L’Artefice: dalla mobilitazione totale di Ernst Jünger all’Archeofuturismo di Guillaume Faye

Ott 27, 2023

Tempo di lettura: 23 min.

The Radical Right's Fictions of a Better World

È nostra intenzione dare seguito alla fruttuosa discussione radiofonica “Figli di Prometeo – Le sfide della Tecnica e il futuro dell’Uomo” andata in onda a cura di Kulturaeuropa sabato 5 giugno 2021. In particolare, si è dibattuto sulle origini jungeriane dell’Archeofuturismo, un tema che fu proposto allo stesso Guillaume Faye nel corso di una intervista del febbraio del 2019, poco prima della sua scomparsa.

Potrà essere di giovamento, per il lettore, ricordare alcune delle più note affermazioni dello stesso Faye, tratte dalla sua opera sull’Archeofuturismo (SEB, 1998):

«Dunque, all’idea di progresso l’Archeofuturismo deve sostituire quella di movimento. È possibile notare una straordinaria compatibilità fra i valori arcaici e le rivoluzioni consentite dalla tecno-scienza. Perché? Perché, ad esempio, non è possibile gestire con la mentalità egualitaria e umanitarista moderna le possibilità esplosive dell’ingegneria genetica o quelle delle nuove armi elettromagnetiche. […] L’Archeofuturismo è una visione metamorfica del mondo. Proiettati nel futuro, i valori dell’Arché sono riattualizzati e trasfigurati. Dunque, il futuro non è la negazione della tradizione, della memoria storica del popolo, ma la loro metamorfosi e dunque, in conclusione, il loro rafforzamento e la loro rigenerazione. Azzardiamo una metafora: che cos’hanno in comune un sottomarino nucleare e una trireme ateniese? Niente e tutto. L’uno è la metamorfosi dell’altra, ma tutti e due, in due epoche diverse, puntano esattamente allo stesso obiettivo e rispondono ai medesimi valori. […] Bisogna riconciliare Evola e Marinetti. È nel pensiero organico, compositivo e radicale di Friedrich Nietzsche e di Martin Heidegger che affonda le sue radici il nuovo concetto di Archeofuturismo, ma strutturato: pensare insieme la tecnoscienza e la comunità eterna della società tradizionale. Mai l’una senza l’altra. […] L’eterno ritorno dell’identico contro le visioni cicliche e lineari. Globalmente, il futuro richiede il ritorno dei valori ancestrali, e questo per tutta la Terra.»

In che misura l’Arbeiter di Junger, che utilizza la tecnica per mobilitare il mondo, è un precursore di quel connubio tra Marinetti ed Evola che Faye pone come base per il suo Archeofuturismo? In che modo la dimensione mitica presente nell’autore tedesco – il mondo dei Titani, il centro immobile del movimento, la foresta – può porsi come principio trascendente dell’Archeofuturismo? In che modo si può compiere il percorso iniziatico jungeriano tramite il fuoco della distruzione sino alla rinascita dell’Arbeiter dominatore della tecnica? A tutte queste domande cercheremo di dare una risposta nelle pagine che seguono.

Ernst Jünger: «Dèi e Titani» (1991-1994) – Il blog di Andrea Scarabelli

L’Artefice, il Proscritto e l’Anarca

È noto ai più l’intento del poliedrico Ernst Jünger di delineare nella sua opera letteraria una serie di «figure», categorie metafisiche seppur immanenti, nelle quali in una certa misura lo stesso autore si riconosceva e che seguono il suo avventuroso percorso di vita. Tale percorso di vita si sviluppa a partire dalle avventure giovanili nella legione straniera a quelle con i wanderfoegel; dalle trincee della prima guerra mondiale all’opera di giornalista nazional-rivoluzionario; dalla resistenza passiva nella Parigi occupata dalla Wermacht sino al dibattito filosofico del secondo dopoguerra tedesco.

A dire il vero la sua prima figura è “implicita”, ovvero non chiaramente espressa: è quella del Krieger, il combattente della Prima guerra mondiale. Le altre assumono invece un carattere esplicitamente teorico: l’Arbeiter, il Waldganger, l’Anarca.

Tutte e tre presentano in una certa misura delle difficoltà di traduzione, non soltanto da un punto di vista squisitamente linguistico, ma soprattutto dottrinale. Una problematica non dissimile a quella della resa in italiano del linguaggio di Martin Heidegger, amico ed estimatore di Jünger, in particolare dell’opera Der Arbeiter.

L’Arbeiter – che noi tradurremo come l’Artefice, vedremo successivamente su quali basi suggeriamo questa traduzione – supera l’ordinamento borghese grazie al suo differente approccio rispetto all’emergere dell’elementare e di tutto ciò che è rischioso e problematico nell’esistenza. Jünger formulerà la sua nota massima «meglio criminale che borghese» proprio nelle pagine di Arbeiter.

