La guerra civile americana scoppiò nel 1861, in seguito alla decisione del governo federale di voler eliminare la schiavitù, dalla quale gli stati del sud erano fortemente dipendenti. Tuttavia, le ragioni che spinsero il Sud a secedere, evidentemente, andavano oltre la schiavitù: la politica protezionista ed isolazionista del Nord – che avrebbe distrutto i rapporti commerciali del Sud con Regno Unito e Cuba –, l’industrializzazione forzata che avrebbe tolto mano d’opera al Sud, l’accentramento del potere ai danni della politica degli “States Rights” ed infine il compromesso del Missouri — che creò una piccola guerra ante-litteram per il controllo del Kansas tra le forze nordiste e sudiste.
Il Sud rivendicava il possesso del Kansas, nonostante il compromesso del Missouri del 1820 stabilisse che non si sarebbero dovuti formare altri stati schiavisti, oltre il confine meridionale dello Stato del Missouri. Questo indispettì il Sud, per la sproporzione in termini di rappresentanza al congresso da parte dei nordisti e per l’estensione geografica che il nord aveva a disposizione.
Oggi – a distanza di tanto tempo – possiamo toccare con mano le medesime ragioni che spinsero il Sud a secedere dal Nord. Lo abbiamo visto nel 2022, quando la Corte suprema statunitense ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade con cui, nel 1973, la stessa Corte aveva legalizzato l’aborto negli USA. Il congresso nel 2022 dichiarò che “La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”, dando de facto ai singoli Stati il diritto di libera scelta. L’abolizione della sentenza Roe v. Wade, ovviamente, fu un’ulteriore spaccatura che incendiò l’America e che mostrò come la questione degli States Rights fosse ancora sentita dall’elettorato americano.
Lo abbiamo visto anche con il Black Lives Matter, movimento di rivendicazione per i diritti degli afroamericani che, dopo i fatti del 25 Maggio del 2020, scese nelle piazze delle metropoli americane per protestare contro l’uccisione di George Floyd. Ben presto – però – le proteste divennero una scusa per assalire e aggredire i bianchi; ed in tutto il paese regnò il disordine che portò alla morte di 25 persone – a causa degli scontri razziali –, e i danni economici ammontarono ad un miliardo di dollari — il più alto danno economico mai registrato per disordini civili nella storia degli Stati Uniti di America.
Ma lo spaccato era già visibile anche da un sondaggio del 2014 che riportava che il 54% dei Texani era favorevole alla secessione; e da un altro sondaggio del 2023 che mostrava come 2/3 dell’elettorato repubblicano fosse favorevole alla secessione (e lo fosse anche il 50% dell’elettorato apartitico). Numeri che sono cresciuti con l’amministrazione Biden, tra le peggiori di sempre, in questi ultimi quattro anni.
Recentemente il governatore del Texas Greg Abbott, in seguito alla scaramuccia tra la guardia nazionale – che rivendicava il diritto di difendere i propri confini – e l’esercito del governo federale, ha avuto il sostegno da parte dei governatori di altri stati del Sud (Florida, South Dakota, Virginia) e anche del Nord (Montana). Questo spaccato non è il frutto di un’incomprensione tra due entità governative, ma il risultato storico di una lotta tra due blocchi di pensiero e tra due compagini: quella globalista, capitalista, consumistica e collettivista, figlia dell’America più urbanizzata, contro quella identitaria, cristiana, comunitaristica e confederale. Fratture di ieri, ma anche di oggi: linee di faglia sempre presenti, che certamente hanno un peso nelle dinamiche politiche e sociali del nostro tempo. Saranno capaci di influire sul decisivo voto politico di novembre? Staremo a vedere…