Gramsci, promotore della cancel culture?

Feb 18, 2024

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Antonio Gramsci è noto per essere il teorico dell’egemonia culturale, come vedremo più avanti, il giornalista sardo non possiede la paternità di tale idea, ma oltre a essere un teorico marxista, uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia è stato anche un “critico letterario”. Dalle pagine in cui commenta la letteratura italiana, emerge il lato meno conosciuto di Gramsci, quello del violento iconoclasta. Nel 1980 Armando Editore pubblicò il libro Gramsci fuori dal mito, scritto dalla professoressa Gigliola Asaro Mazzola. In questo testo vengono riportati tutti i passaggi in cui lo scrittore sardo – leggendo le opere con lenti marxiste – fa a pezzi la letteratura italiana.

Il grande equivoco su Gramsci riguarda il concetto di nazionalpopolare, il giornalista sardo – che voleva imporre la lettura di Marx nelle scuole – infatti, scrive Mazzola: «considerò l’arte e la letteratura non come mezzo di arricchimento spirituale delle masse, ma, tramite la conquista degli intellettuali che ne sono i portatori, come mezzo organizzativo e aggregativo, come puro strumento ideologico-politico per la conquista dell’egemonia e del potere». Gramsci «userà nei giudizi sulle epoche o sugli autori, un criterio puramente politico, riduttivo e discriminatorio, dividendoli in «progressisti» o «reazionari»».

Va da sé, che una lettura ideologica-dicotomica, portava alla condanna degli autori considerati «reazionari». Gramsci, che reputava l’arte cattolica «solo milizia, propaganda, agitazione», si comportava esattamente allo stesso modo, sostituendo la religione con l’ideologia comunista che «nelle masse in quanto tali la filosofia (della prassi) non può essere vissuta che come una fede».

Il 5 gennaio 1921 su Ordine Nuovo scrive «Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà… distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, ideali, tradizioni irrigidite; non aver paura delle novità e delle audacie, non aver paura dei mostri… non spaventarsi della distruzione».

Chi legge Dante con amore? «I professori rimminchioniti»

Dante Alighieri fa parte della schiera dei «reazionari». In una delle Lettere dal carcere, Gramsci, rispondendo alla moglie su ciò che ella gli aveva confidato sui gusti letterari del figlio Delio, scrive:

Mi pare che una volta eri persuasa che le sue tendenze fossero piuttosto da… ingegnere che da poeta, mentre ora prevedi che egli leggerà Dante addirittura con amore. Io spero che ciò non avverrà mai… D’altronde, chi legge Dante con amore? I professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici. Io penso che una persona intelligente e moderna deve leggere i classici in generale con un certo distacco, cioè solo per i loro valori estetici, mentre l’amore implica adesione al contenuto ideologico della poesia; si ama il “proprio” poeta, si “ammira” l’artista in generale. L’ammirazione estetica può essere accompagnata da un certo disprezzo “civile”, come nel caso di Marx per Goethe.

Secondo Gramsci dunque, Dante andrebbe letto solo per il suo “valore estetico”, la portata del suo messaggio, la visione del mondo contenuta nella Divina Commedia, tutto andrebbe rigettato solo perché Dante era un reazionario. Con la stessa superficialità Gramsci definisce il petrarchismo «una manifestazione di cultura elitaria», «un fenomeno puramente cartaceo».

Umanesimo, latino e greco? Da buttare

Altrettanto feroce fu il suo giudizio sull’Umanesimo, dai Quaderni del carcere apprendiamo che «l’Umanesimo fu un fatto reazionario della cultura perché tutta la società italiana stava diventando reazionaria». Gli umanisti sono caratterizzati da «uno stacco senza rimedio tra uomo di cultura e folla». E liquida, con disinvoltura, l’Umanesimo concepito come «il primo fenomeno “clericale”… una Controriforma in anticipo». «E quando in Italia il movimento reazionario, di cui l’Umanesimo era stato una premessa necessaria, si sviluppò nella Controriforma, la nuova ideologia fu soffocata anch’essa e gli umanisti… davanti ai roghi abiurarono». Per il giornalista sardo Castiglione e della Casa sono dei semplici reazionari, anche se Gramsci dimentica che nel Galateo, della Casa non tratta dell’educazione del nobile, del cortigiano, ma del «mezzano», dell’uomo medio, borghese, nell’ambito dei rapporti civili.

