La capacità del nichilismo “democratico” di uccidere la volontà di individui e popoli è sotto gli occhi di tutti. L’addomesticamento di massa ottenuto con la disinformazione programmata e il terrorismo soft dei mass-media è roba da fare invidia alle dittature totalitarie del Novecento, che erano più rozze, bisogna dirlo, meno scafate. L’incredibile deriva autocratica della “democrazia” occidentale cova una tara atavica. È il nichilismo, è il nonsenso di un esistere privo di sbocchi e di motivazioni. Nulla ha più valore. Il cittadino delle “democrazie” occidentali è un insetto ubbidiente che viene facilmente sedato con dosi massive di paura di esistere, costretto a convivere con il ribaltamento della realtà, in un mondo d’immaginazione creato dagli oligarchi progressisti.
Qui ha sede il surreale, al suo massimo storico. Il protocollo vigente, dettato dal potere, è l’adeguamento forzato all’invertimento dei valori. Ciò che regna è il delirio razionale dei nemici della natura, della tradizione, della storia e della geografia, i nemici della cultura e della scienza, i nemici dei popoli, che con ogni mezzo vengono trascinati nella brutalità del nonsenso. L’assurdo al potere, finalmente visibile in tutta la sua glaciale forza distruttiva. Ma, stavolta, lo scenario in cui si rappresenta l’avvento dell’assurdo non è un teatro dell’avanguardia, ma il mondo intero. Il palcoscenico è la realtà, e unici protagonisti sono i grandi delinquenti al potere, i freddi nemici della vita. Quanto agli uomini, essi sono semplice massa ininfluente. Neppure spettatori o testimoni, ma solo materia, inerte e trascurabile. Tuttavia, per opporsi al tremendo vento di dissoluzione, occorre bere la feccia fino in fondo. Bisogna che noi stessi diventiamo nulla, che conosciamo sin nel dettaglio le paranoie che fanno di ogni uomo un vile. Attraversato il nichilismo e oltrepassate tutte le degenerazioni, chiunque sia voluto rimanere al di fuori del grande recinto dei dementi sente rintoccare la sua ora. Poiché, oltre l’orizzonte, ciò che ci aspetta, ciò che aspetta l’ultimo uomo, è la rivolta.
La disintegrazione della verità comporta la disintegrazione della mente e del linguaggio. Nessuno più riesce a comprendere e a farsi comprendere. Ionesco, che a lungo manipolò l’assurdo come l’ultima filosofia dell’Occidente, scrisse che aveva nausea dell’uomo bianco, costantemente rivolto a suicidare se stesso, e ricorse alla metafora del rinoceronte, per spiegare la forza attrattiva dello spirito gregario, la viltà della massa diretta da una menzogna misteriosa, che realizza l’umanità mostruosa:
Immaginatevi un bel mattino di scoprire che i rinoceronti hanno preso il potere. Hanno una moralità da rinoceronti, una filosofia da rinoceronti, un universo rinocerontesco. Il nuovo capo della città è un rinoceronte che adopera le vostre stesse parole, eppure, nonostante ciò, la lingua non è la stessa. Le parole, per lui, hanno un altro senso. Come riuscire a capirci? [1] Ma in realtà la lingua è la stessa, le parole sono quelle. E neppure si tratta di un nuovo pensiero. E’ solo un metodo, una scelta della violenza di auto-rappresentarsi, è solo la fine della cultura, e così, quando il rinoceronte afferra il potere, il piano è già steso: confondere gli spiriti, sostituire l’uomo con il progetto, imporre la mutazione, innalzare altari alla contraffazione. Bisogna stare attenti a non fare soltanto della divagazione culturale. Qui davvero i rinoceronti hanno preso il potere. Ionesco non parlava a casaccio. Non avesse altro merito, gli riconosciamo quello del profeta. Il suo assurdo è la nostra vita vissuta, giorno dopo giorno.
