 italiano, i paesaggi d’oltrarno, le nature morte, i nudi maschili di Ottone che acquistano il linguaggio del realismo magico di Giorgio Morandi. Un’altra lezione la prende dal Quattrocento toscano: la prospettiva, strumento per storicizzare un fatto, grande o piccino che sia, così le sue strade fiorentine deserte, mute o con la variabile temporanea di una presenza umana fuggono via verso un punto all’orizzonte, curvano ad angolo per portare chissà dove. Le case silenti e le finestre scure: sono tagli di coltello sui muri, o fuori scala come nei Giocatori di toppa; i casolari di campagna sui poggi alberati, accolgono l’uomo nel suo dolore, l’osservano, non possono alleviarlo, non sono samaritani medicanti la violenza della vita. In lui convivono la rabbia del ribelle alla condicio umana, di per sé drammatica – incarcerata in morali e leggi scritte – e la rassegnata tristezza, perché se fallisce la dinamite per far saltare in aria la roccia, o s’ aggira il masso oppure si reclina il capo su se stessi. È questa la condizione dei suoi omini, dei viandanti, degli avventori d’osterie, dei suonatori di strada, delle vecchiette nei vicoli, tutti disillusi da Godot. Dipingere era la sua testimonianza di purificazione dell’anima dai mille tormenti dell’esistenza.
Quel “teppista” di Ottone era nato a Firenze il 28 aprile del 1895, terzo di quattro figli di un artigiano intagliatore del legno: morirà suicida in Arno nel ’22 per debiti, infilando nel cuore di Ottone uno stiletto. Si sentiva, quest’ultimo, responsabile di quella tragedia. Di certo un ragazzaccio, espulso nel 1908 dalla scuola d’ Arti Decorative, cresciuto autodidatta tra strade ed osterie del suo quartiere rissoso – San Frediano, nell’Oltrarno (aveva studio in via S. Leonardo)– leggendo adolescente da Baudelaire a Wilde, insofferente alla 282 vituccia d’artigiano con quel demone dentro della pictura. A sedici anni espone le sue incisioni, nel ’13 stringe amicizia con lo zolfo acceso di Soffici-Papini, si converte alla religione futurista partecipando alla prima vernissage del ‘14 a Roma. Aderirà anche ai Fasci futuristi, anticipazione marinettiana di quelli combattenti del ’19. Del 1920 è la sua prima personale a Firenze; registro, ritmo e soggetti sono cambiati, in armadio le “cotte” cubo-futuriste, gli echi del postimpressionismo, si riprendono gli arnesi del mestiere, pittura figurativa scalpellando via il superfluo, prendendo attori di strada, popolani intrisi di dolore quanto colmi d’una saggezza arcaica, perché Rosai prendeva a sassate gli uomini che credono d’essere importanti, li esclude con matita e pennelli da suoi racconti figurati. Certo, i “si dice” sulle sue inclinazioni sessuali lo tennero sulla corda tra i benpensanti, scavandogli intorno un’isola pur nel consenso della sua arte. Citiamo Casa toscana del ’19, l’Attesa del ’20 (quattro omini in un locale vuoto), Conversazione del ’22 (un capannello di tre poaretti) la famosa Via Toscanello sempre del ’22 (della quale farà un libro edito nel’30’), Il concertino del ’27, artisti di strada, I giocatori di toppa del ’28 (un tema più volte riproposto a partire dal ‘20). I suoi paesaggi metafisici di Firenze sono molto vicini ai modi di Carlo Carrà e di Mario Sironi, ma aspettano che un’ombra compaia su quei lunghi muri, qualcuno si affacci a una finestra, s’oda lo scampanellio d’una bicicletta. Anche la grande mammella del Brunelleschi è muta cupola che svetta da sopra una terrazza.
La sua vita concreta è grama: cerca di tirare avanti la bottega paterna, ma non è la sua vocazione; vende assai poco i suoi quadri dentro la cerchia d’amici, perciò si dà alle illustrazioni collaborando a riviste solfuree come Il Selvaggio di Maccari e il Bargello, fino alla stipula dei Patti Lateranensi del ’29. Quella firma fu per lui e i futuristi alto tradimento dell’anticlericalismo fascista: la Rivoluzione aveva accettato il compromesso, una contaminazione rovinosa, così firmò un attacco durissimo, Per lo svaticanamento dell’Italia, in cui tra l’altro s’afferma: […] Ebbene: in nome di tutto il sangue versato dagli Italiani per l’Italia, osiamo – dopo una breve illusione di una possibile conciliazione – invocare dal Duce la denuncia del Concordato. Fascismo radicale, il suo. Ma ciascuno ha qualche punto debole sul quale infilare il coltello, l’artista come tale non era in discussione sebbene la sua arte non fosse in linea col Novecento Italiano, vuota di quell’energia di potenza richiesta dalla rivoluzione: perciò, quei “si dice” – sui quali la polizia sapeva molto – furono il contrappasso alla sua ribellione. I giovani di strada erano le sue frequentazioni, quei ragazzi di vita che rincontreremo nelle borgate romane di Pasolini, perciò zitto Rosai e copriti d’onorabilità sposando una tua compagna di scuola per tacitar le malelingue.