Per quanto riguarda il latino «la Chiesa favorì il distacco della cultura dal popolo cominciato col ritorno al latino…» il quale «rimase nella Chiesa e nelle scienze fino al ‘700 a dimostrare quale sia stata la corrente sociale che ne aveva sostenuto sempre la permanenza: il latino, dal campo laicale, fu espulso solo dalla borghesia moderna, lasciandone il rimpianto nei diversi forcaioli».

Su Ordine Nuovo rincara la dose «confermando, dunque, la loro inessenzialità come contenuto esclusivo e privilegiato, e formula anzi l’auspicio o piuttosto la previsione di una soluzione oggettivamente necessaria in un senso del tutto contrario alla conservazione del latino e del greco come principio educativo della scuola». E ancora nei Quaderni del carcere «Sì può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente».

Gli autori dal Cinquecento all’Ottocento: conservatori, gretti e nazionalisti

Il compagno Gramsci definisce Guicciardini «borghese», «diplomatico, professione subalterna, che porta allo scetticismo e alla grettezza conservatrice». Il pensatore marxista apprezza Goldoni perché quest’ultimo ha criticato l’aristocrazia corrotta, ma dimentica che lo stesso commediografo veneziano ha riso anche dei servi sciocchi, degli ultimi, dei poveri. «E che, del resto – scrive Mazzola – egli [Goldoni] ai suoi tempi fosse considerato di un indifferente, distaccato, superiore conservatorismo, lo dimostra la figura del suo antagonista Pietro Chiari, che si atteggiò ad anti-Goldoni, ostentando, proprio i principi «democratici» allora di moda».

Gramsci definì Ugo Foscolo «esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del passato; la sua concezione del mondo è essenzialmente retorica». E ancora «i Sepolcri devono essere considerati come la maggior fonte della tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di esaltazione delle glorie nazionali. La “nazione” non è il popolo, o il passato che continua nel “popolo”, ma è invece l’insieme delle cose materiali che ricordano il passato: strana deformazione che poteva spiegarsi ai primi dell’800 quando si trattava di svegliare delle energie latenti e di entusiasmare la gioventù, ma che è appunto “deformazione” perché è diventato puro motivo decorativo, esteriore, retorico».

Per Gramsci di «Leopardi si può dire il poeta della disperazione portata in certi spiriti dal sensismo settecentesco, a cui in Italia non corrispondeva lo sviluppo di forze e lotte materiali e politiche caratteristiche dei paesi in cui il sensismo era forma culturale organica». E continua «quando nel paese arretrato, le forze civili corrispondenti alla forma culturale si affermano ed espandono, è certo che esse non possono creare una nuova, originale letteratura, non solo, ma anzi è naturale che ci sia un “calligrafismo” cioè, in realtà, uno scetticismo diffuso e generico per ogni “contenuto” passionale serio e profondo». Leopardi sarebbe privo di contenuti e colpevole, in quanto anche lui «reazionario» e individualista, di non essere impegnato politicamente dalla parte giusta.

Altrettanto impietoso è il giudizio su Alessandro Manzoni. Nei suoi Quaderni del carcere scrive che l’autore de I promessi sposi «esalta il commercio e deprime la poesia (la retorica)». In un primo momento definisce Manzoni «un liberale e un democratico del cattolicesimo (sebbene di tipo aristocratico)» per poi rimangiarsi tutto e definirlo solo «aristocratico» perché «il suo atteggiamento verso i personaggi popolani è nettamente di casta pur nella sua forma religiosa; essi, per il Manzoni, non hanno «vita interiore», non hanno personalità morale profonda».

