La bufala storica delle foibe come “reazione alle atrocità italiane”

Feb 10, 2024

Tempo di lettura: 16 min.

Ringraziamo la redazione de Il Primato Nazionale per aver concesso la ripubblicazione di questo articolo. 

La questione della controguerriglia italiana nella Balcania occupata (territori ex jugoslavi), sulla quale tante falsità, ancor più che inesattezze, sono state scritte da autori di estrazione marxista, quasi a giustificare la pulizia etnica praticata dall’Esercito popolare di liberazione jugoslavo nei territori di Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, culminati nell’uccisione complessiva di circa 23.000 italiani e nell’esodo forzato di altri 350.000; ciò senza negare assolutamente le atrocità commesse da entrambe le parti in lotta.

Per sostenere quanto da noi affermato ci affideremo anche ai lavori di due storici dichiaratamente di sinistra, come il prof. Giorgio Rochat e Gianni Oliva, assai più seri e documentati rispetto a due attiviste filoslave come Cernigoi e Kersevan – che si autodefinisce sui social capitano dell’OZNA (la polizia politica titina responsabile materiale delle foibe e del massacro di un milione tra sloveni, serbi, croati, bosniaci, minoranze albanesi, germanofone, ungheresi e bulgare [1]) – autrici di operette horror-fantasy sulle presunte violenze fasciste in Jugoslavia, e ovviamente negazioniste nei massacri non presunti compiuti dai comunisti slavi e dai loro manutengoli garibaldini. Ovviamente le due Lovecraft del confine orientale sono attualmente candidate con Potere al popolo.

Ad una situazione quasi interamente tranquilla nei territori sotto occupazione italiana, seguì, dopo il 21 giugno del 1941, l’inizio dell’attività dei partigiani comunisti. Il movimento comunista internazionale era rimasto filo-nazista sin dal momento del patto Molotov- Ribbentrop, favorendo in ogni modo l’operato di Hitler, in seguito alle precise istruzioni di Stalin. Tutto questo cambiò repentinamente con l’inizio della guerra fra Germania ed URSS, cosicché anche in Slovenia e Dalmazia fece la sua comparsa la guerriglia comunista.

Foibe: l'unica storia che è concesso negare

Spiega infatti l’Oliva:
Le truppe [italiane] si sono mosse per reazione ad attacchi subiti e questi, a loro volta, non sono stati determinati dalla durezza dell’occupazione, ma da fattori interni e internazionali indipendenti dal com­portamento del Regio esercito [2].
Come era stata la Jugoslavia ad attaccare l’Italia nel 1941, così in seguito sono stati i partigiani comunisti ad assalire per primi le truppe italiane in Montenegro, Slovenia e Dalmazia. Inoltre, sin da subito i partigiani si resero responsabili di ripetute e gravi violazioni delle leggi di guerra. Giorgio Rochat, sicuramente non ascrivibile a posizioni in qualsiasi modo riconducibili a visioni nazionalistiche della storia militare italiane, si è soffermato anche sulla guerra balcanica dell’Italia [3] nella sua monografia dedicata alle guerre italiane del periodo 1935-1943. È interessante vederne l’approccio. Anzitutto il Rochat delinea il contesto in cui operarono le truppe italiane, che è quello classico di un esercito regolare contrapposto a reparti irregolari:

La prima cosa da rilevare è che tutti gli eserciti regolari hanno difficoltà a capire e affrontare una guerra partigiana. L’istituzio­ne militare si legittima come monopolio della violenza organizza­ta al servizio dello Stato, quindi ricerca la massima potenza di­struttiva consentita dallo sviluppo degli armamenti per un con­flitto programmato contro forze analoghe degli Stati nemici. I suoi codici di valore sono orientati a questo tipo di conflitto, definirlo «cavalleresco» sarebbe eccessivo, ma tutti gli eserciti regolari ac­cettano alcune regole di massima come il rispetto del nemico feri­to o che si dà prigioniero (non fosse che per ovvie esigenze di re­ciprocità) e dei civili, fino a quando restano civili, ossia non partecipano ai combattimenti. […] La cultura e l’addestramento di un esercito regolare vanno però in crisi quando si trova a occupare un paese ostile con una resi­stenza di popolo, dove ogni civile è un potenziale nemico, e deve fare fronte a una guerra partigiana condotta secondo regole tatti­che e codici di comportamento differenti da quelli «regolari». […] Quindi tende a ricorrere a solu­zioni brutali (fucilazioni, distruzioni di villaggi, deportazioni) [4].
In altri termini, il Rochat ricorda come il Regio Esercito si trovò a dover fronteggiare avversari i quali non rispettavano le leggi di guerra: uccisione sistematica dei prigionieri, sevizie, attacchi terroristici ecc. Per dare un’idea del modo di condurre la guerra, bastino pochissime citazioni dall’opera di Oliva, relative ad alcuni episodi bellici relativi alle Camicie Nere:
Decine e decine di mi­litari italiani furono ritrovati con le membra spezzate, evirati, con gli occhi enucleati […] Quando le nostre truppe poterono tornare sul luogo del­la lotta, poterono constatare che i feriti erano stati sevi­ziati: denudati tutti, alcuni evirati, conficcati i fasci del bavero negli occhi, infine tutti sgozzati […] I ribelli si accanirono sui feriti, ai più gravi aprirono il ventre estraendone le vi­scere, ai più leggeri spaccarono la testa a martellate e poi buttarono i cadaveri in un pozzo profondo venticinque metri [5].