I rinoceronti del ventunesimo secolo impongono la loro legge paranoica con la violenza di una mutazione genetica. C’è in gioco il futuro dell’Europa e, in proiezione, di tutti i popoli per come eravamo abituati a conoscerli. “I ciechi sono convinti di vedere”, scriveva Ionesco nel 1967, “i pappagalli credono di pensare”. La gigantesca rete di intrighi ideologici che è stata gettata sugli individui e sui popoli ci trattiene sulla soglia della volontà, in forza del suo potere paralizzante. La stessa menzogna si insinua in noi, ci penetra per scompaginare l’animo nostro, per volgere l’ardore in debolezza, la certezza in dubbio. Ionesco ne spiegava bene i risvolti, come di una maledizione di qualche dio malvagio che ottenebra i più, ma che confonde anche i desti, gli spiriti antagonistici che conoscono le vie del libero giudizio:
È curioso: sono meno ingenuo della maggior parte della gente, non mi lascio ingannare dai luoghi comuni, dalle sistematologie, furbizie, ipocrisie ideologiche, ideologie coscientemente o incoscientemente ipocrite, correnti d’opinione, accecamenti: ma sono ugualmente accecato quando vedo fino a che punto gli altri siano ciechi, sono accecato, la mia vista si intorbida. [2]
Eppure, è proprio qui, nel momento in cui ci accorgiamo del male che si annida anche dentro di noi, è qui che sorge l’impulso alla vita, che deve risorgere nel prendere coscienza del potere dell’Antimondo, come lo chiamava Ionesco. Poiché “il nulla non è né bianco né nero, non esiste, è dappertutto”, come si legge nel “Pedone dell’aria”. Ed è quando Ionesco rappresenta l’apocalisse del nostro tempo, fatta di nulla, sfacelo catastrofe, così che si sprofonda nel pessimismo assoluto. A questo punto, e proprio Ionesco lo riconosceva e lo denunciava, la letteratura e il teatro non sono più in grado di fronteggiare il reale, non sono più in grado di “cogliere la complessità del reale, di esprimere l’incubo spaventoso che è la nostra vita” [3]. A questo è stata ridotta l’esistenza umana nel paradiso del capitalismo maturo. Esistono leve di contrasto? Se lo chiedevano anche i drammaturghi dell’avanguardia, che inorridivano davanti all’orrore da loro stessi descritto. La cultura non basta più, e neppure più l’ideologia. Ma non la fuga, bensì la discesa in strada, l’azione, la prova, il coraggio micidiale. Sorge a questo punto la nuova figura del ribelle, che è cresciuto nel nulla dell’Occidente liberale e si è fatto le ossa osservando da vicino la mostruosità dell’assurdo.
Così allevato e selezionato, cresce l’uomo in rivolta ed è lui a porsi davanti al potere del demiurgo malvagio, è per cercare di sbarrargli la strada, per ottenere quella vendetta dell’uomo sull’Antiuomo che la massa non è neppure in grado di concepire. Niente filosofia, niente ideologia, nessuna estetica. Azione. Brutalità contro brutalità. Andare verso la prova con la freddezza di uno Jünger. L’uomo che oltrepassa l’assurdità del quotidiano è già un combattente contro il suo tempo.
Egli ottiene la coscienza di vivere l’antagonismo. Egli, come scriveva Camus, possedendo la coscienza, possiede anche la rivolta, penetrando la menzogna del potere con la forza di una tensione massima: “L’assurdo è la sua estrema tensione, quella che egli conserva costantemente con uno sforzo solitario, poiché sa che in questa coscienza e in questa rivolta, giorno per giorno, egli attesta la sua sola verità, che è la sfida”[4]. Creare una nuova morale è lavoro di pochi, ma oggi più che mai a contare sono le piccole minoranze, le minute aristocrazie, che sole possono rimuovere il macigno psicotico che immobilizza le masse nella paura del gregge. Il potere mondiale sta mettendo in campo un attentato, uno colpo di Stato globalista che vive d’odio e di terrore: ai suoi delitti contro l’uomo la rivolta oppone l’istinto della vita. La posta in gioco è semplice, nella sua nudità primordiale.
Verrebbe da dire che la rivolta, in fondo, è sempre la stessa. L’accettazione del nichilismo (che è attitudine strategica dei rivoluzionari nietzscheani, che come Nietzsche sono disposti a guadare il liquame senza lasciarsene macchiare) porta a interpretare la rivolta come fosse rivoluzione: al gesto segue l’evento. E viene in mente quanto Ionesco, che in fondo era un semplice intellettuale cresciuto in un ambiente di falsi antagonisti, che nella democrazia liberale occidentale ci stavano come pesci nell’acqua (da Pasolini a Moravia, da Gide a Sartre…), scrisse con l’indipendenza di giudizio che, in più degli altri, non gli fece mai difetto:
i giornali sono l’alimento dell’intera popolazione. Scritti da idioti, sono letti da altrettanti idioti. La deformazione del linguaggio, l’ossessione della politica sono così grandi che ogni atto della vita è espresso con una forma di eloquenza bizzarra, fatta di espressioni tanto sonore quanto meravigliosamente improprie, in cui il peggiore nonsenso s’accumula ad una ricchezza inesauribile e serve a giustificare, nobilmente, le azioni inqualificabili…[5]
Come si vede, coi decenni nulla cambia nella liquida società liberale, se non in peggio: ai giornali, oggi occorrerà solo aggiungere l’intasamento cosmico dei telegiornali, dei talk show, degli speciali televisivi e dei “social”, tutti uniti nel sostegno diretto o indiretto al potere, quel vociare di tutti su tutto che ha un formidabile effetto, l’annullamento di ogni vero spirito oppositivo, devitalizzato in recitativi di piazza che per il potere sono vere assicurazioni di lunga vita. In questo, circa l’inutile e pericoloso totalitarismo della democrazia liberale, l’assurdo e il grottesco di Ionesco videro chiaro.