E ancora «essi sono animali e il Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali… L’atteggiamento dello scrittore verso i suoi popolani è quello della Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana». «Il popolo, nel Manzoni, nella sua totalità è bassamente animalesco; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti solo in alcuni della classe alta». Tutte falsità smentite dai fatti (basterebbe leggere i Promessi sposi) e dalla critica letteraria (vera).

Per Gramsci anche Verga è colpevole, egli «non fu mai né socialista, né democratico, ma “crispino” in senso largo». Più in generale, con la solita superficialità, sostiene che «il Verismo italiano si limita a descrivere la “bestialità” della così detta natura umana (un Verismo in senso gretto) oppure rivolge la sua attenzione alla vita provinciale e regionale, a ciò che era l’Italia reale in contrasto con l’Italia moderna ufficiale: non offre apprezzabili rappresentazioni del lavoro umano e della fatica». “Non offre apprezzabili rappresentazioni del lavoro umano e della fatica”? Rosso Malpelo? Mastro don Gesualdo? I Malavoglia? Il giornalista sardo è talmente acciecato dalla sua ideologia, da non leggere in Verga la sua vicinanza alla anime «abbruttite dalle privazioni e dal dolore».

Gramsci non salva nemmeno Giuseppe Mazzini, patriota esiliato per le sue idee rivoluzionarie. Per uno dei fondatori del PCd’I «Le polemiche del Partito d’Azione sono altrettanto astratte delle predicazioni di Mazzini». «Mazzini dava solo degli aforismi e degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente meridionali, dovevano sembrare vuote chiacchiere». «Del resto, anche nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di innestare il mito nazionale nella tradizione cosmopolita, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente».

In poche parole, Mazzini – l’apostolo del Risorgimento – sarebbe un reazionario patriottardo con idee astratte. La colpa del patriota? Quella di non essere marxista. Per altri importanti autori dell’epoca il giudizio non cambia, Carducci, eccezion fatta per il suo Inno a Satana viene criticato, mentre di Pascoli scrive che egli «aspirava a diventare il leader del popolo italiano… il suo temperamento lo porta a farsi banditore di un socialismo nazionale… È interessante questo dissidio nello spirito pascoliano: voler essere poeta epico e aedo popolare mentre il suo temperamento era piuttosto “intimista”. Di qui anche un dissidio artistico, che si manifesta nello sforzo, nell’affannamento, nella retorica, nella bruttezza di molti componimenti, in una falsa ingenuità che diventa vera puerilità».

D’Annunzio: retore ampolloso e «nazionalsocialista»

Non poteva mancare il giudizio negativo su D’Annunzio, definito «retore ampolloso» che «pensò di se stesso di fare il profeta della missione italiana nel mondo». E ancora nei Quaderni «Si potrebbe studiare la politica di D’Annunzio come uno dei tanti ripetuti tentativi di letterati (Pascoli, ma forse bisogna risalire a Garibaldi) per promuovere un nazionalsocialismo in Italia (cioè per condurre le grandi masse all’idea “nazionalista-imperialista”)».

Gramsci riconosce il carisma del poeta vate, e lo giustifica dicendo che questo «è legato ad un carattere del popolo italiano: l’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale, che corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia». Vien da chiedersi: dov’è il problema se il popolo italiano ammira l’intelligenza? La risposta è sempre la stessa: il problema è che D’Annunzio non era comunista.

Pirandello? Uno qualunque

L’iconoclastia gramsciana ha colpito anche Pirandello. Commentando Così è se vi pare, Gramsci scrive: «La verità in sé non esiste, la verità non è altro che l’impressione personalissima che ciascun uomo ritrae da certo fatto. Questa affermazione può essere (anzi è certamente) una sciocchezza, uno pseudogiudizio emesso da un facilone spiritoso, per ottenere con gli incompetenti un successo di superficiale ilarità… Luigi Pirandello non ha saputo trarre dramma da questa affermazione. Essa rimane esteriorità, essa rimane giudizio superficiale… e non è neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se non logico… Uno sgambetto logico semplicemente… un mostro pertanto, non un dramma e, come residuo, del facile spirito e molta abilità scenografica».

