L’accelerazione e il Grande Incendio: moniti e opportunità

Nov 18, 2023

Tempo di lettura: 18 min.

The concept of Progress must be grounded in the idea of catastrophe.

Reza Negarestani, Cyclonopedia

Il monoteismo desertico, nemico di ogni verticalità

L’incompatibilità fra l’ideologia egualitaria moderna e il futurismo si vede bene nell’inverosimile limitazione dell’industria nucleare civile in Occidente attraverso un’opinione pubblica manipolata, o negli ostacoli pseudo-etici innalzati contro le tecniche transgeniche, la creazione di “ricostruzioni” umane o l’eugenetica positiva. Il futurismo sarà tanto più radicale quanto più ridiventerà arcaico; e dal canto suo l’arcaismo sarà tanto più radicale quanto più diventerà futurista.

Faye, Archeofuturismo, SEB 1998

Il superamento prometeistico della zombificazione di massa implica, per coerenza con i suoi presupposti, l’insofferenza alla visione egualitaria del mondo cristiano. Nello specifico, pur nelle sue infinite e differenti sfaccettature storiche, il cattolicesimo, superate le parentesi gerarchiche del medioevo, ritrova in Bergoglio la sua dimensione autenticamente cristiana, originaria e oseremmo dire parabolana [1]

Non è un caso che il ritorno alle origini del cristianesimo di Bergoglio sia stato oggetto di encomio da elementi dello sfaccettato mondo dei centri sociali. L’attuale pontefice poi, si è spinto sino a giustificare ogni forma di status quo, financo la biopolitica securitaria di massa che caratterizza l’attuale pandementia

Ma anche la via di chi si oppone al pontificato Bergoglio in nome di un cattolicesimo tradizionalista tende comunque a limitare, decelerare e disinnescare le tendenze sovraumaniste, riproponendo un modello tradizionale che, pur di un livello intellettuale e spirituale più nobile rispetto al cattolicesimo terapeuticamente corretto, possiede inevitabilmente tutti i germi di quella decadenza che ipso facto è destinata a riproporsi. In altre parole, riproponendo il cristianesimo di ieri si ritornerà inesorabilmente a rivivere il percorso discendente che ci riporta al cristianesimo odierno. Date certe premesse dottrinarie sono dunque necessariamente implicite le sue successive conseguenze storiche. Si tratta di un percorso obbligato dal quale l’uomo cristiano non può uscire se resta nell’alveo del medesimo sistema di valori.  

Per dirla alla Nick Land, l’ideologia della Cattedrale, porta necessariamente, in un arco di tempo abbastanza lungo, all’apocalisse Zombie. 

Come fece notare G. Faye in tempi non sospetti nel suo già citato Archeofuturimo, si tratta di un problema – quello del totale conformismo all’amore universale in salsa arcobaleno e petalosa – di status: il non adeguarsi al politicamente corretto implica l’esclusione sociale. Per questo occorre narcotizzarsi di mass media e opinioni comuni, per potersi definire buoni e altruisti[2], così da non essere esclusi dalla società. 

La massa di non morti infatti, così messa bene in scena nella produzione cinematografica, è l’egualitarismo portato alla sua massima realizzazione. Non esistono capi, non gregari, non ruoli, non funzioni: in altri termini nessuna verticalità; è l’orizzontalità estrema della massa di zombie che vive guidata unicamente dall’istinto di mordere chi è rimasto “sano” (o asintomatico, o untore, o non vaccinato). È la realizzazione massima dell’aridità umana. La zombieficazione è allo stesso tempo progettualità biosecuritaria di ingegneria sociale tramite la costituzione artificiale di una massa che non accetta la sfida storica, la selezione naturale, la possibilità che nietzscheanamente ciò che non ci uccide ci renda più forti. In altre parole, la costante paura di essere infettati, di dover essere immunizzati con costanti vaccinazioni dalle quali prima o poi si diventerà del tutto dipendenti, elimina il pensiero fondante l’uomo quale essere heidegerrianamente votato alla morte.

Ma non soltanto. In generale i monoteismi, nati nel deserto, implicano inevitabilmente la volontà di ritorno ad un Deserto, questa volta assoluto, in quanto totalitario abbattimento di ogni rappresentazione degli Dèi, del crollo di ogni Torre, di annichilimento servile nei confronti del totalitarismo, solare e ipertrofico, che incendia il mondo. 