L’Artefice utilizza, come già detto, la tecnica per mobilitare il mondo; il suo volto muta progressivamente in una maschera metallica che lo spersonalizza ma al tempo stesso lo rende partecipe di un’unità superiore, non dissimile a quella degli Ordini monastici medioevali. Ecco un primo tratto Archeofuturista: proprio nel suo trascendere il tipo umano borghese, momento in cui l’Artefice si dimostra capace di sopravvivere all’eruzione dell’elementare, al fuoco della distruzione, al gelo delle privazioni ascetiche (nelle quali riappaiono le durezze della guerra di trincea e della mobilitazione totale in campo lavorativo); si riaffaccia l’elemento gerarchico, sacro e iniziatico dei grandi ordini monastico-cavallereschi del medioevo. Anche per questo risvolto sacro, e in qualche modo alchemico, preferiamo il termine Artefice a quello di Lavoratore o Operaio. Seppure Jünger volesse in qualche rivolgersi al mondo nazional rivoluzionario di Ernst Niekisch e della sua rivista Widerstand, alleanze che farebbero propendere per l’utilizzo di parole quali appunto l’Operaio, quest’ultima non suggerirebbe il tratto di trasmutazione alchemica che invece può determinare il termine Artefice. Va comunque ricordato che per Jünger, tramite la pericolosità, il rischio e l’eruzione dell’elementare tramonta in ogni caso il tipo umano borghese.

Il Waldganger – che noi tradurremo come il Proscritto – è colui che si dà alla macchia. La sua figura fa esplicito riferimento a coloro che nell’Islanda Medioevale e nella società germanica in generale, venivano banditi dalla comunità e destinati a vagare nelle terre disabitate dagli uomini. Queste lande desolate erano considerate infestate da inquietanti presenze: giganti, spettri e bestie feroci, che da quel momento in poi avrebbero accompagnato il proscritto, colui che diviene come un lupo per gli altri uomini.

L’opera di Jünger sul Waldganger, tradotta in Italia come Trattato del Ribelle è di facile reperimento grazie alle ristampe Adelphi, piace al pubblico italiano soprattutto perché considerata una dei suoi scritti più innocui e politicamente corretti. Al contrario il testo de l’Operaio/Artefice persiste nell’essere non letto, ignorato, talvolta evitato. Soprattutto dai tanti radical chic di vario orientamento che a Jünger si rifanno. Lo stesso autore così guarda alla figura precedente dell’Arbeiter:

«Le catastrofi portano alla ribalta figure che si dimostrano di tenere loro testa, e di sopravvivere ad esse quando i nomi occasionali saranno da tempo dimenticati. Tra queste campeggia la figura del Lavoratore che avanza sereno e imperturbabile verso la sua meta. Il fuoco delle rovine non fa che conferirle nuovo splendore. E ancora essa rifulge nella luce incerta dei Titani; noi non immaginiamo neppure in quali residenze, in quali cosmiche metropoli edificherà il suo trono. Il mondo porta la sua uniforme e il suo equipaggiamento […]»  Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi 2004

Trattato del ribelle di Ernst Jünger, Adelphi, Paperback - Anobii

Le suggestioni del Waldganger hanno sempre avuto dunque ben più spazio e simpatia nel pubblico italiano che non le austere, metalliche proposizioni dell’Operaio/Artefice. Il valore di questo, lo riconosceva già Evola, si fonda anzitutto sul piano etico ed esistenziale. Ma non si tratta di una figura esclusivamente «etica»: si muove qualcosa di nonostante tutto «metafisico» nell’Operaio, figura molto più inquietante rispetto a quella successiva del Ribelle. Raggiungere un tale livello metafisico, rispetto al degrado che ci circonda, sarebbe il primo passo per ogni serio lavoro di rettificazione del carattere e base, quindi, per un’ascesi vera e propria.

Oggi sarebbe dunque il caso di liberarsi dai condizionamenti della vita borghese e tornare ad elevarsi sugli orizzonti verticali dell’Operaio/Artefice. Un mondo ormai abitato non più da uomini, ma da consumatori e da utenti digitali, ha disperatamente bisogno dell’Operaio/Artefice che non è vittima ma bensì dominatore della tecnica. Risulta fondamentale la riscoperta e l’approfondimento di questa figura nel dibattito odierno teso a cavalcare evolianamente la tigre archeofuturista.

