Stefano Vaj, autore di Artificialità Intelligenti (Moira 2023), ora tradotto anche in inglese, è tra i più importanti esperti europei sul tema del diritto delle nuove tecnologie e in particolare dell’Intelligenza Artificiale. La Redazione di Identitario lo ha intervistato.
Nel suo ultimo libro Artificialità Intelligenti descrive come la gestione della tecnologia è al centro degli interessi globali. Spesso si assiste allo scontro tra proibizionisti delle nuove tecnologie e chi pensa che invece la loro diffusione può essere un motore di rinnovamento e libertà . Quali sono le tendenze che vede in questo momento in relazione alla IA?
Cominciamo a vedere le cose dal punto di vista dei proibizionisti, che più spesso si presentano come “regolamentatori”. Se davvero vogliamo limitare queste tecnologie nel duplice senso di evitarne la diffusione fuori dalle mani “appropriate”, in senso sociale e in senso internazionale, e di evitarne l’ulteriore sviluppo, non vedo francamente quale altra soluzione possa esistere se non la creazione di governo mondiale rispetto alle cui scelte al riguardo la popolazione non abbia alcuna voce in capitolo. Inoltre, il suddetto governo mondiale dovrebbe avere a disposizione una “tecnopolizia” utile a controllare in modo sempre più efficace e pervasivo che qualche stato canaglia, o semplicemente qualche gruppo di hacker in una cantina, non si dedichi di nascosto a queste ricerche vietate e luciferine mettendo così in pericolo la “civiltà come noi la conosciamo”, secondo il monito apocalittico di Yuval Noah Harari. A sua volta, è difficile capire come questa tecnopolizia potrebbe davvero garantire questo risultato se non… appunto facendo un largo uso di strumenti di intelligenza artificiale, unica soluzione plausibile per consentire il monitoraggio su amplissima scala che la cosa richiederebbe.
Per cui, quand’anche il proibizionismo fosse considerato accettabile – come certamente non è per chi abbia inclinazioni prometeiche, futuriste e transumaniste –, quand’anche i suoi costi fossero considerate accettabili – come certamente non è per chi abbia inclinazioni identitarie, sovraniste, populiste –, il suo risultato netto non sarebbe quello davvero di prevenire cambiamenti sgradevoli nella nostra vita, ma di provocarli, con la vera e sostanziale differenza che in tale scenario il tentativo sarebbe appunto quello di conservare la tecnologia nelle mani “giuste”, di coloro che la userebbero “a fin di bene”, ovvero in sostanza al fine di perpetuare e rafforzare il tipo di potere acefalo ma tirannico che già tenta di affermare il suo predominio definitivo sul pianeta.
Rispetto a questo, davvero possono le IA essere motore di rinnovamento e libertà? Un dubbio ragionevole naturalmente è quello che l’intelligenza artificiale possa rafforzare comunque tale potere convergendo spontaneamente in un “monopolio naturale”, del tipo che abbiamo a suo tempo conosciuto per i sistemi operativi per PC con Microsoft, per i motori di ricerca con Google, e per i social network con Meta. Le buone notizie qui però sono due: la prima riguarda la crisi del mondo unipolare, che è comunque destinata a comportare come minimo una forma di pluralismo e di concorrenzaautentici riguardo al controllo di queste tecnologie. Naturalmente, avremo da un lato ChatGPT e Bard che saranno sempre messi più in riga rispetto alla narrazione dominante, ma dall’altro le analoghe piattaforme cinesi saranno a loro volta allineate invece alla legge ed alla linea del relativo regime, così già da consentire un confronto tra fonti non destinate a priori a cantare in coro. Non solo. Come è ovvio, qualsiasi utente tenderà ad utilizzare le IA meno “castrate” possibile, ed è interessante il rifiuto già manifestato dal Sud Est Asiatico di seguire la EU nelle sue velleità di armonizzazione mondiale della relativa regolamentazione. Infine, come illustro nel mio libro in argomento, le barriere all’entrata sono in questo caso molto basse, e destinate ad abbassarsi sempre più: anche parlando solo dei cd “large language models” alla ChatGPT, abbiamo già tecnologie open source che promettono la possibilità di crearne uno con poche settimane di lavoro e la potenza di calcolo di un grosso PC, così che avremo IA sviluppate appositamente per le esigenze di singoli movimenti, aziende, gruppi, chiese, etc., sulla base dei loro dati, interessi ed idee – quando non addirittura modellati su singoli individui o autori.
L’incredibile allarme che queste prospettive hanno suscitato nei media, nei governi e negli altri centri di potere occidentali mi pare eloquente quanto alle potenzialità di destabilizzazione, in senso ovviamente positivo, della società della omologazione planetaria e della fine della storia.