Ancora, i cosiddetti “partigiani” secondo le convenzioni internazionali di guerra dell’epoca non potevano essere considerati legittimi belligeranti, ma franchi tiratori e come tali tratta­ti Ciò avveniva per una serie precisa di ragioni:
1 ) Non avevano possesso stabile di territorio, né erano insorti contro di noi al momento del­l’occupazione della Jugoslavia;
2) non facevano capo ad un governo responsabile né, per motto tempo, apparten­nero ad un’organizzazione unica;
3) erano sudditii di uno Stato che aveva concluso con noi un armistizio;
4) non portavano uniformi né, spesso, distintivo visibile a di­stanza;
5) non sempre portavano le armi apertamente;
6) non sempre rispettavano le leggi e gli usi di guerra;
7) per molto tempo non furono riconosciuti come legittimi belli­geranti neppure dalle Nazioni Unite, che tale qualifica ri­conoscevano invece ai cetnici [6]. Determinate forme di conduzione del conflitto compiute dai partigiani, quali gli attacchi a tradimento, gli attentati con bombe, le uccisioni di prigionieri, le torture inflitte loro ecc. erano, e sono ancora oggi, contrarie alle leggi di guerra. I caratteri dell’attività di contro-guerriglia delle forze armate italiane furono quindi una reazione alle azioni criminali dei partigiani, compiute in violazione delle leggi di guerra. Le operazioni anti-guerriglia intraprese dalle truppe italiane furono perciò conseguenza sia dell’attacco compiuto contro il Regio Esercito da parte dei partigiani comunisti e dovuto a fattori di ordine internazionali indipendenti dal suo operato, sia dei crimini di guerra dei partigiani. Le istruzioni date da Roatta, comandante delle truppe italiane in Jugoslavia, erano semplici anti-guerriglia. Citando sempre dal Rochat:
La lunga circolare emanata il 1° marzo 1942 dal generale Roatta […] rappresenta un’articolata raccolta di istruzioni per 1’occupazione e la contro­guerriglia, nonché un forte appello a una maggiore combattività delle truppe; il documento più ampio che conosciamo su questi problemi, che merita qualche attenzione [7]
Le istruzioni contenute nella circolare di Roatta sono definite dal Rochat quali elementari, essendo presenti nell’insegnamento di qualsiasi scuola di guerra:
[Roatta] dà per scontato un livello quanto mai basso di addestramento delle truppe e soprattut­to dei quadri (le indicazioni contenute sono elementari, materia di insegnamento in qualsiasi scuola per ufficiali) e cerca di porvi rime­dio con pagine e pagine di istruzioni [8].

Le norme di Roatta prevedevano:
1) la fucilazione dei partigiani
2) l’utilizzo della rappresaglia su civili
3) la distruzione delle abitazioni di chi appoggiava i partigiani
4) internamento di coloro che appoggiavano i partigiani
5) si doveva evitare di colpire chiese, scuole, ospedali, opere pubbliche, e non bisognava fare ricorso a bombardamenti indiscriminati sui villaggi.
Commenta ancora Rochat:
Sono le norme classiche dell’antiguerriglia, applicate in tutte le guerre contemporanee, con ovvie varianti e qualche limitazio­ne rispetto ai secoli precedenti [9].

Dello stesso parere è Gianni Oliva:
Vi è stata una politica repressiva del Regio esercito, simile a quella che gli esercito occupanti di ogni nazione (comprese quelle più democratiche), attuano in un paese nemico […] dove si sviluppa una guerriglia variamente appoggiata dalla popolazione civile [10].