Veniamo poi alla terza figura jungeriana: l’Anarca. Il reietto, il sottoproletario, lo sbandato, non sono autentiche traduzioni dell’Anarca che si differenzia persino dalla figura che cronologicamente lo precede: il Waldganger. L’Anarca si presta molto bene all’essere incarnato nella nostra realtà quotidiana: vive in una satrapia postatomica contornato da una babele di individui di ogni provenienza ma privi di un destino storico; il tiranno che egli serve come barista è un omosessuale, il Condor. Ma Martin Venator, il protagonista alter ego di Jünger, è un appunto un Anarca: sfrutta il suo lavoro di barista per avvicinarsi al potere e poterlo sfruttare a proprio vantaggio nella sua pratica di storico. Le sue vicende sono narrate in “Eumeswil”, romanzo distopico che anticipa Wikipedia, i telefoni cellulari e molte delle caratteristiche della nostra contemporaneità. La vicenda di Eumeswil è dunque ambientata in un futuro post-apocalittico, in un periodo compreso probabilmente tra il 2010 e il 2020 (curiosamente la medesima ambientazione temporale dell’Archeofuturismo di Faye): la città stato, dove è di fatto compiuta “la fine della storia” è retta da una satrapia orientaleggiante.

Il protagonista, Martin Venator, storico di giorno e barista del tiranno a capo di Eumeswil la notte, non vive, come abbiamo detto, da reietto o da emarginato. Egli osserva il potere con occhio attento, dissidente insospettabile grazie al suo ruolo di privilegiato al fianco del satrapo. Il suo nome ricorda sia la dimensione marziale che quella venatoria: un chiaro riferimento alle attività predilette di Jünger; anche se a dire il vero per “caccia” Jünger intenda in realtà l’attività di entomologo. Ed è proprio una grande battuta di caccia l’evento che si staglia costantemente lungo la linea dell’orizzonte delle vicende del protagonista. Sin dalle prime pagine del romanzo la grande caccia alla quale deve partecipare l’intera cerchia che si raccoglie attorno al Condor, si profila come progetto ma al tempo stesso come destino ineluttabile: i riferimenti alla caccia selvaggia del mondo germanico ed indoeuropeo sono probabili, così come i richiami all’incombente Ragnarok, il consumarsi del destino degli Dei. Tale evento è però una catastrofe in senso etimologico: un rovesciamento che ristabilisce l’ordine delle cose umane e divine. In un mondo, come quello di Eumeswil, in cui è avvenuta la fine della storia, la catastrofe implica dunque anche la rigenerazione della storia stessa. Il grandioso e catartico finale del romanzo Eumeswil coinciderà con tale grande battuta di caccia.

«È probabile che soltanto dopo che la catastrofe avrà abbattuto la modernità, la sua epopea e la sua ideologia mondiale, una visione del mondo alternativa si imporrà per necessità. Nessuno avrà la preveggenza e il coraggio di applicarla prima dell’irruzione del caos. Dunque, tocca a noi, a noi che viviamo nell’inter regnum, secondo la formula di Giorgio Locchi, preparare fin da ora la concezione del mondo del dopo-catastrofe: essa potrebbe essere incentrata sull’archeofuturismo.» G. Faye, Archeofuturismo, SEB 1998

Sono evidenti le implicazioni e le affinità di questo destino con il pensiero di G. Locchi, la cui lezione sul tempo sferico è centrale e basilare per la formulazione archeofuturista di G. Faye. Ma gli aspetti archeofuturisti in Eumesweil non si limitano all’impiego di uno stesso orizzonte filosofico: si estendono anche all’utilizzo della tecnoscienza.

archeofuturism – Arktos

Venator sfrutta la città stato del Condor per continuare le proprie ricerche storiche utilizzando il Luminar, ipotetico antesignano di Wikipedia creato nelle catacombe dai misteriosi Titani: un computer in cui tutto lo scibile e tutta la storia umana sono stati consolidati e possono essere consultati in una sorta di realtà virtuale. Con la scusa di un impegno scientifico e naturalistico, Venator esplora una serie di bunker abbandonati nel deserto, dove appronta un nascondiglio per il suo futuro “darsi alla macchia”, per tradurre così l’espressione “waldgang”. La tecnoscienza, dunque, diventa il mezzo per perseguire principi arcaici e tradizionali, come lo studio della storia e il ritiro nella foresta.

Torna così la nota espressione jungeriana di tramutare il veleno in farmaco; di utilizzare ai propri fini le dinamiche anche più parossistiche della contemporaneità e piegarle per creare spazi di autonomia e di libertà.