Lo Xerodromo è il Pianeta che evapora o che viene ridotto in cenere dalla cremazione […]. Il Monoteismo in ultima istanza è un richiamo del Deserto – la dimora monopolistica del Divino. Finalmente, tutto deve essere livellato per soddisfare l’onnipresenza del divino. Così per i Jihadisti radicali, il deserto è il campo di battaglia ideale; desertificare il pianeta è rendere il mondo pronto per il cambiamento in nome del monopolio del Divino, opposto agli idoli terreni. In linea con i Wahhabiti e i Jihadisti Talebani, per i quali ogni cosa eretta, per così dire, qualunque verticalità, manifesta l’idolatria, il deserto invece, come orizzontalità militante è la terra promessa del Divino.

Reza Negarestani, Cyclonopeia

Parabolani, Whahhabiti e miliziani dell’ISIS: sono tutti impegnati nella medesima opera fallofobica di distruzione di ciò che è eretto. 

Ma questa del monoteismo solare e ipertrofico è l’unica visione del sacro possibile? 

L’armonizzazione indoeuropea della luce e delle tenebre

Contrariamente alle premesse dei monoteismi desertici, la visione del mondo indoeuropeo concepisce invece una pluralità di divinità, tra le quali spiccano le coppie degli Dèi sovrani, come cielo diurno e cielo notturno: Dyaus Pitar e Varuna, Tywaz e Wotan e nella vicenda leggendaria latina, Numa e Romolo. 

Addirittura, preminente risulta talvolta proprio il lato notturno[3], tanto che solitamente viene fraintesa l’importanza della figura notturna di Odino nel pantheon germanico rispetto a quella legata al cielo diurno, Tiwaz, sino a far pensare ad alcuni che soltanto presso i germani ci sia stato uno “spodestamento” del cielo notturno – sede della caccia selvaggia – rispetto al culto più propriamente solare indoeuropeo di Tiwaz/Tyr.

Si tratta di una circostanza che invece affonda le sue radici nel periodo protoindoeuropeo e quindi tale preminenza notturna trova un suo perfetto parallelo già in epoca preistorica e preindoeuropea, ancor prima che questi popoli si separassero dalla loro comune patria originaria. Si tratta quindi, vale la pena di sottolinearlo, di un elemento comune e tramandato in tutti i popoli indoeuropei. 

La coppia di divinità sovrane Wotan – Ziu/Tiwaz, cielo notturno e cielo diurno, si ritrova infatti parimenti nel pantheon Vedico (Varuna – Dyaus pitar) e Greco più arcaico (Ouranos[4] – Zeus):

Negli inni vedici Dyaus[5], il dio indoeuropeo del cielo, è già scomparso dal culto. Il suo nome designa ora il “cielo” ora il “giorno”.

Mircea Eliade, Storia delle Credenze e delle idee Religiose, Sansoni 1990

I legami tra il vedico Varuna e Wotan/Odhin sono più che altro di tipo funzionale. Entrambi sono sovrani uranici e notturni, grandi maghi, legano a sé gli uomini tramite giuramenti e incantesimi. Il regno magico di Wotan si basa in particolare sulle rune. Dumezil, nel suo “Mythes et Dieux des Germains” del 1939 mette in relazione il vedico Varuna e la magia delle rune germaniche in questi termini:

Un re sacerdote, per l’esattezza un re stregone, un re sciamano; così come Varuna interpreta il ruolo di sacerdote nei confronti di Indra. Odhinn non è soltanto il grande dio, ma anche il grande “Thulr” (sacerdote, N.d.T.) e per questo che egli ha messo a punto il mezzo per eccellenza dalla magia, della sua magia, le rune. È possibile che il nome delle rune sia imparentato con il nome degli Dèi legatori indiani e greci Varuna e Ouranos. Il Germanico *runo – segreto magico – potrebbe in effetti derivare dall’indoeuropeo *Waruna

G. Dumezil, Mythes et Dieux des Germains, 1939

È dunque possibile un equilibrio sul piano divino, una integrazione ed una armonizzazione della problematicità del cosmo, che i popoli indoeuropei riuscirono a sintetizzare in una visione complessa e non rigidamente schematica, semplicistica e fanaticamente infantile come quella che deriva dai monoteismi desertici. 

