Qual è il senso della vita?
Tutti noi, almeno una volta, ci siamo posti questa domanda, ricercando la risposta nei luoghi più disparati.
Dal lavoro, alla famiglia, alle passioni, il tentativo è di riuscire ad individuare la meta, ovvero il fine ultimo che ci orienta nelle scelte, che ci muove in determinate direzioni piuttosto che verso altre. A. Adler, ad esempio, sottolinea l’importanza del teleologismo, che ravvede nella comprensione del finalismo la definizione dell’uomo stesso. Nello specifico, ci si riferisce a tutti gli aspetti che coinvolgono le nostre esperienze: abbiamo obiettivi concreti, reali da raggiungere, ma siamo anche governati da movimenti psicologici irrazionali, inconsci, che spesso non siamo in grado di comprendere, di individuare. È come se sentissimo che c’è qualcosa di più che ci “ispira”, che dirige i nostri passi, senza averne pienamente coscienza. Ed in quanto esseri umani, è nella nostra natura cercare significati, tentare di attribuire un nome ai fantasmi che abitano la nostra anima.
Vi sono poi delle situazioni particolari, in cui sembra essere ancora più complesso – da osservatori – rischiarare questi meccanismi. Nell’ambito della mia professione, tali quesiti sono il pane quotidiano, laddove i pazienti le riportano mascherate in differenti forme e colori, i cui contorni e le cui sfumature sono strettamente intrecciati con le esperienze di vita di ciascuno, nell’individuale e differente soggettività. Al contrario di quanto si possa pensare, ciò non riguarda unicamente coloro che sono portatori di sofferenza, bensì è appannaggio della nostra coscienza, come se fosse inscritto nel nostro DNA. E l’armonia mentale sembra essere ampiamente connessa con il grado di consapevolezza che riportiamo in questi meccanismi.
Queste riflessioni sono state sollecitate alla lettura di due libri di Marco Confortola – “Giorni di ghiaccio” e “Ricominciare” – che al di là delle emozioni esperite a livello soggettivo, mi hanno offerto una moltitudine di stimoli e di considerazioni dal punto di vista psicologico. Per chi non lo sapesse, Confortola è un alpinista di fama mondiale, il quale vanta tra i suoi successi l’aver raggiunto sei vette dei quattordici ottomila, ovvero le montagne più alte del mondo. Suo malgrado, è anche uno dei protagonisti della tragedia del K2 del 2008, in cui hanno perso la vita undici persone. Attraverso questi due scritti, Confortola racconta in merito le sue esperienze in alta quota, del “prima e dopo” il K2. Per interesse e per deformazione professionale, la mia attenzione è stata catturata dalla sua descrizione relativa il contesto nel quale è nato e cresciuto, dell’aria che ha respirato sin da piccolo, elementi che hanno contribuito allo sviluppo ed al modellamento della sua personalità e, successivamente, che hanno probabilmente influito in modo decisivo in quei giorni terribili del 2008 e nel lungo periodo di degenza. In particolare, la sua narrazione mi ha indotta ad immaginare, a creare delle ipotesi sulle modalità con le quali il suo psicologismo abbia affrontato quegli anni, quelle terribili esperienze. In accordo a quanto sopra, mi sono chiesta cosa possa indurre una persona ad affrontare rocce e ghiaccio, ad un’altitudine che va oltre gli 8.000 metri: la “zona della morte”, così è definita l’area a quelle altezze, a partire dalla quale le nostre cellule iniziano letteralmente a morire. L’essere umano non è fatto per l’alta quota. Nonostante ciò, racconti di viaggi, di imprese in tale direzione abbondano.
Confortola descrive con minuziosità il suo allenamento, non soltanto dal punto di vista tecnico, bensì ne sottolinea la dimensione psicologica quasi come se questa fosse l’aspetto più importante, come se rappresentasse la variabile che fa la differenza. Si parla di un allenamento che deve essere totalmente funzionale alla resistenza: preparare cuore, polmoni, muscoli e cervello alla tolleranza della fatica, a non mollare. Sembra banale dirlo – e mi si perdonerà- ma a 8.000 metri non bisogna dare nulla per scontato, è di vitale importanza tentare di prevedere ogni possibile imprevisto, evenienza, ed imparare ad avere la lucidità nel controllo dei nostri processi mentali in condizioni ambientali estreme. In quelle pagine vi troviamo passione, amore per la montagna, un intricato intreccio tra la propria identità – o possiamo anche dire la propria anima – e la natura, in un movimento trascendentale in cui l’ascensione di pareti di ghiaccio si trasmuta nella ricerca del Sé, di una spiritualità che per essere conquistata necessita di fatica e di un profondo viaggio interiore.