Ben prima dell’avvento della tecnologia moderna, non solo e non tanto la disponibilità di nuove tecniche, ma la capacità di integrarle culturalmente in un progetto collettivo e in un modo di vita, ha sempre comportato rivolgimenti storici epocali. Le tecniche sottese alla rivoluzione neolitica per esempio sono emerse in vari “poli” e centri di diffusione sparsi per il mondo, come si compiace di sottolineare Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie, ma l’esito che ha finito per avere nella cultura indoeuropea è del tutto peculiare, e non ha veri equivalenti in altre civiltà. Questa constatazione al tempo stesso illustra le ragioni di una posizione futurista, faustiana, prometeica, ma al tempo stesso si distingue nettamente da quel tipo di ottimismo escatologico che tenta anche frange dello stesso movimento transumanista, e che si traduce in una sorta di “messianismo tecnologico” che vede la lotta di classe e la divina provvidenza rimpiazzate da un’evoluzione tecnoscientifica che è al tempo stesso data per scontata e garante di un ingresso futuro in un qualche tipo di utopia (che del resto per molti è “proprio come oggi, solo meglio”). Rispetto a questo esiste invece certamente la possibilità che la tecnologia attuale venga congelata e/o monopolizzata o congelata al servizio di progetti conservatori, conservatori sia in termini politici che anche proprio tecnici. Ancora alla fine di ottobre 2023 Hinton, Bengio Harari, e compagnia cantante tramite il summit a Bletchley Park in Inghilterra sulla “sicurezza dell’IA” stanno facendo lobbying presso i governi perché vengano adottate tutte le misure possibili per evitare che le IA “scappino di mano” alle multinazionali occidentali che oggi le controllano, nel duplice senso di evitare che il loro sviluppo ed adozione provochino di per sé conseguenze indesiderabili per le “democrazie”, e di evitare che cadano “in mani sbagliate”, a cominciare da quelle di tutti coloro che non fanno parte del club suddetto. Persino i CEO americani di alcune startup tese ad entrare su questo mercato hanno sottolineato come la denuncia millenaristica di una possibile estinzione della Umanità o della “fine della civiltà” sia largamente strumentale alla difesa del relativo oligopolio.
Direi che malgrado la sua prematura scomparsa il suo pensiero è ben vivo, e sempre più attuale. Un esempio recente è la traduzione, compresa nel volume Per la farla finita con la civilizzazione occidentale (Moira 2023) del saggio “L’Occident comme déclin”. Ma l’aspetto forse decisivo del suo contributo è rappresentato da una riflessione molto precoce e in grande anticipo sulle notevoli svolte tecnologiche che ci stanno di fronte o in cui siamo già coinvolti, e che aprono il discorso su un possibile avvenire non solo postumanista, ma postumano, non da ultimo in materia di intelligenza artificiale. Vedi ad esempio in appendice a La colonisation de l’Europe, pubblicato nel 2000, e poi in italiano al mio Biopolitica. Il nuovo paradigma (SEB 2005), il testo intitolato “Il rimedio di Prometeo e del Dottor Faust”, in cui preconizza come le svolte stesse rappresentano al tempo stesso un rischio aggravato di distruzione della identità europea ma anche l’unica possibile occasione per un suo riscatto.
La cosa si lega anche al particolare rapporto che esiste tra la intelligenza artificiale, e più in generale la capacità di calcolo, da un lato, e l’ingegneria genetica e le biotecnologie dall’altro, che coinvolgono la tutela e sviluppo della biodiversità umana e non. Ma naturalmente il controllo delle telecomunicazioni, la telesorveglianza, la tecnologia militare, la robotica, il cyberwarfare, l’ingegneria aerospaziale, etc., sono aspetti altrettanto cruciali. E più in generale l’enfasi di Faye sull’argomento – sulla falsariga di Spengler, Gehlen, Heidegger, lo Jünger almeno del periodo dell’Operaio, Locchi – si ricollega ad un afflato faustiano, prometeico, futurista, che rappresenta un tratto fondamentale della identità europea, della nostra cultura rispetto a tutte le altre che poi su questa strada possono averla seguita con maggior o minor successo, ma in modo in fondo essenzialmente strumentale.
In quest’ultimo credo che ancora, e molto più, che Archeofuturismo il testo fayano fondamentale sia, almeno a livello filosofico, Per farla finita con il nichilismo. Heidegger e l’essenza della tecnica (SEB 2007, ma accessibile anche sul Web). In tale breve opera, l’autore francese non solo provvede a “giustiziare” recisamente come del tutto implausibili le letture del filosofo tedesco in senso luddista, tecnofobo, neoprimitivista, ecologista, etc., ma dimostra come le tentazioni in tal senso che spesso allignano anche nel mondo identitario sono al tempo stesso pericolose e deviazioniste. Gli Amish non sono gelosi custodi di una cultura vivente, sono residui fossili di un’epoca arbitraria che si autocondannano deliberatamente alla irrilevanza e all’estinzione.