Come direbbe il Rutilio Namaziano della versione cinematografica di De Reditu esprimendo un concetto analogo, «che ci crediamo o no questi Dèi ci hanno lasciato nell’incertezza con la fatica di scegliere di volta in volta uno o due colori di un arcobaleno troppo grande che solo in qualche istante riusciamo a cogliere per intero». 

Si ritorna ad un leitmotiv imprescindibile: gli indoeuropei non erano popoli primitivi, trogloditi o non evoluti. La loro incredibile intraprendenza razziatrice, dal ver sacrum italico alle fare longobarde, dalle razzie con il carro da guerra alle spedizioni piratesche, erano possibili soltanto grazie ad una visione, termine che infatti ricorre nei Veda così come nel latino video. Tale “visione” archeofuturista ante litteram deve essere rivissuta nell’assalto all’ideologia della massificazione, dell’addomesticazione e forse ancora di più dell’ossessivo controllo totale biosecuritario. 

Tutto ciò non implica affatto che tale via debba essere materialista e che essa non debba riferirsi agli aspetti verticali, mitici e sacri. Ma che tali aspetti non possano ispirarsi alle fobie di idolatria, di Hybris o al disprezzo per la materia, poiché per andare oltre il nichilismo prodotto dalla tecnica scatenata a livello planetario noi dobbiamo renderla nuovamente sacra, magica e trascendente. 

ernst-junger

La realtà non è meno magica di quanto il magico sia reale […]. Il tempo ci ha riavvicinati alle antiche formule magiche, a lungo dimenticate eppure sempre presenti. Il senso incomincia, esitando, a filtrare nella grande opera a cui tutti lavoriamo, e che ci tiene avvinti.

Ernst Junger, Lettera siciliana all’uomo nella Luna

Noi ci apprestiamo, come nella fucina del fabbro superumano Wieland, a forgiare col ferro e col fuoco gli strumenti per il nostro assalto al cielo del monoteismo ipertrofico. Il Prometeismo si deve liberare dalle catene fobiche pre-nichilistiche e premoderne, per sferrare il suo colpo di maglio, lanciato nel suo assalto contro ogni limite imposto dall’attuale status quo.  

Il tradizionalismo cattolico come critica pre-nichilista della contemporaneità

Il nichilismo è una situazione storica di perdita di ogni fondamento, e la parola “perdita” deve essere preferita alla parola “assenza”, perché si tratta di una parola che non allude ad una realtà priva di dimensione spaziale e temporale, ma allude ad un processo di graduale spaesamento e di progressivo sradicamento.

Costanzo Preve, Le Stagioni del Nichilismo, Editrice C.R.T.

Ma quale attitudine occorre assumere nei confronti di tale perdita? È necessario restaurare il conservatorismo borghese dei decenni passati, riproporre il trinomio “Dio Patria Famiglia” oppure occorre accettare la sfida storica in vista di un superamento di ogni categoria già sconfitta dalla degenerazione stessa? 

Si tratta di una riflessione già in atto negli ambienti non conformi italiani degli anni Ottanta e Novanta. 

Ad esempio, nel febbraio del 1985 sulle pagine di “Risguardo IV” a cura delle Edizioni di Ar veniva riportata una noticina, a pagina 28, la quale riportava alcune considerazioni decisamente illuminanti di Francesco Ingravalle, che riteniamo utile citare in questo contesto:

Bollare le forme dell’odierno nichilismo come “decomposizione spirituale” mi sembra riflettere un punto di vista pre-nichilistico (ma questa è la caratteristica del tradizionalismo cattolico) […]. In atri termini sul piano della teorica politica, la nostra strada è Spengler non De Maistre.

Scegliere dunque la tragica sfida faustiana di Spengler, la nuova sintesi prussiana e socialista, non il conservatorismo cattolico.

