La redazione di identitario.org propone questo articolo di Francesco Marrara, già autore del libro “La sfida partecipativa” (Passaggio al Bosco Edizioni) e collaboratore dell’Istituto Stato e Partecipazione, che invitiamo i lettori a seguire e sostenere.
Tagli alla spesa pubblica, aumento dell’imposizione fiscale, attacco diretto ai risparmi dei cittadini, privatizzazioni e svendita del patrimonio pubblico italiano. Queste, in estrema sintesi, le scelte di politica economica adottate dai governi italiani negli ultimi trent’anni. Scelte quasi obbligate in virtù del cosiddetto “vincolo esterno” al quale siamo condannati, come popolo e come nazione, almeno dal 1943. Dunque, senza sovranità, non ci potrà mai essere indipendenza e di conseguenza le possibilità di tornare potenza attraverso politiche economiche e sociali improntate alla crescita e allo sviluppo restano davvero molto risicate.
Rassegnarsi a questa idea del pilota automatico, tuttavia, significherebbe arrendersi senza tentare una via d’uscita, seppur ostica. Per cui, è possibile ancora oggi lanciare un messaggio di speranza e di cambiamento andando oltre i vecchi steccati ideologici, economici, sociali e politici. Per fare ciò, è necessario far riemergere dalla damnatio memoriae il modello economico-sociale della Terza Via italiana improntato sull’armonia tra pubblico e privato. Questo, tra alti e bassi, garantì – a partire dagli anni Trenta fino a metà anni Novanta del secolo scorso – prosperità e benessere a diverse generazioni di italiani. Un’idea non ancorata ai soli confini nazionali, ma che altresì assume un profondo respiro di carattere europeo.
LE ORIGINI DI UN MODELLO ALTERNATIVO
Come nasce e come si sviluppa la Terza Via, modello economico-sociale alternativo al collettivismo marxista e al mercatismo di stampo liberal-capitalista? Nella storia d’Italia esiste un filo rosso (o meglio tricolore) che lega – in maniera trasversale, fino ad arrivare ai nostri giorni – uomini, esperienze, epoche, tradizioni filosofiche, economiche e politiche a tale pensiero. Dalla Scuola Napoletana di Economia Civile fondata da Antonio Genovesi a metà Settecento, si passa per la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, la cui dottrina sociale si fondava sul rifiuto della lotta di classe e del collettivismo in nome della collaborazione e della solidarietà tra le classi, quindi della partecipazione dei lavoratori agli utili ed alla proprietà. Conseguenza di ciò fu la stesura della Costituzione della Repubblica Romana del 1849. Come non ricordare, inoltre, le Encicliche Papali quali ad esempio la Rerum Novarum di Leone XIII, la Quadragesimo Anno di Pio XI e la Centesimus Annus di Giovanni Paolo II ed i principi sanciti dalla Dottrina Sociale della Chiesa; la Carta del Carnaro di Gabriele D’Annunzio e di Alceste De Ambris del 1920; la Carta del lavoro del 21 aprile 1927; il Manifesto di Verona del 1943; il D.lgs. 375/1944 (il cosiddetto decreto sulla socializzazione delle imprese). Fino ad arrivare alle radici nascoste Costituzione italiana, nella fattispecie del caso il Titolo III relativo alla disciplina dei rapporti economici (artt. 35-47 Cost.), alle figure di due grandi imprenditori italiani (Adriano Olivetti ed Enrico Mattei) ed infine alle esperienze più recenti, vedi il caso Birra Messina, di recupero di realtà aziendali agonizzanti da parte degli stessi lavoratori.
L’essenza di tale filo tricolore la ritroviamo oggigiorno scolpita nero su bianco all’articolo 46 della Costituzione, il quale sancisce la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. D’altronde, è bene rammentarlo, si tratta una disposizione tanto profetica e calzante con le inquietudini dei nostri tempi quanto disattesa e mai seriamente presa in considerazione. Ma è proprio da questo sano spirito socializzatore, fondamento della vera Democrazia organica e partecipativa, che occorrerebbe ripartire con il fine di affrontare non solo le sfide del nostro secolo, ma altresì dare concreta soluzione all’annosa questione sociale.