“Sommessi a lui si volsero / come aspettando il fato / Ei fé silenzio, ed arbitro / s’assise in mezzo a lor”.
Così, nella sua celeberrima ode in morte dell’Imperatore esiliato, Alessandro Manzoni. Pochi nella Storia, pochissimi come Napoleone Bonaparte hanno saputo farsi spartiacque eterni fra i secoli, punti fissi a scandire un prima e un dopo, metronomi gloriosi sui cui rintocchi le vicende umane passano e vanno. Pochissimi, senz’altro, nella vita della nostra Europa sono stati come lui capaci non di affrontare il fato, ma di essere fato, e ciò, d’autorità, dovrebbe assegnargli quel rispetto istintivo che l’uomo, al di là del Bene e del Male, è tenuto a tributare a ciò che è alto, grande, solenne.
Tuttavia, il ressentiment è una brutta bestia. Avvelena i cuori, mortifica le menti, e non riesce a darsi pace finché non ha abbattuto ogni vetta, infangato ogni candore, oscurato ogni Sole e brutalizzato ogni spirito per allinearlo alla penombra della propria miseria. Pertanto, quando – parafrasando Jünger – l’odio profondo per la bellezza (e la grandezza) non appartiene più a un singolo animo volgare, bensì ad un’intera società che della volgarità ha fatto la sua forma, è naturale che figure come il Gran Corso diventino insopportabili, intollerabili, inaccettabili.
Ecco, dunque, che il circo chiama a rapporto Ridley Scott. Non uno qualsiasi, ma un cineasta di sicuro talento, capace di regalare negli anni alla Settima Arte capolavori di assoluto valore – Il Gladiatore (2000), certo, che noi tutti abbiamo apprezzato per come ha saputo raffigurare memorabilmente l’onore marziale di Roma, ma anche gli indiscussi contributi pionieristici al cinema fantascientifico/distopico, da Alien (1979) a Prometheus (2012), passando per Blade Runner (1982). Un grande artista, dunque, la cui bravura non può che rendere ancora più vergognoso e sconcio quando visto.
Napoleon (2023, 158 min.), infatti, è un film immondo. Non c’è altro modo di definirlo. Ogni mezza parola, ogni tentativo di appigliarsi alle capacità tecniche, all’ampio respiro delle carrellate, alla spettacolare ricostruzione della battaglia di Austerlitz, all’eccellente interpretazione di Joaquin Phoenix, sarebbe un atto di disonestà. Napoleon è un film immondo, e non tanto per l’impossibile numero di errori storici di cui è colmo (del resto, si sa, siamo a Hollywood). Napoleon disgusta – piuttosto – per il risentimento, l’invidia, l’astio sovversivo che lo intridono, vili impulsi i cui miasmi emanano – soprattutto nella prima parte – da ogni sua inquadratura.
Assai meglio sarebbe stato se Scott avesse dipinto Napoleone come un tiranno crudele e consapevolmente sanguinario, e per quanto chi scrive ritenga la reductio ad hitlerum il più basso espediente retorico che chi non ha argomenti possa utilizzare, senz’altro in questo caso sarebbe stata di gran lunga preferibile. La malvagità, la crudeltà, la ferocia, comunque le si guardi, stabiliscono a loro modo un ordine di grandezza ed eccezionalità (seppur negative), e quanto a un Grande Despota, scambiare il nadir con lo zenit talvolta è assai più facile di quanto molti siano abituati a supporre.
Il Napoleone di Scott, invece, è altro. È uno psicopatico isterico, un incel sottomesso e vano, insicuro, impacciato, debole e complessatissimo sino alla macchietta e alla burla; un ometto insignificante che scappa e inciampa sulle scale, che fa smorfie, che parla a vuoto e ogni tanto guida le sue truppe in battaglia; un individuo meschino, perennemente assetato e affamato di elogi e conferme, che quando è piccato tira il cibo alla moglie, e quando è eccitato le balza goffamente addosso in stile commediaccia sexy anni Settanta.
Già, la moglie. Il matrimonio con Giuseppina è il vero cardine dell’opera. In sé, la ricostruzione (anche romanzata) del rapporto di un grande con la sua donna non sarebbe certo una novità assoluta. Grandi libri sono stati scritti, grandi film sono stati girati al riguardo. Tuttavia, l’ossessivo rimestare nel torbido delle morbosità sessuali-psicologiche dei due coniugi travalica in Napoleon ogni limite di decenza e correttezza intellettuale, sfociando nell’aperta pagliacciata dagli intenti palesemente falsificatori e distruttivi.