Si tratta di una prospettiva alchemica lungo la quale non si muovono soltanto le figure jungeriane ma anche l’uomo differenziato di Julius Evola, la cui attitudine è mirabilmente descritta in testi quali Cavalcare la Tigre o lo Yoga della Potenza. D’altro canto, ecco i termini nei quali si esprimeva il giovane Evola nel suo periodo più propriamente magico:

«Così è attestata una tradizione riguardante la grande Opera, la creazione di un “secondo Albero di Vita”. Questa è l’espressione usata da Cesare della Riviera, nel suo libro Il mondo magico degli Heroi, dove tale compito è associato alla “magia” e in genere alla tradizione ermetica e magica. Ma in questo contesto è interessante considerare ciò che è proprio alla cosiddetta Via della Mano Sinistra. Essa comporta il coraggio di strappar via i veli e le maschere con cui “Apollo” nasconde la realtà originaria, di trascendere la forma per mettersi in contatto con l’elementarità di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso. Allo stesso tempo, essa comporta il saper portare all’apice tutto ciò da cui il terrore originario è esasperato e che il nostro essere naturalistico e istintivo non vuole; saper rompere il limite e scavare sempre più profondamente, alimentando la sensazione di un abisso vertiginoso, e consistere, mantenersi nel trapasso, da cui altri sarebbero spezzati.» Julius Evola – Dioniso e la via della Mano Sinistra.

Il rapporto con l’elementare è fondamentale sia per l’esperienza iniziatica di Jünger come per quella di Evola: sia esso il fuoco scatenato dei campi di battaglia, il mondo sotterraneo dei Titani, la grande Foresta che offre rifugio o il deserto susseguente il grande incendio atomico che distrugge lo Stato Mondiale.

The Future Past - Chronicles

Le radici jungeriane dell’Archeofuturismo

Abbiamo accennato al fatto che la figura dell’Arbeiter jungeriano anticipa alcuni contenuti dell’Archeofuturismo: le schiere di “Artefici” dai tratti irrigiditi in maschere metalliche, forgiate nel fuoco della distruzione, che costituivano un Ordine monastico in grado di utilizzare la tecnica per mobilitare il mondo, erano in potenza una prefigurazione del connubio di Marinetti ed Evola proposto da Faye. La figura dell’Arbeiter fu così seminale che persino Evola gli dedicò un apposito volume, che per molti versi già contiene alcuni degli spunti per l’uomo differenziato che “cavalca la Tigre”.

Anche l’ingegneria genetica, oggetto del nuovo approccio archeofuturista in Faye, trova un paralello nel postumanesimo di Jünger, rappresentato dal personaggio di Attila, il medico alla corte del Condor in Eumeswil. Costui è stato un esploratore delle regioni artiche del mondo, una sottile allusione a quel “Carme Groenlandese di Attila” contenuto nell’Edda Poetica. Egli, infatti, ha visitato le regioni iperboree e ha attraversato la grande foresta che lambisce la città stato di Eumeswil e alla quale Venator guarda con crescente fascino, come meta finale del suo percorso di “caccia” e di rigenerazione, anche storica.

La grande foresta germanica è un topos ricorrente nella prosa di Jünger, sia ovviamente in Waldgang, in quanto il proscritto è colui che viene confinato nella macchia, sia appunto in Eumeswil:

«Il bosco è anche una dimensione naturale. […] Sono molto sensibile ai rumori del bosco: lo stormire delle foglie, il mormorio di un ruscello o il cantare di una cascata. Avverto in queste musiche della natura qualcosa che la parola umana non può comunicare. Ma a parte ciò, il bosco è per me soprattutto una metafora: sta a indicare un territorio vergine in cui ritirarsi dalla civiltà ormai segnata dal nichilismo e in cui l’individuo può ancora sottrarsi agli imperativi delle chiese e alle grinfie del Leviatano. In tedesco le parole “Heim” casa, “Heimat” patria e “heimlich” segreto hanno la stessa radice. […] Il bosco è segreto non soltanto nel senso che nasconde, ma anche nel senso che nascondendo, protegge. A rigore, dal punto di vista del Grande Solitario, totalitarismo o democrazia di massa non fanno molta differenza. L’Anarca vive negli interstizi della Società, la realtà che lo circonda in fondo gli è indifferente, e solo quando si ritira nel proprio mondo, nella propria biblioteca, ritrova la sua identità. In ogni caso è raccomandabile la freddezza: su di una palude ghiacciata si avanza con maggiore sicurezza e rapidità. L’Anarca si nasconde esteriormente nella normalità, può anche essere un contabile, che esegue tutto ciò che l’ordine e la legge prescrivono, ma nel suo intimo, nella solitudine della notte, pensa e fa quel che gli pare. L’Anarca combatte guerre proprie anche quando marcia tra le fila di un esercito.» L’ultimo Sciamano, conversazioni su Heidegger a cura di Antonio Gnoli e Franco Volpi.

Attila accenna talvolta anche a passati esperimenti in laboratorio, finalizzati alla creazione nuove forme di umanità: in altri termini la costituzione dell’uomo nuovo.