Le istruzioni di Roatta prevedevano infatti quanto era contenuto nelle norme antiguerriglia di tutti gli eserciti belligeranti, compresi quelli alleati. Inoltre, esse risultavano pienamente conformi alle stesse leggi di guerra vigenti all’epoca, le quali consentivano la fucilazione dei combattenti irregolari, la rappresaglia e l’internamento dei civili rei di connubio con reparti irregolari. Come appare inequivocabilmente, le direttive di questo generale non progettavano alcuno sterminio sistematico della popolazione civile, ma erano unicamente finalizzate alla repressione dell’attività partigiana. L’assenza di un piano di uccisione od anche solo cacciata degli abitanti in quanto tali si manifesta anche dalle direttive di risparmiare chiese, scuole, ospedali, opere pubbliche, e di non servirsi di bombardamenti a tappeto sui villaggi. Vale la pena di esaminarle.
Emanata nel marzo del 1942 la Circolare 3C, relativa al trattamento da usare verso i ribelli e le popolazioni che li favoriscono, è stata spesso utilizzata come prova delle nefandezze commesse dalle truppe italiane di stanza in Iugoslavia. Da tale documento vengono talvolta estratte — e conseguentemente estrapolate dal loro contesto — delle affermazioni di particolare impatto, quali per esempio
Il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula: “dente per dente” ma bensì da quella “testa per dente”,
oppure
Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti,
non riportando però quanto nella medesima circolare Roatta riteneva opportuno venisse precisato, ossia che
Nel trattamento da usare verso le popolazioni, gli edifici,  villaggi e beni, e verso i partigiani, è assolutamente necessario di attenersi alle norme permanenti o contingenti in vigore. — Inasprimenti alle medesime, praticati senza un’assoluta necessità (atti di ostilità armata — tentativi di fuga), sarebbero indegni delle nostre tradizioni di umanità e di giustizia, e costituirebbero altresì — nei riflessi delle popolazioni — un’arma a “doppio taglio”.
e, precedentemente all’affermazione riportata pocanzi, che
Alla distruzione di interi villaggi si procede solo nel caso che l’intera popolazione o la massima parte di essa, abbia combattuto materialmente contro le nostre truppe, dall’interno dei villaggi stessi, e durante le operazioni in quel dato momento in atto. 
e che
Il saccheggio delle abitazioni, comprese quelle da distruggere, deve essere impedito con misure preventive e, se occorre, con repressioni draconiane.
Inoltre la severità e la durezza previste dalla circolare per i partigiani — o per i presunti tali — e per coloro che li sostenevano non erano da applicarsi universalmente: infatti nell’Allegato “B” del 22 aprile 1942 XX dal titolo Trattamento da usare verso i ribelli si trova scritto che
— I ribelli, colti colle armi alla mano, e gli individui di cui al comma a) del n. 1 della Ia appendice alla circolare 3C, saranno immediatamente fucilati sul posto. Faranno eccezione:
— i  feriti
— i  maschi validi di età inferiore ai 18 anni
— le  donne
che saranno deferiti (i primi una volta guariti), ai tribunali di guerra competenti. 
[…]
Il contenuto di questo allegato non sarà incluso nella circolare n. 3 C, ma comunicato per iscritto ai comandi di divisione (od ente corrispondente), e da questi ai comandi in sottordine solo verbalmente.
Oltre a ciò, Roatta, una volta venuto a conoscenza di degli episodi di ritorsione a danni di villaggi, emanò nell’aprile del 1942 — ossia un mese dopo l’uscita della 3C — un’appendice al documento, nella quale si trova scritto:
[…] allo stato attuale delle cose è sancita la distruzione di abitazioni solo nel primo caso di cui sopra, ed a quattro condizioni:
— località in situazione anormale;
— sabotaggio o sabotaggi avvenuti in prossimità delle abitazioni di cui trattasi;
— trascorso lasso di 48 ore;
— mancata emersione dei responsabili. 
III. — Orbene, in questi ultimi tempi è accaduto che, in seguito a semplici scaramucce, o durante rastrellamenti compiuti senza colpo ferire, interi villaggi sono stati distrutti.
[…]

Giorno del Ricordo, per non dimenticare le vittime delle foibe e l'esodo  istriano - Acli

  1. — Non intendo esaminare caso per caso, non intendo “fare il processo” al passato, e non ho neppure l’intenzione di legare le mani ai comandanti dipendenti, nel senso di vietare senz’altro la distruzione di abitazioni; desidero unicamente attirare l’attenzione sul pericolo (“arma a doppio taglio”) annesso a distruzioni indesiderate ed inutili.

