Il “cesarismo” di LVI: riflessioni storiche sul “cesarismo” mussoliniano

Gen 15, 2024

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È anzitutto necessario, in via propedeutica, tratteggiare i lineamenti principali del cesarismo. Per cesarismo (o bonapartismo) s’ intende un particolare tipo di regime autoritario, ancorato all’esistenza – fisica – di un leader indiscusso ed instaurato, mediante un atto giuridicamente traumatico, come reazione ad una situazione di profonda crisi. Il “cesare”- homo novus, estraneo alla classe dirigente – è il classico capo carismatico: celebrato come l’uomo del destino, gli onori tributati al medesimo rasentano l’idolatria pagana.

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Sebbene gli unici indiscussi modelli di cesarismo siano la dittatura di Caio Giulio Cesare ed il governo di Napoleone Bonaparte, imponenti profili cesaristici possono essere riscontrati nei regimi totalitari del XX secolo, accomunati da un eloquente filo conduttore: il culto (a dir poco ossessivo) del grande condottiero. A tal riguardo, può essere particolarmente interessante un breve riferimento al racconto “Heart of darkness”, scritto da Joseph Conrad e pubblicato, per la prima volta, nel 1899. L’ opera dell’autore polacco-britannico, infatti, attraverso la tenebrosa figura di Kurtz, mercante d’avorio, costituisce una triste metafora, inconsapevolmente profetica, delle sanguinose conseguenze alle quali sarebbero approdati i regimi cesaristici del’ 900.

Può dunque il regime fascista, alla luce delle considerazioni svolte, essere definito cesarista, fondato, cioè, imprescindibilmente, sulla persona di Benito Mussolini?

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“È vero o non è vero, Presidente, che una successione tra venti, trent’anni (omissis) sarebbe difficilissima, se non impossibile? Presidente, cos’ è lo Stato oggi? La fiducia in Mussolini. Noi non siamo ancora arrivati allo Stato che dà forza agli uomini. C’è l’ uomo che dà forza allo Stato. Che avverrà quando ci verrà meno quest’uomo?”.

Il dilemma su cui il ras di Cremona – Roberto Farinacci – pone enfaticamente l’accento è dotato di disarmante linearità: il regime fascista era stato concepito per sopravvivere alla morte di Mussolini o, piuttosto, era destinato a perire insieme al suo fondatore, aderendo alla logica millenaria del “simul stabunt, simul cadunt”? Essendo tali i termini della questione, s’impongono, allora, talune considerazioni determinanti.

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In primis, induce a riflettere la mancata designazione, da parte di Mussolini, dell’erede politico (o, comunque, l’inesistenza, in seno al Gran Consiglio del Fascismo, di un meccanismo deputato alla gestione dell’ ineluttabile successione). Quale sia stata l’intima ragione di tale scelta – lo spettro di un parricidio o, piuttosto, il tenace perseguimento di un lucido progetto bonapartista – conta relativamente: in caso di scomparsa prematura del Duce, l’eredità fascista sarebbe stata investita da una rovinosa tempesta di incertezza. Farinacci, a tal riguardo, non nutriva alcun dubbio:

“Io sono fermamente convinto che fino a che Dio vi conserverà in vita e al Governo d’ Italia – con sperone o senza sperone – il Regime terrà fermo. Tutti gli italiani, ve lo dico con migliore garanzia di molti di coloro che vi stanno vicini, diventano supermussoliniani quando pensano per un solo istante che la vostra scomparsa potrebbe precipitare l’Italia nella catastrofe. (Omissis). Credete Voi che domani il popolo italiano troverebbe una soluzione coerente col suo recente passato? Non credo. Davanti a noi c’è un grave mistero. Non c’è nessuna idea forte che possa vincere negli uomini del Regime il cannibalismo, l’invidia, la diffidenza, e a Voi succederebbe una lotta fratricida e contro il fascismo, voltosi coi denti suoi contro se stesso, si scaglierebbe la parte del popolo che non è fascista e la parte dell’esercito che da noi è allontanata ogni giorno di più dalla stolta politica del generale Gazzara”.

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Emerge spontanea, a tal punto del discorso, l’incolmabile distanza rispetto al parallelo esperimento nazionalsocialista. L’originario piano Valchiria (abilmente sfruttato, in un secondo momento, dai cospiratori di Claus Schenk von Stauffenberg) prevedendo la mobilitazione delle milizie di riserva in caso di crollo del fronte interno, delineava, infatti, il modus operandi necessario a fronteggiare situazioni emergenziali e, quindi, astrattamente idoneo a tutelare l’ordine pubblico in caso di scomparsa prematura di Hitler. Persino in Unione Sovietica, sebbene l’efficienza delle purghe impedisse persino di delineare un post-Stalin, la centralità del Partito garantiva la sopravvivenza della struttura statale al suo “grande timoniere”. In secundis, riprendendo il nucleo centrale del discorso, assume assoluta centralità l’inequivocabile valore assunto dal dato storico: in seguito all’esautorazione di Mussolini (la notte del 25 Luglio 1943) il Regime si dissolse e l’Italia, abbandonata al suo infausto destino, piombò in una fase dominata dal disordine e dalla viltà, culminata con l’umiliante armistizio di Cassabile, opportunamente definito la “morte della Patria”.

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L’interrogativo iniziale, dunque, si risolve ex se, essendo ormai matura la riflessione storiografica per introdurre il concetto di Stato di Mussolini, in luogo del fuorviante (e forse semplicistico) “regime fascista”. Gli anni ‘30 del ‘900 videro, infatti, completato l’inesorabile processo con cui Mussolini, beneficiando degli effetti di una straordinaria opera propagandistica, andò a sostituirsi allo Stato e tradusse il patriottismo degli italiani sul piano della fedeltà al Duce: il canto di Mameli aveva ceduto il passo a Giovinezza, celebrazione della faticosa opera di redenzione del popolo italiano intrapresa da colui che appariva come l’uomo della Provvidenza. Il cambio di prospettiva proposto, in conclusione, è assolutamente auspicabile al fine di introdurre la (necessaria) distinzione tra l’ideologia fascista (il programma di San Sepolcro costituisce, a tal proposito, un documento di assoluto rilievo) e la concretizzazione storica della medesima, mirando, così, a definire il giusto rapporto tra fascismo e mussolinismo.

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