Una prefigurazione in campo artistico del postumano, coerente con la dimensione iniziatica ed esoterica, è quella realizzata dall’opera artistica di H.R. Giger, spesso ispirata alle mostruosità dell’universo di H.P. Lovecraft e nel quale lo stesso De Turris riconobbe un contenuto alchemico. Parlando dell’Alien di Giger, così infatti si esprime il Presidente della Fondazione Evola:

«La nostra repulsione, il nostro orrore nei suoi confronti nasce anche dalla consapevolezza che egli è un essere sostanzialmente ambiguo: una commistione tra naturalità e innaturalità, fra vivente e non vivente, fra umano e tecnologico. Un simbolo della modernità nella sua incontrollata evoluzione tecnologica, forse una anticipazione di quel che ci prospetta il Terzo Millennio.» H.P. Lovecraft e H.R. Giger, a cura di Gianfranco De Turris contenuto in HRGIGER Visioni di fine millennio. Hazard Edizioni

Cosa ci potrebbe essere di più intrinsecamente archeofuturista dell’opera artistico alchemica di Giger, dove la ferinità primordiale di Alien deriva dalle antichissime entità cosmiche di Lovecraft, dove il connubio tra bios e tecnica sono evocati magicamente nel sottosuolo infero dei misteriosi Titani?

Giger definì le sue mostruosità biomeccaniche. Grazie ad esse arrivò ad illustrare l’infame pseudobiblium Necronomicon, dove corpi, spiriti e macchine si fondono in un medesimo organismo. D’altro canto, è difficile immaginare il postumano senza presupporre una intima relazione tra corpo e spirito: sia in senso archeofuturista che in senso esoterico. Non a caso nel celebre commento di Julius Evola all’opera di Ernst Junger Der Arbeiter si affronta il rifiuto di ogni rigido dualismo tra corpo e spirito:

«[L’Arbeiter] È destinato a riscoprire una grande verità andata perduta, ossia che vita e culto fanno tutt’uno. […] Perciò ogni dualismo speculativo, al tipo [dell’Arbeiter] apparirebbe come una specie di eresia o di alto tradimento spirituale. Dal dualismo dice lo Junger, derivano tutte le antitesi di potenza e di diritto, di sangue e di spirito, di idea e di materia, di amore e di sesso, di anima e di corpo, di uomo e di natura, di spada spirituale e spada secolare, antitesi appartenenti ad una lingua che dovrà essere sentita come straniera. Secondo il nostro autore [lo Junger] queste antitesi alimentano ancora un interminabile discorso dialettico, hanno una azione corrosiva e alla fine conducono al nichilismo perché con esse tutto si trasforma in via di evasione».

Ernst Jünger: sentimento e dor no fenômeno da guerra – Internacional da  Amazônia

Pensiamo alle descrizioni dei corpi scolpiti dei commilitoni di Ernst Jünger, che la guerra ha forgiato e privato di inutili orpelli. Pensiamo ai racconti di guerra di Pio Filippani Ronconi, dove l’azione bellica era manifestazione esteriore di un percorso interiore propiziate da apposite pratiche di yoga tantrico, talora includenti percorsi di sessualità magica.

Le tematiche di eugenetica e ingegneria postumana sono il culmine più estremo dell’Archeofuturismo di Faye:

«L’incompatibilità fra l’ideologia egualitaria moderna e il futurismo si vede bene nell’inverosimile limitazione dell’industria nucleare civile in Occidente attraverso un’opinione pubblica manipolata, o negli ostacoli pseudo-etici innalzati contro le tecniche transgeniche, la creazione di “ricostruzioni” umane o l’eugenetica positiva. Il futurismo sarà tanto più radicale quanto più ridiventerà arcaico; e dal canto suo l’arcaismo sarà tanto più radicale quanto più diventerà futurista.»

Le passate esperienze di Attila, avvenute prima dell’epoca dei grandi incendi che determinarono la caduta dello stato mondiale, costituiscono il suo curriculum “di medico alla corte del Condor”.

Un grande incendio che ricorda quello che Loki – il fuoco della parola – e Surtr, l’elementare della nera fiamma, appiccheranno nell’ora del Ragnarok: il compimento del destino degli Dei. Nella mitologia norrena il ruolo e soprattutto la punizione che gli viene inflitta da parte degli Dei ricordano quello di Prometeo. Principali alleati di Loki sono i Giganti, i quali ricordano i Titani di Jünger.

Jean Haudry "Loki" - Polemos

Loki, il fuoco della parola qualificante e i Giganti della tradizione norrena– Paralleli con Prometeo e i Titani

Nelle fonti norrene i giganti mantengono tutta loro potenza simbolica e la loro importanza cosmica anche senza diventare oggetto di un culto che storicamente non è mai stato attestato. Questo non toglie che la gran parte delle armi magiche, degli oggetti prodigiosi e delle sostanze inebrianti in qualche modo a loro sia legata e che gli Asi debbano costantemente organizzare delle spedizioni nelle loro terre per depredarli o beffarli.

Ma d’altro canto anche i nani possiedono grandi capacità sia magiche che artistiche nel modo delle Edda e delle saghe, sono abili fabbri, ma questo non fa comunque di loro oggetti o soggetti di un culto.