— Le popolazioni delle località non protette materialmente dai nostri presidi (che costituiscono la maggioranza), e che sono disarmate, quando premute dai ribelli sono costrette — volenti o nolenti — ad ospitarli, a vettovagliarli, e pertanto — a prescindere anche da qualsiasi altro atteggiamento a favorirli.
— Quando le nostre truppe si avvicinano, operazioni durante, a dette località, i ribelli costringono la popolazione ad abbandonarle, senza peraltro distruggerle.
— Se noi, penetrati senza ostacoli locali nei villaggi, li diamo alle fiamme, compiamo non solo un eccesso, non compiuto dai ribelli, ma favoriamo la propaganda di questi ultimi.
Nel senso che la popolazione, anziché tornare alle proprie case — ormai inesistenti — rimarrà conglobata nelle formazioni ribelli, e si spargerà la convinzione che le truppe italiane, nonché la pacificazione e la giustizia, portino la devastazione. Senza contare che, malgrado qualsiasi misura in contrario, si verificano saccheggi individuali, non certo fatti per aumentare il nostro prestigio ed attirarci le popolazioni.

  1. — Ciò posto determino — nell’allegato A — quali siano le circostanze in cui è consentita la distruzione dei singoli edifizi, e di interi villaggi.

— Il contenuto di detto allegato formerò oggetto della “1a appendice” alla circolare 3C che verrà stampata e distribuita per essere materialmente in essa inserita.
— I comandi in indirizzo ne diano però senz’altro conoscenza a quelli dipendenti.
Bisogna inoltre avere ben chiaro che le misure prese, per quanto drastiche, erano avulse da scopi quali la pulizia etnica dell’elemento slavo, ma volte solo alla repressione della guerriglia partigiana, come è d’altronde dimostrabile attraverso una lettura completa della Circolare 3C; essa infatti si presenta come un insieme di una serie di provvedimenti straordinari uniti a indicazioni, rivolte ai soldati italiani, di tipo tecnico e pratico. Le autorità italiane internarono nei campi di prigionia in Dalmazia e in Italia i civili croati sospettati di sostenere i partigiani o pericolosi per il governo italiano. All’inizio del 1942, gli italiani iniziarono ad espellere circa 17.000 croati indesiderati in direzione della N.D.H..
Parallelamente l’esercito italiano creò un cordone sanitario lungo i confini del territorio annesso per evitare le incursioni partigiane. Inoltre, al fine di internare i partigiani e sospettati catturati in precedenza, le autorità militari e civili italiane crearono, su un certo numero di isole dalmate, campi di concentramento; i più grandi si trovavano sull’isola di Melada e di Arbe. Dai 30.000 ai 40.000 croati furono internati e nel settembre 1943 inviati in Croazia a seguito di un accordo tra il governo italiano e quello della N.D.H.. Per dare un giudizio di quanto accaduto in maniera imparziale, l’unico metodo è quello di affidarsi alle leggi internazionali. Nel caso specifico ci riferiremo alla Convenzione dell’Aja del 1907, vigente a quell’epoca, e alle successive conclusioni del Tribunale di Norimberga. L’art. 42 della Convenzione dell’Aja recita:

La popolazione ha l’obbligo di continuare nelle sue attività abituali astenendosi da qualsiasi attività dannosa nei confronti delle truppe e delle operazioni militari. La potenza occupante può pretendere che venga data esecuzione a queste disposizioni al fine di garantire la sicurezza delle truppe occupanti e al fine di mantenere ordine e sicurezza. Solo al fine di conseguire tale scopo la potenza occupante ha la facoltà, come ultima ratio, di procedere alla cattura e alla esecuzione degli ostaggi.

Secondo il diritto internazionale (Art. 1 della convenzione dell’Aia del 1907) un atto di guerra materialmente legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari i quali rispondano a determinati requisiti, cioè abbiano alla loro testa una persona responsabile per i subordinati, abbiano un segno distintivo fisso riconoscibile a distanza e portino apertamente le armi. Ciò premesso, si può senz’altro affermare che gli attentati messi in atto dai partigiani fossero atti illegittimi di guerra essendo stati compiuti da appartenenti a un corpo sì di volontari che però non rispondevano ad alcuno degli accennati requisiti. Secondo l’Art. 2 della convenzione di Ginevra del 1929 non potevano essere utilizzati per una rappresaglia né feriti né prigionieri di guerra e neppure personale sanitario.

