ONE LIFE: BAMBINI DI SERIE A E BAMBINI DI SERIE B

Gen 29, 2024

Tempo di lettura: 4 min.

Da qualche giorno, è nelle sale cinematografiche italiane One Life (2023, 110 min.), di James Hewes, film biografico con Anthony Hopkins tratto dalla storia vera di Nicholas Winton, organizzatore – nel 1938 – della cosiddetta Operazione Kindertransport.

A seguito delle vessazioni subite dai tedeschi nei Sudeti – regione dell’ex Impero Austro-ungarico assegnata alla Cecoslovacchia alla fine della Prima Guerra Mondiale – da parte della maggioranza ceca (basta visitare il museo-casa di Kafka per rendersi conto di quanto la minoranza germanofona sia stata costretta a sopportare sotto Praga, mentre stessa sorte toccava ai polacchi e agli ungheresi nel sud del Paese), Adolf Hitler lanciò un ultimatum per cui, se le condizioni poste dalla popolazione germanica locale non fossero state accolte, avrebbe proceduto a invadere la Cecoslovacchia. Al fine di scongiurare lo scoppio di quella che sarebbe poi divenuta la Seconda Guerra Mondiale, la Conferenza di Monaco – Francia e Inghilterra da un lato, Italia e Germania dall’altro – finì addirittura per romperne l’unità nazionale, assegnando una parte del suo territorio alla Polonia e all’Ungheria, e una gran parte, compresi i Sudeti, a Berlino, che non tardò a dar seguito alla sua occupazione. A seguito dell’ingresso delle truppe tedesche, numerose famiglie – ebree e non ebree – scapparono verso i confini cechi, e le nuove autorità, di fronte al rifiuto degli altri Paesi di accogliere i fuggiaschi, li rinchiusero in appositi campi profughi, ponendoli innanzi a una sorte assai fosca. Nicholas Winton, insieme ad altri volontari britannici in Cecoslovacchia, nel tentativo di salvare almeno i bambini, decisero dunque di organizzare treni speciali che portassero questi ultimi in Gran Bretagna, facendoli accogliere in famiglie che avevano dato la propria disponibilità ad ospitarli. Nel film, emerge un dato interessante, che rispecchia la realtà, ossia la contrarietà da parte delle autorità ebree cecoslovacche a far partire i bambini ebrei, sostenendo che, per questi ultimi, sarebbe stato peggio venire divisi dalle proprie famiglie ed essere educati in un contesto gentile che salvarsi in Gran Bretagna.

Il primo dei treni di Winton partì con Praga ancora non occupata, e quindi con visti rilasciati dalle autorità ceche; dal secondo in poi, essendo la città già stata occupata dalle truppe tedesche, diverrà necessario ottenere il consenso della Gestapo. Nonostante i timori dei volontari, questa autorizzerà tutti i viaggi, compresi quelli dei bambini ebrei, fino al nono e ultimo treno programmato. Cosa era successo nel frattempo? A seguito dell’invasione della Polonia, Inghilterra e Francia avevano dichiarato guerra a Berlino. Dall’inizio dell’operazione al blocco dei viaggi da parte della Germania, Winton e gli altri volontari riuscirono a trasferire ben 669 bambini, e questo il film racconta in un’ora e cinquanta minuti circa di visione assolutamente commoventi, anche grazie a un magistrale Anthony Hopkins. La storia di Nicholas Winton descrive un atto di grande umanità, non vi sono dubbi; tuttavia, al contempo, alcune considerazioni collaterali devono pur essere fatte.

All’inizio dell’invasione della Cecoslovacchia, non esisteva alcun progetto tedesco di deportazione – men che meno di sterminio – di quanti scappavano dai territori occupati, che fossero i fuggitivi ebrei o meno. Nel film, tale idea si desume in maniera del tutto evidente dal fatto che la Gestapo autorizza il viaggio di ogni bambino, fino al momento in cui è l’Inghilterra stessa a dichiarare guerra alla Germania. Inoltre, forse inconsciamente, lo sceneggiatore evidenzia il fatto anche in una scena importante, un dialogo tra due soldati tedeschi addetti al controllo dei visti in uscita, che, ridendo tra loro, si chiedono come mai la Gran Bretagna volesse “tutti questi ebrei”. Dialogo che, se da un lato conferma l’antisemitismo diffuso fra le truppe tedesche, segnala anche come lo Stato Nazionalsocialista, quanto meno nel caso di cui l’opera parla, non avesse alcuna intenzione di trattenere all’interno dei territori del Reich – anche di quelli annessi – gli ebrei, e men che meno di ucciderli, ma piuttosto incoraggiasse apertamente, concedendo loro visti di espatrio, la fuoriuscita di tutti quei bambini che – loro malgrado – si trovavano a rischio. Un aspetto scomodo da rammentare, ma su cui, coraggiosamente, Hewes sceglie di comunque soffermarsi.

Un’altra riflessione interessante che One Life senz’altro induce concerne la prassi usuale del mainstream di ripartire le vittime in morti di serie A e B, anche quando tali poveri morti uccisi sono soltanto bambini. Ovviamente, va dato merito a Winton e agli altri del suo gruppo di aver compiuto un’operazione realmente audace, e che un singolo non può farsi carico delle sventure di tutto il mondo. È altrettanto ovvio, però, che per quanto il film voglia porre l’accento sulle azioni dell’esercito tedesco a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, non sarebbe guastato ricordare anche la coscienza sporca di altre bandiere – e anche in One Life, in un modo o nell’altro, non si nasconde l’approccio non propriamente zelante del Governo britannico rispetto al salvataggio dei piccoli profughi. Fra l’altro, i tedeschi hanno commesso i loro crimini, ma qualche eroe britannico si è mai degnato di pensare ai bambini indiani che morivano di fame sotto l’oppressione colonialista di Londra? Qualcuno ha tentato di dare rifugio ai piccoli miracolosamente scampati alla distruzione alleata di Dresda? Qualcuno ha teso una mano agli italiani stremati ed esuli di Istria e Dalmazia, in fuga dalla pulizia etnica titina e dall’orrore delle foibe, ai quali, presso la stazione di Bologna, fu addirittura vietato di scendere dal treno, fosse pure soltanto per avere un po’ d’acqua e cibo?

In conclusione, ribadiamo come One Life sia un’opera eccellente e assolutamente toccante, e non ci si fa problemi a concedere a Sir Winton l’onore al merito che si è conquistato; tuttavia, con la medesima forza, va ribadito un sonoro no alle strumentalizzazioni storico-politico sulla pelle di vittime innocenti. È giunta l’ora di porre fine alle “classifiche dei morti”, con caduti più meritevoli di altri di essere commemorati. La morte è uguale per tutti, indipendentemente dall’identità e dalla nazionalità del carnefice.