Per meglio comprendere il percorso della principale figura prometeica della mitologia norrena, gioverà citare un breve riassunto della figura di Loki come fuoco divino così come emerge da un testo del Prof. J. Haudry, Le Feu dans la Tradition Indo-Européenne, Capitolo X, Loki e Heimdall, Due antichi Fuochi nemici, Arché Milano 2016:

«Il mondo germanico antico non possiede un fuoco divino unico, ma soltanto i giganti scandinavi Eld – Fuoco – e Logi – Fiamma – nonché Surt – Fuoco Nero. Cesare attribuisce loro un Vulcanus nel De Bello Gallicus 6,17, ma Tacito nel De Germania, non lo menziona affatto, sia che questo dio sia scomparso sia che abbia perso il suo statuto divino in quel lasso di tempo, sia che Cesare (o Tacito) sia stato mal informato. Nonostante questo, diversi secoli dopo un culto del fuoco persiste senza che il fuoco sia divinizzato, come emerge da un passaggio delle Leggi di Canuto, 2,5, che impedisce di onorare «gli dei pagani, così come il sole e la luna, il fuoco o l’acqua corrente, le fonti o le rocce»: il culto del fuoco è esplicitamente distinto da quello delle divinità del pantheon. Questo culto è attestato sin da un’epoca antica dall’archeologia preistorica.

Due divinità scandinave frequentemente associate e antagoniste, Heimdall e Loki, possono essere considerate come due antichi Fuochi divini, ma che in nessuno dei due casi incarnano questo elemento nella loro totalità. L’evidente identificazione di Loki con il fuoco […] è stata persa di vista in favore di molte altre che sono molto meno pertinenti, e che riguardano soltanto dei tratti particolari del personaggio. È il caso dell’interpretazione a partire dal trickster e dell’interpretazione sociologica e psicologica di Dumezil che riconosce la presenza del fuoco e del vento nel suo personaggio ma la riduce a delle «vesti naturalistiche». Certamente l’interpretazione a partire dal fuoco divino non rende conto direttamente del suo nome che conviene separare, nonostante l’opinione di Grimm, da Logi – Fiamma. Al tempo stesso Heimdall, la cui denominazione non è molto più chiara di primo acchito, è stata identificata con il fuoco divino, anche se il rapporto non è poi così evidente per coloro che si concentrano esclusivamente su di uno studio interno al mondo scandinavo. È senza dubbio per questo motivo che la dimostrazione di Schroder, proseguente quella di Weinhold e altri, e fondata su un insieme di circostanze in evidente connessione con Agni non ha ancora ricevuto il recepimento che merita […].

Heimdall detto Loka dolgr – il nemico di Loki – da Snorri Edda Poetica, e Loki detto Traetudolgr Heimdallar – il nemico querelante di Heimdall – sono così strettamente legati tra di loro e, nel mito della collana, con Freya, che potremmo pensare, seguendo Mullenhoff, a dei gemelli nemici, e ad una sorta di trio dioscurico. Ma essi non sono gemelli, e neppure congeneri, visto che Heimdall è un ase – l’Ase bianco – e Loki un gigante passato nella schiera degli Asi: partiremo dunque da un mito ereditato [dal passato comune indoeuropeo] quello del Fuoco contro il Fuoco.

Presso gli Dei Loki presenta tre particolarità: è innanzi tutto assente dalle saghe dei clan, non figura nell’onomastica, e non è l’oggetto di alcun culto (Strom). Al di là del culto del Fuoco, là dove esso si osserva, è sempre secondario se messo a confronto con il fuoco del culto, un culto di Loki è inconcepibile in ragione del completamento della sua evoluzione: non si rende culto ai nemici degli dei. È per questa ragione che il suo nome non figura né tra i toponimi, dove è stato rimpiazzato dal diavolo, come tra i racconti leggendari e popolari, né tra gli antroponimi, né nelle saghe dei clan: nessun vuole un tale antenato. È per questo che gli sono stati attribuiti dei misfatti dei quali non era inizialmente responsabile.