Il Tribunale di Norimberga d’altra parte affermò:
Le misure di rappresaglia in guerra sono atti che, anche se illegali, nelle condizioni particolari in cui esse si verificano possono essere giustificati: ciò ‘in quanto l’avversario colpevole si è a sua volta comportato in maniera illegale e la rappresaglia stessa è stata intrapresa allo scopo di impedire all’avversario di comportarsi illegalmente anche in futuro.
E per finire la parte legale del ‘discorso‘ ecco le condizioni che ammettevano una rappresaglia, sia per il diritto internazionale, sia per l’interpretazione data dal Tribunale di Norimberga:
Dopo attacchi contro la potenza occupante, laddove la rappresaglia si rendesse necessaria dal punto di vista militare. La rappresaglia serviva innanzi tutto per impedire ulteriori delitti commessi dall’avversario. Le Forze Armate italiane adottarono il diritto di rappresaglia nelle modalità ritenute necessarie per la sicurezza della truppa che occupava il territorio, ovvero:
Quando le ricerche degli autori di atti illeciti avessero dato esito negativo.
Che le rappresaglie fossero ordinate da ufficiali superiori.
Che tenessero conto della proporzionalità.

Il tribunale di Norimberga confermò che misure di ritorsione, qualora consentite, debbono essere proporzionate al fatto illecito commesso.
Nel processo a carico dei generali List, von Weichs e Rendulic, tenutosi nel 1948, la proporzione accettata dal tribunale di Norimberga come equa era 10 a 1, vale a dire la fucilazione di dieci ostaggi per ogni soldato tedesco ucciso da un atto terroristico.
Che la cerchia delle persone colpite dalla rappresaglia fosse in qualche modo in rapporto col reato commesso a danno delle forze occupanti.
Che gli ostaggi o le persone destinate alla rappresaglia fossero tratte dalla cerchia della resistenza.
Non venivano stabiliti i criteri per la scelta degli ostaggi, ma la scelta stessa era affidata a criteri di discrezionalità.
Il Tribunale di Norimberga a tale proposito, affermò:
Il criterio discrezionale nella scelta può essere disapprovato ed essere spiacevole, ma non può essere condannato e considerato contrario alle norme del diritto internazionale. Deve tuttavia esserci una connessione fra la popolazione nel cui ambito vengono scelti gli ostaggi e il reato commesso (quindi luogo dell’attentato o l’appartenenza a gruppi clandestini che compiono atti terroristici).

Il diritto alla rappresaglia venne accolto anche alle forze britanniche nel paragrafo n.454 del British Manual of Military Law. Le forze americane a loro volta prevedevano la rappresaglia nel paragrafo n. 358 dei Rules of Land Warfare del 1940. Per le truppe francesi, l’allegato I alle istruzioni di servizio del 12 agosto 1936 consentiva all’articolo 29 il diritto di prendere ostaggi nel caso in cui l’atteggiamento della popolazione fosse ostile agli occupanti, e il successivo articolo. 32 prevedeva l’esecuzione sommaria degli stessi ostaggi se si verificavano attentati. Nel 1947 i magistrati militari britannici, nel processo di Venezia a carico di Albert Kesselring, commentarono che nulla impediva che una persona innocente potesse essere uccisa a scopo di rappresaglia [11]. Il Rochat non ha dubbi sul fatto che le truppe italiane agirono nel conflitto in maniera meno dura di tutti gli altri contendenti. Anzitutto, purtroppo, esse combatterono con scarsa determinazione: 
Tutte le indicazioni dicono che le truppe italiane affrontarono questa guerra con scarso entusiasmo e partecipazione, una testimo­nianza indiretta viene dalla necessità dei comandi di rinnovare ripetutamente le direttive di massimo rigore [12].