Secondo Terracciano, seguendo una medesima linea di pensiero, il nichilismo caratterizzava tutti coloro che nella Rivoluzione Conservatrice, «accettavano fino in fondo la tecnica moderna sublimata a mito rigeneratore antiborghese e antiromantico, nella nuova figura dell’asceta-lavoratore combattente, che vive il nichilismo attivo della spengleriana civilizzazione faustiana fino alla fine, del resto ormai prossima, come prossima sarà quindi una nuova era»[6]. Era questa d’altro canto la direzione indicata da Ernst Junger con la sua figura dell’Arbeiter/Artefice ai nazional rivoluzionari del milieu gravitante attorno alla rivista Wiederstand.

carlo-Terracciano
Sempre Terracciano sulle stesse pagine, citando il Malafronte di Orion numero 46, luglio 1988, così continuava: «
L’energia nucleare con la sua azione di dissoluzione della materia è un atto emblematico di “pro-vocazione” della tecnica. Se questo è il significato profondo dell’energia nucleare, a essa non va opposto un rinunciatarismo regressivo ma un suo superamento, su percorsi inusitati che abbiamo il senso di un re-inizio e di una riconciliazione tra l’uomo e lo spirito della natura»[7]. Su questa stessa linea di pensiero così si insisteva: «Il nostro ieri più lontano, il nostro sempre è anche il nostro domani più vicino. Il fallimento totale e mondiale della presente conservazione modernista è anche il nostro miglior alleato per la nostra credibilità di élite anticipatrici presso le masse».
E ancora «il potenziale nuovo esercito popolare-rivoluzionario, sotto la guida delle élite preparatesi per tempo ad attraversare il caos del nichilismo per approdare al Mondo Nuovo del post-nichilismo; quel nichilismo che l’abbruttita massa di oggi accetta passivamente ma che l’élite vive coscientemente senza farsene travolgere, bevendo l’amaro calice fino alla feccia; veleno per i deboli, corroborante per forti»[8].

Già da tempo, dunque, un certo pensiero non conformista aveva colto nel superamento delle posizioni pre-nichilistiche tipiche del tradizionalismo cattolico uno dei momenti più importanti per forgiare la nuova Era e poter oltrepassare le pastoie del presente. Vi è da dolersi che tali parole, seppure elaborate decenni orsono, siano rimaste soltanto sulla carta e raramente siano diventate ispirazione per un’azione concreta. La cosiddetta élite anticipatrice di cui parlano Terracciano e successivamente Faye non è andata formandosi e oggi paghiamo le conseguenze di tale autentica assenza. 

Parliamo di Nichilismo, insinuando che il Nichilismo possa essere considerato un valore alternativo a ciò che si intende con Tradizione. […] L’uomo utilizza scientemente il nichilismo per distruggere la morale che lo imprigiona, disintegrare i falsi valori, scostarsi dalle fisime sociali così da giungere al punto zero, al fondo del pozzo, là dove le tenebre sono più buie e dove pure la distanza tra irrimediabile dissoluzione e conoscenza-sapienza è quanto mai labile. A questo punto l’uomo può diventare “più che uomo”, può cominciare a costruire sé stesso secondo un prototipo originario, sacrale. Quel che esce dalla caverna dopo tempo infinito è un nuovo Zaratustra che ha usato il nichilismo per ri-generarsi.

M. Murelli, Tradizione e/o Nichilismo, SEB 1988

In altre parole, si tratta di sottoporsi ad una discesa nei recessi della mancanza di senso in vista di una risalita iniziatica. Un processo interiore che a livello macrocosmico corrisponde all’inverno senza fine del Fimbulwinter, alla rottura di tutti i rapporti sociali e familiari che precede l’inverarsi del Destino degli Dèi o Ragnarok[9].

L’operazione metapolitica e di tramutazione alchemica degli elementi più problematici della contemporaneità in strumenti di realizzazione sovraumana, non può essere coerente con i moniti del moralismo cattolico; piuttosto può disporsi ad ascoltare la lezione che ci proviene dal mito senza tempo, tramandato dalla visione del mondo indoeuropea, quest’ultima coerente con lo sforzo mitico di auto-superamento di quei limiti soltanto umani. Al mito di Prometeo affiancheremo quello, tragico e problematico, di Loki[10]. Agente all’interno del piano cosmico di ordinamento del caos, complice della decadenza sino al grande incendio purificatore che schiude il nuovo inizio; la parabola di Loki suggerisce la filosofica di accettazione sovraumana del destino nel contesto di una visione ciclica del tempo.

Il Ragnarok come approdo dell’accelerazione

I cugini sopprimeranno i vincoli di parentela
Crudo il mondo grande il meretricio
[…] prima che il mondo rovini
Neppure un uomo risparmierà un altro.