Nella tempesta della rappresentazione nichilista, è pur sempre possibile trarre in secco alcuni punti fermi. Lo spettacolo, certo, è spaventevole. Nella “Cantatrice calva”, per fare un esempio, tutti portano lo stesso nome e fanno lo stesso mestiere, e i coniugi non si riconoscono l’un l’altro, se non quando vengono a sapere che vivono nella stessa città, nello stesso appartamento, e dormono nello stesso letto: è una semplice metafora della disintegrazione: letteralmente, l’uscita dall’integrazione psichica all’interno di una comunità qualunque e l’ingresso nella deflagrazione della ragione. Tutti sono perfettamente uguali a tutti. Lo spaventoso risiede accanto a noi, addirittura dentro di noi. Nel mondo della sovraproduzione, l’uomo si svaluta a cosa inessenziale:
“L’Uomo, che era stato gettato alla rinfusa sul mercato, tende a divenire merce spregevolissima…Costruito in serie, non ha più alcuna originalità: ormai è standardizzato” [6].
Così svuotato della sua personalità, l’individuo-massa si muta in un guscio vuoto di volere, nudo di carattere, un brandello che il mondialismo, molto meglio che nei libri di Orwell, maneggia in tutta tranquillità. “È come se avessi assistito a delle trasformazioni”, scriveva Ionesco negli anni sessanta.
“Ho visto gente metamorfosizzarsi. Ho constatato, ho seguito il processo della mutazione, vedevo in che modo dei fratelli, degli amici diventavano progressivamente degli estranei” [7].
È così. Ognuno di noi, proprio oggi, proprio nel pieno della medicalizzazione della società voluta dal tiranno cosmopolita, può confermare che la mutazione genetica è già un fatto compiuto. Il sogno dello scienziato pazzo è uscito dai film espressionisti ed è diventato realtà democratica e liberale. La mascherina anti-covid – vera museruola applicata sui musi inespressivi – è il migliore degli emblemi, a indicare lo spaventoso e incruento passaggio dall’uomo al vile, dall’individuo all’anonimo, dall’integro allo spezzato. Nessuno avrebbe mai potuto prevedere che sarebbe stato così facile, per il potere assoluto della tecnocrazia, realizzare il magnifico risultato di una plebe universale addomesticata e intimidita, sedata con la paura e zittita con la statistica.
Il pessimismo totale di Ionesco ha un finale insolito. È una reazione. Si tratta di non voler far parte dell’orchestra che suona lo spartito previsto. Rimanere fuori dalla sala. Di lì si vede, si comprende, si attivano gli anticorpi cerebrali atti a radunare le forze. “Tenersi in piedi in un mondo che sprofonda”, come scritto da Ionesco, è la frase evoliana degli antagonisti surreali del mondo reale [8].
Poiché:
Io non voglio vivere con simili pazzi, non voglio saperne delle loro feste, cercano di trascinarmi a forza con loro. Non c’è il tempo di spiegare. Allora anch’io divento un martire che sogna di trasformarsi in carnefice. [9]
[1] Eugène Ionesco, “Passato presente” [1967], Rizzoli, Milano 1970, p. 233.
[2] Ibid., p. 231.
[3] Gian Renzo Morteo, introd. a E. Ionesco, “Il pedone dell’aria. Delirio a due” [1962], Einaudi, Torino 1963, p. 11.
[4] Albert Camus, “Il mito di Sisifo” [1942], Bompiani, Milano 1980, p. 52. Nel suo libro “L’uomo in rivolta” [1951], Bompiani, Milano 2002, p. 114, Camus abbina lo spirito della rivolta (politica, metafisica, umana) alla “ricerca di una morale o di un elemento sacro. La rivolta è un’ascesi, sia pure cieca”.
[5] In Philippe Sénart, “Eugène Ionesco”, Borla, Torino 1965, p. 17.
[6] Ibid., p. 93.
[7] Ionesco, “Passato presente”, cit., p. 283.
[8] Cfr. Sénart, cit., p. 114
[9] Ionesco, “Passato presente”, cit., p. 218.