Per comprendere il percorso di Loki, che inizia come «compagno di strada e di tavola di Odino e degli Asi» secondo l’Edda di Snorri e che lo vede terminare la sua carriera come un autentico «nemico degli Dèi», è conveniente inserirlo nel ciclo cosmico così come descritto dalla Voluspa Eddica: l’era dell’Oro iniziale, «la prima guerra del mondo», la morte di Baldr nell’ultima era, il «grande inverno» «crepuscolo degli Dèi». Mentre Heimdall resta dall’inizio alla fine uguale a sé stesso Loki evolve nello stesso senso del mondo [inteso come ciclo cosmico]. Gigante passato agli Dèi (Fuoco transfugo) tramite una alleanza personale con Odin, del quale diviene il fratello di sangue (Lokasenna, 9) egli fa parte della triade divina che crea l’umanità a partire dai vegetali. L’appartenenza a questa triade [Odin, Loki, Heonir] che in una delle sue varianti riunisce Odino a due dei suoi fratelli, mostra come Loki faccia realmente parte della cerchia superiore, aristocratica del pantheon, la più vicina al dio supremo, contrariamente a Thor, che suo padre Odino qualifica «dio dei servi» (Carme di Harbard, 24). Questo poiché Thor – tuono – è associato ad una forma fisica del fuoco, quella del fulmine, mentre Loki ne incarna principalmente la componente immateriale, del fuoco del pensiero e del fuoco della parola. Ma mentre il processo di decadenza si mette in marcia, esso si rivela ambiguo […]. La situazione bascula definitivamente sino alla morte di Balder della quale egli è il principale responsabile, poi con i suoi «sarcasmi» Lokasenna, ultima sfida lanciata agli Dei prima della sua cattività, alla quale segue il confronto finale del Crepuscolo degli Dei nel quale Heimdall e Loki si uccidono vicendevolmente. Il destino di Loki è stato paragonato, a giusto titolo, a quello di Prometeo, ugualmente legato al ciclo cosmico: titano che si allea con Zeus, poi in lite con lui e che ne detiene il segreto della caduta. È così anche nel caso di Agni vedico: asura passato nel campo degli Dei egli diviene l’Agni della fine del ciclo, yugantagni, che distrugge il mondo nella conflagrazione finale. Non è sufficiente come fa Dumezil sostenere che Loki «ha anche dei rapporti con il fuoco»: il fuoco è al centro della sua mitologia e all’origine del personaggio».

Odino e l'estasi guerresca - StorieParallele.it

Sempre nel medesimo testo, il prof. Haudry affronta e sintetizza i rapporti tra Loki e il dio sovrano, Odino, nel paragrafo Loki e Odino fratelli di sangue:

«Ai suoi albori, Loki, ancorché gigante di nascita, è un Ase devoto ai suoi soci, nonostante compia delle imprudenze che li mettono in pericolo, come Prometeo: «il Fuoco è un amico pericoloso». Detto «l’amico di Odino» come Lodur il «Fratello di sangue di Odino», Lokasenna, 9, ricopre un luogo di primaria importanza tra di essi. Egli è così prossimo ad Odino che Strom ha proposto di identificarli, osservando in particolar modo «che in nessuna circostanza egli si ritrova in opposizione personale ad Odin». È il caso più frequente per quel che riguarda i fuochi divini: Oltre ad Efesto e Prometeo essi sono di solito vicini al dio supremo, come Atar prossimo ad Ahura Mazda, Agni a Varuna, poi a Indra; Dioniso ed Ermete a Zeus. Loki e Odino hanno molto in comune: i loro legami con Hel (Helblindi, nome di Odino e di un fratello di Loki), la pratica del seid e l’effeminazione che vi si lega, il dono di cambiare forma; ma una differenza sostanziale li separa: mentre Odino resa uguale a sé stesso Loki evolve, come ha mostrato Schjodt. Non cambia nulla il fatto che egli [Loki] sia figlio di una coppia di giganti: Odino è nato da una gigantessa e suo padre Bor non è mai considerato come un dio; Tyr è figlio del gigante Hymir, Heimdall di nove gigantesse, Skadi figlia del gigante Thjazi. L’attaccamento di Loki ad Odino, del quale egli non diventa soltanto l’amico e il complice, ma il fratello di sangue, è sincero; mentre egli non ha nulla in comune con Thor, come nota De Vries, «ciò che è ammissibile nel mondo di Odino è condannabile nel mondo di Thor». Ma come il fuoco sacrificale perde i suoi poteri benefici nel corso dell’anno e deve essere spento prima di poter esser acceso nuovamente e rigenerato, Loki perde i suoi poteri nel corso del ciclo cosmico. In compenso il fuoco non perde mai il suo potere di nuocere. Loki li manifesta provocando la morte di Balder, impedendo che resusciti, generando il serpente del Midgard e il lupo Fenrir e partecipando al Crepuscolo degli Dei dove affronta Heimdall, «Fuoco contro Fuoco». I sarcasmi di Loki – Lokasenna – manifestazione del «fuoco della parola» si possono interpretare come la satira, nid, prologo verbale abituale prima di un confronto fisico (De vries): si situano dopo la morte di Balder della quale Loki si vanta, strofa 28, e che costituisce l’ultima fase della decadenza, quella alla quale succede la catastrofe finale. Non è un caso, dunque, che la prima vittima sia il dio della poesia Bragi, il cui nome è legato all’antico indiano brahman e al teonimo Brahmanas Pati».