Voluspa, 45, traduzione di Scardigli

Il compimento di tale disgregazione sociale sul piano umano – in qualche modo coerente con l’atomizzazione pulviscolare della massa di Zombie – è la conseguenza del patto che gli Dèi stipulano al momento della edificazione della cinta muraria eretta attorno ad Asgardr. La volontà degli Dèi di non consegnare Freya al gigante incaricato di costruire tale fortificazione porta all’azione sabotatrice di Loki. 

Presso gli Dei, Loki presenta tre particolarità: è innanzi tutto assente dalle saghe dei clan, non figura nell’onomastica, e non è l’oggetto di alcun culto (Strom). Al di là del culto del Fuoco, là dove esso si osserva, è sempre secondario se messo a confronto con il fuoco del culto, un culto di Loki è inconcepibile in ragione del completamento della sua evoluzione: non si rende culto ai nemici degli dèi. È per questa ragione che il suo nome non figura né tra i toponimi, dove è stato rimpiazzato dal diavolo, come tra i racconti leggendari e popolari, né tra gli antroponimi, né nelle saghe dei clan: nessun vuole un tale antenato. È per questo che gli sono stati attribuiti dei misfatti dei quali non era inizialmente responsabile. Per comprendere il percorso di Loki, che inizia come «compagno di strada e di tavola di Odino e degli Asi» secondo l’Edda di Snorri e che lo vede terminare la sua carriera come un autentico «nemico degli Dèi», è conveniente inserirlo nel ciclo cosmico così come descritto dalla Voluspa Eddica: l’era dell’Oro iniziale, «la prima guerra del mondo», la morte di Baldr nell’ultima era, il «grande inverno» «crepuscolo degli Dèi». Mentre Heimdall resta dall’inizio alla fine uguale a sé stesso Loki evolve nello stesso senso del mondo [inteso come ciclo cosmico]. Gigante passato agli Dèi (Fuoco transfugo) tramite una alleanza personale con Odin, del quale diviene il fratello di sangue (Lokasenna, 9) egli fa parte della triade divina che crea l’umanità a partire dai vegetali. L’appartenenza a questa triade [Odin, Loki, Heonir] che in una delle sue varianti riunisce Odino a due dei suoi fratelli, mostra come Loki faccia realmente parte della cerchia superiore, aristocratica del pantheon, la più vicina al dio supremo, contrariamente a Thor, che suo padre Odino qualifica «dio dei servi» (Carme di Harbard, 24). Questo poiché Thor – tuono – è associato ad una forma fisica del fuoco, quella del fulmine, mentre Loki ne incarna principalmente la componente immateriale, del fuoco del pensiero e del fuoco della parola. Ma mentre il processo di decadenza si mette in marcia, esso si rivela ambiguo […]. La situazione bascula definitivamente sino alla morte di Balder della quale egli è il principale responsabile, poi con i suoi «sarcasmi» Lokasenna, ultima sfida lanciata agli Dei prima della sua cattività, alla quale segue il confronto finale del Crepuscolo degli Dei nel quale Heimdall e Loki si uccidono vicendevolmente. Il destino di Loki è stato paragonato, a giusto titolo, a quello di Prometeo, ugualmente legato al ciclo cosmico: titano che si allea con Zeus, poi in lite con lui e che ne detiene il segreto della caduta. È così anche nel caso di Agni vedico: asura passato nel campo degli Dei egli diviene l’Agni della fine del ciclo, yugantagni, che distrugge il mondo nella conflagrazione finale. Non è sufficiente come fa Dumezil sostenere che Loki «ha anche dei rapporti con il fuoco»: il fuoco è al centro della sua mitologia e all’origine del personaggio.
Ai suoi albori, Loki, ancorché gigante di nascita, è un Ase devoto ai suoi soci, nonostante compia delle imprudenze che li mettono in pericolo, come Prometeo: «il Fuoco è un amico pericoloso». Detto «l’amico di Odino» come Lodur il «Fratello di sangue di Odino», Lokasenna, 9, ricopre un luogo di primaria importanza tra di essi. Egli è così prossimo ad Odino che Strom ha proposto di identificarli, osservando in particolar modo «che in nessuna circostanza egli si ritrova in opposizione personale ad Odin». È il caso più frequente per quel che riguarda i fuochi divini: Oltre ad Efesto e Prometeo essi sono di solito vicini al dio supremo, come Atar prossimo ad Ahura Mazda, Agni a Varuna, poi a Indra; Dioniso ed Ermete a Zeus. Loki e Odino hanno molto in comune: i loro legami con Hel (Helblindi, nome di Odino e di un fratello di Loki), la pratica del seidr e l’effeminazione che vi si lega, il dono di cambiare forma; ma una differenza sostanziale li separa: mentre Odino resta uguale a sé stesso Loki evolve, come ha mostrato Schjodt. Non cambia nulla il fatto che egli [Loki] sia figlio di una coppia di giganti: Odino è nato da una gigantessa e suo padre Bor non è mai considerato come un dio; Tyr è figlio del gigante Hymir, Heimdall di nove gigantesse, Skadi figlia del gigante Thjazi. L’attaccamento di Loki ad Odino, del quale egli non diventa soltanto l’amico e il complice, ma il fratello di sangue, è sincero; mentre egli non ha nulla in comune con Thor, come nota De Vries, «ciò che è ammissibile nel mondo di Odino è condannabile nel mondo di Thor». Ma come il fuoco sacrificale perde i suoi poteri benefici nel corso dell’anno e deve essere spento prima di poter esser acceso nuovamente e rigenerato, Loki perde i suoi poteri nel corso del ciclo cosmico. In compenso il fuoco non perde mai il suo potere di nuocere. Loki manifesta tali poteri provocando la morte di Balder, impedendo che resusciti, generando il serpente del Midgard e il lupo Fenrir e partecipando al Crepuscolo degli Dei dove affronta Heimdall, «Fuoco contro Fuoco». I sarcasmi di Loki – Lokasenna – manifestazione del «fuoco della parola» si possono interpretare come la satira, nid, prologo verbale abituale prima di un confronto fisico (De Vries): si situano dopo la morte di Balder della quale Loki si vanta, strofa 28, e che costituisce l’ultima fase della decadenza, quella alla quale succede la catastrofe finale.