Possedere quindi la capacità di progettare la propria esistenza, per “vivere” e non per “lasciarsi vivere”, ovvero subire gli eventi che, per definizione, sono fuori dal nostro controllo. E se riesco a progettare, ho anche l’attitudine al sogno, a proiettare me stesso – spirito, anima e corpo – in un futuro ben delineato nel mio mondo interno. Pertanto, vivere secondo una drittura mentale, una disciplina interiore tale da “autorizzarmi” a sognare, a desiderare nonostante le difficoltà e tale da condurmi passo dopo passo in direzione del mio sogno. Sottolineo la parola “nonostante” in quanto purtroppo la società moderna, intrisa di una cultura basata sulla performance, sui risultati e sul “tutto e subito”, ostacola, impedisce di creare sogni, perché questi non possono essere pienamente sotto il controllo del denaro. Una società che rifugge il dolore, la sofferenza ed il fallimento. Si va avanti, quindi, a forza di “se”, di rimpianti e di pavide dimostrazioni del nostro valore, seguendo, magari, le indicazioni di influencer e di modelli dalla dubbia etica. In tal senso, la fatica stessa assume delle caratteristiche positive, se inserita in un sogno, in un progetto di vita, attribuendo così un senso a quello che stiamo facendo.
Conferire altresì un valore all’accettazione della fatica, plasmando in essa – attraverso un percorso verticale – una dimensione di crescita e di conoscenza di sé. A questo punto, risulta forse un po’ più semplice comprendere, o quantomeno avvicinarsi al sentimento ed all’ardore che trasudano dalle parole di Confortola nel raccontare la sua vita. Perché di questo si tratta: un sogno che cresce giorno dopo giorno, sin da quando era bambino, un desiderio che lo accompagna probabilmente dai primi respiri, dai primi sguardi che indirizzò alle montagne della sua terra. Un sogno che si trasforma in un progetto, per il quale lavora duramente, per il quale dona tutto sé stesso. Un sacrificio, quindi, un rendere sacra la propria esistenza ascrivendole un significato unico ed irripetibile, come una vera e propria manifestazione di vita e di coraggio, il coraggio di sognare e di credere in sé stessi. Appare inoltre paradossale – ad un occhio superficiale – l’attaccamento alla vita descritto dall’alpinista, laddove molti potrebbero attribuire alla ricerca degli 8.000, un “tentativo suicidario”, la tendenza ad avere un atteggiamento effimero nei confronti della vita, non apprezzandola e rischiandola, quindi, con leggerezza. Al contrario, appare estremamente chiara la lucidità mentale, l’importanza di essere presenti a sé stessi in ogni fase di questa tipologia di esperienza, dalla progettazione alla discesa.
Confortola – ed ogni alpinista – spiega che la fase più difficile è rappresentata proprio dalla discesa: dopo aver raggiunto la vetta, dopo aver faticato durante l’ascesa, si ripensa ai sacrifici vissuti anche durante l’allenamento, a quelli “imposti” ai cari, ai familiari. Tutto è stato propedeutico a quel preciso istante. L’hic et nunc, per l’esattezza. Ed è qui che si rischia di cedere, di abbandonarsi alla stanchezza fisica ma, soprattutto, a quella mentale. È in quel preciso attimo che risulta fondamentale mantenere la lucidità nella totalità della persona. Le sue parole incidono un estremo attaccamento alla vita, il suo pensiero costante era di voler tornare a casa, era ciò che lo sosteneva, al di là della preparazione atletica, al di là dell’esperienza, come se ogni passo lo avvicinasse alla sua terra natìa e lo allontanasse dalla morte. E così è stato. Allo stesso modo, il desiderio viscerale di tornare in vetta, nonostante aver perso le dita dei piedi, nonostante l’esperienza traumatica del K2 che ha segnato un prima ed un dopo nella sua vita, non soltanto dal punto di vista pratico, fisico, bensì in una dimensione emotiva, profonda, nonostante la frattura che si è creata nella sua anima, è espressione di un élan vital radicato nel suo spirito, di un atto creativo, orientato alla ricostruzione di un’esistenza.
La clinica insegna, infatti, che elaborare un trauma è un processo complesso il cui obiettivo è di attribuire un significato psicologico, emotivo, all’esperienza stessa, al fine di collocarla all’interno del nostro bagaglio esperienziale. Un atto creativo, dunque, per il quale è necessario un coraggio estremo, nella consapevolezza della nostra volontà di potenza. Al contrario di quanto insegna la società di oggi, la vita è un dovere: abbiamo tutti il dovere di lavorare per il nostro benessere e per quello altrui, di esprimere quindi il meglio di noi. Ciò non vuol dire che la vita non sia un diritto; è bene inteso che proteggere e ricercare i nostri diritti sia una prerogativa per raggiungere la nostra serenità. Tuttavia, è il senso che affidiamo alla nostra vita, a fare la differenza tra il vivere ed il sopravvivere. Sognare, progettare offrono la possibilità di immaginare un “dopo”, un qualcosa che va oltre il presente, attraverso un’operazione di integrazione con il nostro passato ed il nostro futuro. Pertanto, un movimento trascendentale che coinvolge corpo, anima e spirito, in una verticalità che richiede il coraggio di tollerare la fatica e la sofferenza, ed un’energia vitale, creatrice che ci permetta di consapevolizzare le aree oscure della nostra anima, di accettarle e di scorgere così il senso della vita.