“Sia la tua esistenza simile allo specchio, che restituisce in chiarezza luminosa l’immagine che riceve. Sotto l’austera divisa che tu porti conserva intatta la tua femminilità, che è gentilezza, è grazia, è bellezza, è soprattutto bontà, manifestatasi nel gesto, nella parola, nel sorriso, nella serena austerità del costume quale si conviene ad una donna italiana e ad un’Ausiliaria”.
La femminilità non è soffocata dall’austerità della divisa: è questo il valore trasmesso dal punto 5 del decalogo delle Ausiliarie. Un valore che si potrà ben riscontrare nelle Ausiliarie Jole Genesi – stenodattilografa della Brigata Nera “Augusto Cristina” di Novara – e Lidia Rovilda, assegnata alla GNR della stessa città.
Il primo maggio 1945 segnò l’inizio della fine delle due giovani che, una volta catturate alla Stazione Centrale di Milano, furono condotte all’albergo “San Carlo” di Arona, dove furono torturate tutta la notte con degli spilloni conficcati nella carne, poi legate assieme con un filo di ferro ed uccise con un colpo alla nuca. La loro pecca? Non aver tradito.
Jole e Lidia, infatti, si erano rifiutate fino all’ultimo di rivelare dove si trovasse la comandante provinciale di Novara.
Un altro esempio di femminilità, “che è gentilezza, è grazia, è bellezza, è soprattutto bontà, manifestatasi nel gesto”…, lo si può riscontrare anche nelle figure di Marcella Batacchi – fiorentina – e Jolanda Spitz, trentina, Le due diciottenni erano state assegnate al distretto militare di Cuneo. Il 30 aprile, la colonna in fuga della quale facevano parte, con sette loro compagne, si arrese ai partigiani a Biella. Le sette ragazze, per aver salva la vita, dichiararono di essere delle prostitute che avevano lasciato la casa di tolleranza di Cuneo per seguire i soldati. Una condotta che né Marcella né Jolanda ebbero intenzione di seguire. Infatti, le due giovani si dichiararono Ausiliarie. Una confessione che sancì la loro condanna a morte, ma prima di essere fucilate dovettero patire un calvario fatto di stupri e botte. Alla fine, furono gettate in una stessa fossa, l’una sull’altra. Quando, mesi dopo, i loro corpi furono esumati, i genitori trovarono due visi tumefatti e sfigurati; i corpi – però – erano bianchi e intatti, proprio come lo era stato il loro onore.
Ma sotto l’austera divisa si sprigionò altresì la femminilità di tante e tante altre ausiliarie come Laura Giolo e Lidia Fragiacomo, due giovani donne rispettivamente di 25 e 32 anni, trovate morte il 30 aprile 1945 assieme ad un gruppo di loro compagne. Le due ragazze morirono, dopo una vera e propria gara di emulazione, per rispondere alla domanda: “Chi di voi è la comandante?” Questa qualifica spettava a Laura Giolo, che infatti rispose senza alcuna esitazione, ma Lidia, convinta di poterla salvare, disse rivolta ai partigiani: “Non datele retta, sono io che comando il gruppo”. I partigiani che formavano il plotone di esecuzione, toccati da una scena così eroica e generosa, soprattutto in un periodo dove la barbarie faceva da padrona, scaricarono i mitra in aria. Purtroppo, non tutti furono presi da quell’ impulso di umanità ed empatia. Infatti, alla fine, le donne furono uccise senza alcuna pietà. La pietà, del resto, venne concessa solo nel momento in cui venne accolta la richiesta di assistenza religiosa alle due condannate.
Queste storie, sconosciute ai più, ci trasmettono l’esempio di donne pronte a sacrificarsi per non rinnegare la loro Causa e la loro lealtà al comandante. Donne la cui condotta richiama altresì un altro punto del catalogo delle Ausiliarie: il nono.
“Rammentati che la vita ha valore non in quanto tu esisti e ti appartiene, ma in quanto tu sei destinata ad operare per il bene della collettività nazionale di cui fai parte. Dimentica te stessa negli altri, accostati ai tuoi fratelli con intelletto d’amore, insegna con l’esempio il culto per la Patria”.
Italiane che, infatti, sacrificarono la loro vita per le sorelle di battaglia, dimenticandosi della propria persona e accostandosi ai propri fratelli.
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