Guardare anziché vedere: serialità digitale, binge watching e sovversione del cinema

Ott 21, 2023

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L’osservatore consapevole che abbia avuto la fortuna ed il piacere di recarsi al Musée du Louvre in tempi più o meno recenti, facendo il proprio ingresso nella sala dove è esposta la celeberrima Gioconda avrà senz’altro notato due peculiari atteggiamenti nella gran parte degli altri avventori. Da un lato, infatti, le strabilianti Nozze di Cana del Veronese, posizionate esattamente sulla parete opposta al capolavoro leonardiano, vengono perlopiù ignorate, quasi il vivido banchetto ritrattovi altro non sia che mera decorazione di carta da parati; dall’altro, se si presta attenzione, quasi nessuno fra i tantissimi che in ogni istante gremiscono lo spazio antistante la Monna Lisa sembra davvero interessato ad ammirare l’opera in sé, quanto piuttosto ad apprezzare il mero fatto di trovarsi lì, innanzi al famoso capolavoro, in attesa di scattarsi qualche fotografia-ricordo, acquistare un souvenir, e parlare della propria esperienza ad amici reali o ad una sempre più ampia platea virtuale di semisconosciuti, dagli uni e dagli altri aspirando considerazione ed approvazione.

Perché si chiama binge watching?

Può sembrare curioso iniziare un articolo inerente la cinematografia con un riferimento museale, ma, in realtà, i meccanismi che hanno portato al dilagare incontrastato del nuovo formato seriale appaiono ad esso ben più affini di quel che si potrebbe pensare. Un assunto forse scontato, ma comunque concreto: la visione di un film richiede un atto di volontà, per quanto minimo ed inconscio. La lunghezza di un lungometraggio è sicuramente superiore ai 60 minuti, e sovente lambisce i 120, con innumerevoli, ragguardevoli punte di durata, quali i 177 minuti di Dogville (2003) di Von Trier, i 190 di The Birth of a Nation (1915) di Griffith, i 230 di Lawrence of Arabia (1962) di Lean, e gli incredibili 435 di Satantango (1994) di Tarr. Lo spettatore, dunque, è chiamato a stringere con il regista l’immaginario patto di accettare, in cambio delle emozioni e delle suggestioni che il film saprà donare, di “perdere” una fetta di tempo considerevole della propria giornata, di fermarsi, e di seguire una trama che, come tale, si troverà a volgere entro i confini di un’opera finita (o più di una, in caso di sequel o prequel). Tale tacito accordo non soltanto rende colui disposto ad accoglierlo assai meno incline ad accettare standard banali, e più interessato alla qualità effettiva di ciò a cui si accosta, ma presuppone anche una mens difficilmente conciliabile con il modello sociale consumistico, e con le regole di mercato ad esso connesse vigenti nella società attuale.

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Il consumatore, infatti, è per definizione un individuo frettoloso. Esso passa e va, e mai si ferma a riflettere, poiché ogni istante passato a considerare quanto è dentro, sopra ed intorno a lui costituisce un’imperdonabile perdita per un sistema che nell’infinito ciclo di produzione e consumo trova la sua unica ragion d’essere. L’”uomo-folla” deve sbrigarsi, deve sentirsi precario oltre che esserlo, e stimar ciò un bene, deve apprezzare l’essere scollegato, sopportare in silenzio una rumorosa solitudine, contentarsi di percepirsi ed esser percepito come un fuscello, perennemente sostituibile in una realtà omogenea, incolore ed indistinta. Tutto, pertanto, dev’essere calibrato per essere esperibile in un tempo sempre minore, e sempre più superficialmente, disincentivando il più possibile ogni barlume d’autonomia intellettuale e senso critico che rischi di condurre il moderno servo della gleba a voler mirare oltre il proprio gregge, laddove il pastore certo non vorrebbe. Ecco dunque le sale cinematografiche venir subissate in modo soverchiante da prodotti filmici, trasversalmente fra i generi, sempre meno artistici in senso proprio, e sempre più riconducibili ad un intrattenimento banale e semplificato, adatto ad esser fruito con la minor quantità di impegno e riflessione possibile.