Così fece, mascherando la sua persona in un contesto d’ipocrisie, sopravvivendo in facciata ma continuando nei suoi amori clandestini. Un gay fascista: pare una contraddizione, ma non lo era nell’ottica di una rivolta condivisa contro il putridume d’una società clerico-borghese. Poi, per Rosai, arte e vita privata erano altra cosa dalla fede politica e continuò la sua militanza, dubbiosa, seppur oggetto di sofferenza esistenziale. Si apparta in luoghi della campagna fiorentina, è ancora giovane ma la sua condizione di non poter vivere alla luce del sole la propria omosessualità e il giudizio capestro della società lo portano ad un pessimismo sulla realtà dell’essere in quel modo. Il segno si fa più duro, spigoloso, scava nella grotta dell’uomo: accanto ai paesaggi nascono gli autoritratti, un espressionismo denso, privo di sconti pure nei nudi dei modelli, ne scolpisce il corpo con un tratto nero. Un bisturi entra nella loro precarietà temporale, in quel male cosciente di morire vivendo. Disse: “Io voglio scoprire l’anima della mia creatura, il suo viso interno […].
Nonostante giochi a nascondersi, Rosai sale sul podio della consacrazione d’artista con una personale tutta sua, tenuta a Palazzo Ferroni – a Firenze – nel ’32: fu profeta in patria sua, consenso vitale per le sue magre tasche; s’aprirono i cancelli di Milano, Roma (quadriennale del’35), Venezia (Biennali), pur tra i mugugni. Lo accusavano di povertà nel disegno, nel colore e nei soggetti dimessi. La sua pittura del quotidiano, i poveri segnati dalla fatica di tirare il carro (vedi Il vecchio Eliseo del’34), erano reali ma in contrasto col vitalismo ottimista di regime: bolliva in pentola la questione razziale e gli italiani dovevano essere tutti forti e belli, come gli eroi. Anzi, qualche dipinto sembrava celasse l’ironia, come L’adunata del’33: il gerarca in primo piano sulla sinistra alza scattante il braccio nel saluto romano, quasi una caricatura retorica, mentre i suoi camerati non sono percorsi dalla stessa scossa vitale. Nonostante il “vizietto”, il partito accompagna Rosai: quell’intellettuale aperto di Giuseppe Bottai, suo amico ed estimatore, intercede facendo assumere l’artista presso il Liceo Artistico gigliato in qualità di docente di figura disegnata; stipendio assicurato e trampolino di lancio come professore di Pittura all’Accademia di Belle Arti fiorentina nel 1942. Scherzi della vita: lui che fu un ribelle contro quell’Istituto di muffe, venendone cacciato. Nel dopoguerra paga pegno per la sua adesione al Fascismo, nonostante Fanciullacci: si chiede il giù dalla predella della cattedra per i collusi col saluto romano, calano ombre dense di amara incertezza. Fu suo rifugio il Frontespizio, agape fiorentina dei poeti ermetici quali Mario Luzi, con spazio d’incontro alla galleria Il Fiore. Con colori e pennelli riprende dal realismo, nello stesso sentiero del suo amico Ardengo Soffici: aderisce all’iniziativa della collezione Verzocchi sul tema del lavoro, inviando il dipinto I muratori, affiancato da un suo autoritratto.
Nel clima post bellico di braccio di ferro tra astrattismo e verismo, Rosai si trova ad essere guida di riferimento dei figurativi, in linea con Roderigo di Castiglia: tanto amati a sinistra quanto a destra, mentre al centro non gliene fregava niente. La sua pittura – ora – è più rarefatta, ma cavalca sempre i generi a lui cari, i popolani ed i paesaggi delle loro tristi fiabe. Il successo internazionale lo consacra in mostre europee, da Parigi a Londra, passando per Zurigo e Madrid, sbarcando oltre Atlantico fino a New York. La Biennale veneziana gli dedica uno spazio tutto suo, nel 1956. L’anno che segue, Ivrea vuole ospitare una sua retrospettiva: mentre s’adopra all’allestimento, il cuore – già balbuziente – gli dà un colpo secco e doloroso, l’infarto. Se ne va il 13 maggio del’57. Era morto “Dioboia”, questo il soprannome pel suo parlare intercalando quella bestemmia: l’unico nero a San Frediano, come sosteneva Indro Montanelli: scorbutico, manesco e irriverente, come quando non volle indossare l’uniforme all’appuntamento con Mussolini.
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