Quello delle Edda in tal senso parrebbe un tempo ciclico ma non solo, forse piuttosto un tempo ricurvo in cui la catastrofe è sempre incombente e per certi versi sempre presente. Esemplificativo in tal senso è la canzone di Vafthtrudhnir. In questo canto eddico Odino sfida il gigante Vafthtrudhnir in una gara di sapienza:

«Disse Odino: “Molto ho viaggiato, molto ho sperimentato, molto ho messo alla prova Gli Dèi: che ne sarà di Odino al tramonto dei tempi quando gli dèi verranno a mancare?

[..]

Molto ho viaggiato, molto ho sperimentato, molto ho messo alla prova gli dèi: che cosa disse Odino a chi saliva sul rogo, proprio lui, all’orecchio del figlio?

Disse Vafthtrudhnir:

Nessun uomo conosce, quel che tu al principio dei giorni hai detto all’orecchio del figlio».

Dunque, sin dall’origine Odino ha già pronunciato le parole finali di congedo al figlio morto, nonostante tale evento dia l’inizio alla spirale di avvenimenti che fatalmente porterà al finale Ragnarok. Dunque la catastrofe non è semplicemente incombente, essa è preordinata nella stessa trama della creazione destinale del mondo, e gli Dei non possono impedirla, possono soltanto assecondarla, assumendola su di sé.

Le fonti norrene ci consegnano dunque una visione del tempo e del destino cosmico che potrebbe essere associata al “realismo eroico” di Ernst Jünger, quello di chi continua a marciare nonostante un destino di distruzione totale ed incombente: nel suo libro manifesto Der Arbeiter Jünger così si esprime «La virtù che si conviene a questo stato è quella del realismo eroico, che non è scosso neppure dalla totale distruzione o dalla mancanza di speranza». Così come testimoniano gli Scritti Politici e di Guerra del pluridecorato autore, la scoperta del “realismo eroico” rappresenta sempre di più l’attitudine fondamentale di Jünger, nel passaggio dalla figura del Krieger a quella dell’Arbeiter.

Jünger e la vendetta di Anteo

La dimensione iniziatica delle figure jungeriane

«Quando il mondo va in pezzi, si creano fenditure attraverso cui si rivelano i segreti dell’architettura che di solito ci sono occulti». Ernst Jünger, il Cuore Avventuroso

Pare che fosse lo stesso Jünger ad autodefinirsi un «mediatore di significati primordiali», impegnato nell’approfondire autentici fondali «scientifico-esoterici» dove la tecnica, la biologia e la fisica risponderebbero in qualche modo a principi atemporali, mitici e sarebbe suscettibili di un loro impiego autenticamente magico-alchemico. Per tutti questi motivi troviamo particolarmente azzeccata la traduzione di Arbeiter non come Operaio, Lavoratore o Operatore ma bensì Artefice, come colui che segue la via dell’Ars Regia, Operatore nel senso della Grande Opera: una trasmutazione alchemica che determina il superamento del borghese mediante la sintesi di elementi quali il sottosuolo dei titani, la metafisica delle figure immanenti come l’Arbeiter, la tecnoscienza intesa come forma magica e iniziatica. Non a caso Jünger stringerà rapporti di collaborazione con lo storico delle religioni Mircea Eliade e di amicizia con lo scrittore argenti J.L. Borges, autore peraltro di una raccolta di scritti intitolata L’artefice.

«La realtà non è meno magica di quanto il magico sia reale […]. Il tempo ci ha riavvicinati alle antiche formule magiche, a lungo dimenticate eppure sempre presenti. Il senso incomincia, esitando, a filtrare nella grande opera a cui tutti lavoriamo, e che ci tiene avvinti.» (Lettera siciliana all’uomo nella Luna.)

L’ordine esoterico per eccellenza, nella letteratura di Junger è quello dei misteriosi Mauretani: «Ho la certezza che una ristretta cerchia dei nostri sia al lavoro in luoghi segreti del più antico Tibet» afferma infatti in Eumeswil. Attila, esploratore e medico votato al postumano, è un vecchio appartenente all’Ordine dei Mauretani.

«Singolari tibetani, la cui preghiera monotona risuona dai monasteri rupestri degli osservatori! Chi potrebbe sorridere dei mulini da preghiera, conoscendo i nostri paesaggi con le loro miriadi di ruote vorticanti, la frenesia che muove la lancetta dell’orologio e la folle corsa dell’albero a gomiti dell’aeroplano? L’oppio dolce e rischioso della velocità! Eppure, non è forse vero che il centro della ruota è in piena quiete? La quiete è la lingua originaria della velocità. Per quanto si voglia tradurre la velocità e potenziarla, ogni potenziamento sarà solo una traduzione della lingua originaria. Ma in che modo comprenderà l’uomo la propria lingua?» (Lettera siciliana all’uomo nella Luna.)

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