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Tale fenomeno, che seppur gettando le sue radici negli anni ’90 ha conosciuto un’impennata clamorosa e decisiva dopo il Duemila, e che sarebbe sbagliato voler limitare alla sola Settima Arte, giacché dalla musica, alla letteratura, dall’architettura sino alle arti figurative e performative, nessun campo ne è rimasto immune, ha subito un’ulteriore e decisiva mutazione in anni più recenti, in seguito al comparire ed al dilagare dei vari social network (Facebook aprì i battenti nel 2004, Instagram nel 2010, TikTok nel 2016), che oltre ad aver scatenato l’ossessione dei propri utenti per il vacuo ed effimero apparire, ne ha ridotto in maniera esponenziale la soglia di attenzione, che numerose ricerche stimano oggi esser di media non superiore ad una ventina di minuti.

Prima di proseguire, è doveroso sgombrare il campo da un importante equivoco: non è la serialità in sé ad esser deprecabile, affatto. Non soltanto la serie TV costituisce un formato esistente, in varia modalità, da lunghissima data, ma alcune serie televisive –si pensi a Twin Peaks di David Lynch, fra molti altri esempi – hanno rappresentato cardini assai importanti, per originalità e portata artistica, della storia della cinematografia. Assai problematico, piuttosto, risulta essere un determinato approccio alla serialità, più o meno contemporaneo ed in larga parte conseguente alla deflagrazione di Netflix e similari realtà on demand, su cui ci si soffermerà nel prosieguo di questo scritto.

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Netflix, dunque: fondata nel 1997 dagli statunitensi Marc Randolph e Reed Hastings come società di noleggio di DVD ed altri supporti multimediali, nel 2008 attivò un servizio di streaming, accessibile su abbonamento, destinato a divenir ben presto il suo business principale, nonché leader nel settore, e nel 2013, tre anni dopo l’approdo in Europa, iniziò anche a produrre e distribuire contenuti originali. Se nel suo repertorio Netflix conta numerosi lungometraggi, e si è avvalsa negli anni della collaborazione di interessanti esordienti e cineasti di rilievo, è nelle serie televisive che senz’altro trova il suo punto di forza, e considerazioni similari possono elevarsi anche riguardo alle sue immediate concorrenti, quali, ad esempio, Amazon Studios.

Dal 1° febbraio 2013, data di debutto di House of Cards, Netflix ha mandato in onda, per il mercato internazionale, più di sessanta serie televisive definibili di genere drammatico, altrettante classificabili nel filone della commedia, ed una decina relative all’universo cinematico dei supereroi Marvel (senza contare le innumerevoli produzioni anime, di animazione per adulti e cartoni animati), oltre a quelle realizzate in lingua locale appositamente per i vari mercati nazionali (per l’Italia ammontano a sei, con altre tre attualmente in fase di produzione). Un ritmo sostenutissimo che se, utilizzando come campione la sezione “drammatica”, fra il 2013 ed il 2015 rimaneva ancora paragonabile a quello di classiche reti a pagamento quali HBO (produttrice, fra gli altri, di The Sopranos e The Young Pope), è raddoppiato nel 2016 con sei nuove serie, per poi letteralmente esplodere nel 2019, con il roboante esordio di ben 21 produzioni originali in un solo anno.