Per tale ributtante operazone di character assassination, non poteva esserci sicario migliore di Scott. Se la ‘licenza poetica’ è da sempre un tratto ricorrente nella sua filmografia, da anni il regista britannico si è abbandonato a una sistematica storpiatura della Storia volta a fornire supporti bugiardi e inesistenti alla causa progressista (femminista, in particolare), a cui pare essersi dedicato anima e corpo. Per citare solo due fra i più recenti esempi, in House of Gucci (2021) la spregiudicata assassina Patrizia Reggiani ricorre all’omicidio per liberarsi dall’opprimente giogo ‘patriarcale’ della dynasty, mentre in The Last Duel (2021) l’effetto Rashomon [1] è volontariamente calpestato e sacrificato sull’altare di un virulento e grottesco attacco contro l’istituzione matrimoniale, la famiglia e il Medioevo francese (e, per estensione, europeo), con tanto di dibattiti sull’orgasmo tenuti, con un vocabolario degno della rubrica erotica di Vice o Fanpage, nientemeno che al cospetto di Re Carlo VI Valois.
In Napoleon, la mistificazione si fa totale. Poggiando su un sostrato freudiano che ormai ammorba quasi completamente la cultura accademica, l’istruzione scolastica, la percezione comune dell’arte e della vita, idea secondo cui sogni, desideri, azioni non possono che avere radici e motivazioni unicamente e inevitabilmente sessuali (un sesso, ça va sans dire, privo di qualunque metafisicità, e inteso soltanto nella sua dimensione ctonia e materiale), si procede senza ritegno a una decostruzione completa della figura dell’Imperatore, delle sue imprese, del suo lascito. Il Gran Corso, colui dinanzi al quale Hegel coniò l’immortale immagine di “Weltseele zu Pferde”, “lo spirito del mondo a cavallo”, il novello Cesare, lo spartiacque della Storia, diventa un poveretto malato di sesso e approvazione che fa la guerra solo per darsi un patetico tono da macho con la moglie, la quale, quando non lo disprezza, lo commisera, lo sopporta e poco più.
L’immagine di Napoleone Bonaparte ne esce a pezzi in un tripudio d’invidia e calunnie, ma l’obbiettivo finale dell’intemerata – non giriamoci intorno – è molto più esteso della sua immensa figura (e certo non è la ripicca campanilistica imbastita dall’inglese Scott, come alcuni hanno ipotizzato). Nel mirino, infatti, vediamo inequivocabilmente l’Europa, la stirpe europea, il genio europeo.
La nostra gente non può avere orgoglio del proprio passato. Non può avere eroi, condottieri, santi, imperatori di cui andare fiera. Alle nostre spalle, solo malati, violenti, viziosi, stupidi subumani, che hanno insozzato il mondo con la loro odiosa e criminale presenza, e dei quali non possiamo far altro che vergognarci prostrandoci piegati dall’onta del nostro esistere, chini rinunciando a un futuro che non può appartenerci, bollati come siamo senza rimedio dallo stigma di reietti, rinnegati, bastardi dell’umanità. Tre milioni di morti hanno causato le guerre di Napoleone, tre milioni di morti uccisi dalle smanie sessuali di un europeo frustrato: questo è ciò che Ridley Scott vorrebbe insegnare alle masse, sottolineandolo nei titoli di coda; questo – al contrario – è ciò contro cui il nitore della nostra Weltanschauung ci impone di levarci.
“Fu vera gloria?”, chiede il Manzoni, interrogativo più che mai attuale. Noi, checché ne vogliano i saltimbanchi della cancellazione e le anime povere, noi, che alla parola “gloria” diamo un significato preciso, e che il volgere delle contingenze non può e non potrà mai mutare, noi, che sappiamo e vogliamo distaccarci da ciò che è umano, troppo umano, e vediamo nella grandezza una vetta cui tendere e non un macigno che ci schiaccia, alla domanda rispondiamo, e sempre risponderemo, affermativamente.
NOTA
[1] Si definisce “effetto Rashomon” (da Rashomon, capolavoro del 1950 di Akira Kurosawa) un peculiare espediente di sceneggiatura per cui più personaggi ripercorrono la medesima vicenda mostrandola allo spettatore da punti di vista diversi ma ugualmente plausibili, allo scopo di trasmettere l’impossibilità di una “verità vera”, a cui va a sostituirsi un caleidoscopio di differenti percezioni. In The Last Duel, Ridley Scott sceglie di infrangere l’effetto Rashomon che costituisce l’ossatura del film, facendo seguire alle “verità secondo Jean de Carrouges (Matt Damon) e Jacques Le Gris (Adam Driver)” la versione di Marguerite de Carrouges (Jodie Comer), definità “verità” e basta, senza ulteriori specificazioni.