J. Haudry, Le Feu dans la Tradition Indo-Européenne

Quello delle Edda in tal senso parrebbe un tempo ciclico ma non solo, forse piuttosto un tempo ricurvo in cui la catastrofe è sempre incombente e per certi versi sempre presente. Esemplificativa in tal senso è la canzone di Vafthtrudhnir. In questo canto eddico Odino sfida il gigante Vafthtrudhnir in una gara di sapienza:

Disse Odino: “Molto ho viaggiato, molto ho sperimentato, molto ho messo alla prova Gli Dèi: che ne sarà di Odino al tramonto dei tempi quando gli dèi verranno a mancare?
[…]
Molto ho viaggiato, molto ho sperimentato, molto ho messo alla prova gli dèi: che cosa disse Odino a chi saliva sul rogo, proprio lui, all’orecchio del figlio?
Disse Vafthtrudhnir:
Nessun uomo conosce, quel che tu al principio dei giorni hai detto all’orecchio del figlio.

Dunque, sin dall’origine dei tempi Odino ha pronunciato le parole finali di congedo al figlio morto, nonostante tale evento dia l’inizio alla spirale di avvenimenti che fatalmente porterà al finale Ragnarok. Dunque, la catastrofe non è semplicemente incombente, essa è preordinata nella stessa trama della creazione destinale del mondo, e gli dèi non possono impedirla, possono soltanto accettare l’amor fati, assumendosene la responsabilità.

Ragnarok e nuovo inizio

Le fonti norrene ci consegnano dunque una visione del tempo e del destino cosmico che potrebbe essere associata al “realismo eroico” di Ernst Junger, quello di chi continua a marciare nonostante un destino di distruzione totale ed incombente: nel suo libo manifesto Der Arbeiter Junger così si esprime: «La virtù che si conviene a questo stato è quella del realismo eroico, che non è scosso neppure dalla totale distruzione o dalla mancanza di speranza». Così come testimoniano gli Scritti Politici e di Guerra del pluridecorato autore, la scoperta del “realismo eroico” rappresenta sempre di più l’attitudine fondamentale di Junger, nel passaggio dalla figura del Krieger a quella dell’Arbeiter.

Dunque, contrariamente alla vulgata di certo tradizionalismo che si chiude nella torre eburnea dell’inazione, nella prospettiva che vogliamo proporre quale argomento di dibattito, la fine di un ciclo non è il momento dell’inazione, ma lo schiudersi di nuove possibilità di azione.
È il momento della massima libertà coincidente con la perdita di ogni ancoraggio: «È solo dopo che abbiamo perso tutto che siamo liberi di fare qualunque cosa». D’altro canto – affermava Evola – è grado e misura della propria forza di volontà saper vivere in un mondo che ha perduto ogni senso[12]. 