Necessità che ovviamente non riguardava i reparti di Camicie Nere, di ben altra combattività contro i partigiani comunisti. Soprattutto, il Regio Esercito fu, tra tutti quelli impegnati nella guerra balcanica, certamente il meno feroce, tanto che le stessi eccessi furono opera di iniziative individuali o di singoli reparti, -spesso i migliori come addestramento e motivazione: lasciando da parte i reparti della Milizia, in primis i battaglioni “M” e i battaglioni CC.NN. Squadristi, i due reggimenti della 21a divisione Granatieri di Sardegna, il 1° Reggimento Granatieri in Slovenia e, soprattutto, il 2° in Croazia, gli alpini, i bersaglieri e specialmente i RR. Carabinieri- anziché la norma: 
Va co­munque ricordato che in una guerra con uno straordinario livello di atrocità e massacri da entrambe le parti, le truppe italiane fu­rono certamente le meno feroci. Anche i piú duri ordini dei co­mandi ponevano limitazioni alle rappresaglie, come il rispetto di donne e bambini. E la repressione fu condotta con largo ricorso a fucilazioni e devastazioni, senza i massacri e le efferatezze com­piute dagli altri belligeranti, tedeschi compresi. Anche la nota fra­se della circolare di Roatta: «Si sappia bene che eccessi di reazio­ne, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti», va ri­condotta alla difesa di compagni aggrediti, non alle operazioni di controguerriglia, non può essere paragonata alle direttive hitleria­ne che avallavano a priori qualsiasi eccesso o massacro commesso dalle truppe naziste.

Eccessi ci furono certamente, ma per inizia­tive individuali o di reparti minori, non come regola di condotta delle operazioni [13]. Lo stesso parere viene condiviso da Gianni Oliva:
Sul piano militare, vi è certamente una sostanziale differenza fra la Werhmacht e il Regio esercito. Per gli strateghi tedeschi, il terrore sistematico è strumento centrale della politica di occupazione […] La violenza del Regio esercito, all’opposto, appare una reazione difensiva di fronte agli attacchi delle formazioni partigiane […] Il raffronto con la brutalità tedesca è dunque improponibile, sia sul piano quantitativo, sia su quello qualitativo [14].
Tutto ciò però non deve far dimenticare, come Oliva stesso ricorda, si fosse avuta una fuga di civili dalla Slovenia tedesca a quella italiana, proprio perché l’occupazione italiana era più mite di quella germanica [15]. Gli italiani in Jugoslavia, oltre alle operazioni belliche contro i guerriglieri locali, costituirono un valido strumento di protezione delle popolazioni locali dalle violenze dei partigiani titini e degli ustasha. Per rimanere solo alla Slovenia, la schiacciante maggioranza degli abitanti non era affatto filo-comunista, e risultava anzi vittima dell’operato dei partigiani comunisti stessi, che massacravano gli avversari politici e depredavano le popolazioni, non diversamente da quanto accadeva in Italia ad opera dei loro compagni della Resistenza. Milizia e Regio Esercito rappresentarono molto più spesso di quanto non si creda una difesa per i civili anche dinanzi ai partigiani titini, il cui operato fu oltremodo violento ed oppressivo:
A parte le spolia­zioni di viveri e di bestiame cui la popolazione civile fu soggetta, coloro che erano ritenuti favorevoli agli occupato­ri furono proditoriamente assassinati assieme alle loro fa­miglie, interi villaggi furono saccheggiati e incendiati, fab­briche, miniere, segherie, macchine agricole, scuole, chiese furono incendiate o distrutte, uomini furono costretti ad ar­ruolarsi nelle bande, giovani donne furono rapite [16].
Pierluigi Romeo di Colloredo Mels

NOTE
[1] Per farsi l’idea di cosa fosse- ed è – l’OZNA basti ricordare l’assassinio di uno storico del calibro di William Klinger, fiumano residente in Italia, autore di OZNA. Il terrore del popolo, che dopo la pubblicazione di tale studio venne assassinato a New York nel 2015, dallo statunitense di origini fiumane Alexander Bonich, suo amico, con due colpi di pistola (uno alla schiena e uno alla nuca). Il colpo alla nuca era considerata la firma dell’OZNA.
[2] Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco Milano 2006, p. 135
[3] G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino 2005.
[4] Ibid.p. 366
[5] Gianni Oliva, 2006, p. 136
[6] Note dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano, citate in Oliva 2006, p. 110
[7] Ibid. p. 368
[8] Ibid., ivi.
[9] Ibid. p. 369
[10] Oliva 2006, p. 8
[11] F.J.P. Veale, Advance to barbarism, London 1968 e id., Crimes discretely veiled , Los Angeles 1979.
[12] Rochat 2005, p. 370.
[13] Ibidem, pp. 370-371.
[14] Oliva 2006, p. 7
[15] Ibid., p. 124
[16] Oliva 2006, p. 145. Secondo i dati del governo sloveno, le vittime civili degli occupanti italiani furono circa 6.300, i civili sloveni uccisi dai partigiani comunisti otre 13.000.

Autore :