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L’utilizzo abbinato e massivo di social network e servizi on demand sui medesimi dispositivi, ed un numero tanto soverchiante di nuovi prodotti ad invadere gli schermi, hanno rapidamente plasmato le aspettative e le esigenze di un pubblico già da anni “educato” a livellarsi in basso. Nella commedia francese Effacer l’Historique, uscita nelle sale italiane soltanto un mese fa con il titolo di Imprevisti Digitali, uno degli sfortunati protagonisti è una donna, la cui esistenza è stata completamente distrutta dalla propria bulimia da serie televisiva. Pur utilizzando i toni della farsa, gli sceneggiatori si sono mostrati assai abili nel tratteggiare dettagliatamente una forma mentis ormai sin troppo pericolosamente diffusa; in una conversazione con un altro personaggio, in particolare, Christine – questo il suo nome – descrive con gran rammarico come intere sue giornate volino miseramente via nella visione compulsiva di puntate su puntate, guardate non in virtù d’un apprezzamento del prodotto in sé, ma nell’ossessione soffocante di arrivare in fondo alla serie prescelta, poterne commentare sulle varie bacheche virtuali, ed iniziarne subito un’altra, consentendo che la propria mente, le proprie aspirazioni, i propri pensieri tutti vengano fagocitati da una smania del tutto affine alla tossicodipendenza o alla ludopatia.

Pur senza necessariamente soggiungere a tali livelli pseudo-patologici, è evidente come il summenzionato, tacito patto che sempre ha regolato il dispiegarsi della Settima Arte venga ormai generalmente meno, relativamente allo spettatore seriale forgiato alla scuola di Netflix. Vedere e guardare non sono sinonimi: se il vedere, rispetto al guardare, implica una partecipazione interiore ed intellettuale superiore, lo spettatore sempre più spesso oggi si limita a nient’altro che guardare. Egli non è più disposto, infatti, a fermare il suo vano correre per vedere un’opera d’arte, o anche soltanto un prodotto finito ed invariabile, apprender da esso qualcosa o farne stimolo per le proprie riflessioni. Lo spettatore ingoia quel che gli viene proposto, lo consuma in fretta, sul divano davanti alla televisione, dal proprio smartphone facendo colazione o attendendo in treno la propria fermata, seduto alla propria scrivania davanti al computer, ancor più attizzato dall’intensificarsi del cosiddetto “fanservice”, ossia l’inserimento, l’espunzione, la modifica di personaggi, vicende, atmosfere, sulla base dei riscontri di audience e dei dibattiti virtuali, che gli restituisce un apparente quanto appagante senso di importanza nello scorrere d’una vita per il resto frustrante ed alienante; lo spettatore guarda, così come guardano i visitatori della Monna Lisa, guarda quel tanto che basta a poter riferire, commentare, discutere sui social network, metter “mi piace”, comprare gadget, magliette, tazze, accendini, articoli connessi vari, e sentirsi congiunto ad una soddisfacente e farlocca appartenenza, capace d’attribuire una sembianza di senso ad ore, a giorni irrimediabilmente sprecati; guarda, lo spettatore, ma guarda soltanto quello di cui altri suoi pari chiacchierano, ignorando, per disinteresse o per pigrizia, le sublimi e dimenticate pennellate d’un Veronese che pur magari gli sarebbe attiguo.

Via la Gioconda dal Louvre". La provocazione del New York Times

In mezzo a tutto questo, l’uomo consapevole è pertanto posto innanzi ad un’importantissima sfida: quella di superare il vaniloquio, di distogliere il proprio sguardo dal luccichio di mille pubblicità, di non lasciarsi trascinare in un tanto effimero vortice, e ribadire con ancor più forza il proprio amore per la Bellezza, la bellezza che rimane, solidissima e delicata ad un tempo, capace di parlare all’animo disposto a recepirla. L’uomo, anche e soprattutto in ciò che riguarda il campo dell’intelletto, non è fatto per esser trasportato dalla corrente, come vorrebbe suggerire la moderna frenesia del consumo. In un mondo sempre più isterico e confuso, ci si sappia dunque fermare, quando l’occasione lo merita; laddove l’apparire sembra ormai esser tutto, si accetti di lasciarsi guidare dal canto dell’Arte, e si ribadisca ancor di più la volontà d’una scelta: la scelta di non adeguarsi, di non rassegnarsi, di non far passare un giorno, un’ora, un minuto, parafrasando Goethe, senza una bella poesia, una pittura squisita, ma anche un capolavoro artistico, un film di qualità, un paesaggio silente, un sorriso sincero, un gioioso, marziale inno di lotta.