Occorre accettare la sfida della contemporaneità per volgerla a proprio vantaggio. Gli Eroi caduti in battaglia non raggiungono il Valhalla per darsi semplicemente alle gozzoviglie, come vorrebbe una certa rilettura attenuata del mito: al contrario sono questi eroi che andranno incontro all’annientamento sul campo di battaglia di Wigrid, che così tanto ricorda il kurukshetra indiano. 

Il Ragnarok, colossale incendio e purificazione del mondo è il superamento del meridiano zero, è fusione di ghiaccio e fuoco, è l’alba di un nuovo inizio: non è dunque l’incendio monoteistico volto ad inaridire il mondo per renderlo il deserto dell’orizzontalità militante.
Ma il significato etimologicamente corretto di catastrofe è “rovesciamento”, dunque possibilità di un rinnovato dischiudersi dell’origine nella storia tramite il già accennato nuovo inizio.  

«La distruzione – Zerstorung – è la messaggera di un inizio nascosto, la devastazione – verwustung – però è l’eco di una già decisa fine. Forse che la (nostra?) epoca stia già di fronte alla decisione fra distruzione e devastazione? Ma noi sappiamo dell’altro inizio, ne sappiamo domandando»[13].

PER APPROFONDIRE QUESTE TEMATICHE, SUGGERIAMO LA LETTURA DELLA RIVISTA PROMETHEICA E DEL BLOG POLEMOS.

NOTE

[1] I Parabolani, agendo in bande di individui che nulla più avevano da perdere, rimangono alla storia come grandi distruttori: prima abbatterono la statua di Giove Serapide in Alessandria, poi contribuirono a devastare e incendiare la Biblioteca di Alessandria. Infine, nella loro opera di abbattimento di ogni verticalità, anche intellettuale, lapidarono e uccisero Ipazia, rea di innalzare verso il cielo il suo sguardo di astronoma e matematica.

[2] “L’ho fatto per gli altri” (cit.)

[3] Wotan è il padre degli Dèi, non Tiwaz.

[4] L’assonanza tra Urano e Varuna pare decisamente possibile, anche se ritenuta controversa da alcuni.

[5] Ancora oggi in lingua italiana si indica il giorno come il “dì”, parola legata alla stessa radice indoeuropea di Dyaus.

[6] Terracciano, Muller, Dughin, Murelli “Nazionalcomunismo” SEB 1996

[7] Ibidem, p. 158

[8]  Ibidem, p. 161

[9] La vicenda mitica del Destino degli Dèi norreni è stata a sproposito paragonata all’apocalisse cristiana: Il Ragnarok, trasposto da Saxo Grammaticus nella narrazione epicizzata della battaglia di Bravellir nel Gesta Danorum ha chiare relazioni con la battaglia di kurukshetra nell’indiano Mahabharata, come evidenziato prima da Stig Wikander poi da Dumezil in Mito ed Epopea. Tali relazioni, tra testi così distanti nel tempo e nello spazio, escludono qualsiasi influenza dell’Apocalisse cristiana sul racconto eddico del Ragnarok, il quale è invece perfettamente inquadrabile in un comune retaggio indoeuropeo. Per questioni di spazio non possiamo ulteriormente approfondire questo parallelo, tale però, anche solo per sommi capi, da eludere qualsiasi interpretazione dualistica, gnostica, o di influenza cristiana sul Ragnarok, le cui vicende sono troppo apparentate con quelle dei primordi indoeuropei, prima ancora che il loro corpus mitologico si differenziasse, quando una unica ideologia tripartita connaturava la religiosità della patria originaria.

[10] Loki, il Fuoco della Parola qualificante, J. Haudry, Polemos Forgia Editrice 2019

[11] C. Palahniuk, Fight Club, Fight Club, traduzione di Tullio Dobner, collana Strade Blu, Arnoldo Mondadori Editore, 2003.

[12] Evola, Cavalcare la Tigre, Vanni Scheiwiller, 1961

[13] M. Heidegger, Quaderni neri 1939-1941 Riflessioni XII-XV, Bompiani, 2016