Nei Quaderni leggiamo «morto Pirandello… cosa rimarrà del teatro di Pirandello? Un “canovaccio” generico, che in un certo senso può avvicinarsi agli scenari del teatro pregoldoniano: dei “prestiti” teatrali, non della “poesia” eterna». Dimostrando, con la nota superficialità, di non aver colto nulla della profondità di Pirandello.

E gli scrittori del Novecento?

Gramsci definisce i futuristi «un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti [?], hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula della guardia campestre». L’ermetismo invece è «la tendenza a un secentismo programmatico, niente altro. Questa concezione dell’artista è un nuovo “guardarsi la lingua” nel parlare, è un nuovo modo di costruire “concettini”. E puri costruttori di concettini, non di immagini, sono i più dei poeti esaltati dalla “banda”, con a capo Giuseppe Ungaretti (che, tra l’altro, scrive una lingua sufficientemente infranciosata e impropria)». E ancora sugli ermetici «il neolalismo come manifestazione patologica del linguaggio (vocabolario) individuale. Cosa sono tutte le scuole e scolette artistiche e letterarie se non manifestazioni di neolalismo culturale?». Ungaretti è definito «un buffoncello di mediocre intelligenza». Il marxista sardo disprezza anche Malaparte, Svevo, Papini, Prezzolini.

Mazzola chiude il saggio con lo strafalcione di Gramsci su Virgilio. Commentando il decimo canto dell’inferno, in cui Cavalcante Cavalcanti «vedendo Dante in compagnia di Virgilio, gli chiede angosciato come mai non si trovi con lui anche suo figlio Guido; e Dante gli risponde: «Da me stesso non vengo:/ colui ch’attende là, per qui mi mena/ forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»». Gramsci soffermandosi su quel «disdegno» sostiene che il “disdegno” da parte di Guido Cavalcanti è riferito alla lingua latina o «all’imperialismo virgiliano». Non solo quel «cui» è riferito a Beatrice e non a Virgilio (secondo i più accreditati esegeti di Dante); non si capisce perché Guido Cavalcanti, uomo di cultura e punto di riferimento per lo stesso Dante, avrebbe dovuto avversare in Virgilio il latino. Segno, ancora una volta, che la lente ideologica che adottava Gramsci, gli impediva di leggere e interpretare correttamente le opere.

Il mito di Gramsci

Alla luce di questo, ci chiediamo come possa Gramsci esercitare un certo fascino su di una parte della «destra», che inconsapevolmente, mette in pratica ciò che scriveva Togliatti «guai a noi comunisti se credessimo che il patrimonio di Gramsci è soltanto nostro. No, questo patrimonio è di tutti». Si potrebbe rispondere che il gramscismo è innanzitutto un metodo, e questo è indubbiamente vero (è quello che ha fatto la sinistra infiltrando i suoi nei posti chiave), ma è altrettanto vero che la «destra» ha ben altri riferimenti che rendono superflue – anche perché poco originali – le idee di Gramsci, che, come abbiamo visto, sputava sulla cultura italiana.

Il riferimento è ovviamente a Giovanni Gentile. Dal filosofo dell’attualismo, Gramsci mutò molte delle sue idee, rileggendole in chiave marxista-leninista. A rigore di termini, il giornalista sardo non fu nemmeno un filosofo, o, come scrive Marcello Veneziani «lo fu nel solco di Gentile, traducendo il materialismo di Marx in filosofia della prassi, tramite l’attualismo di Gentile. […] La stessa idea gramsciana dell’intellettuale organico in cui coincidono cultura e politica – idea condivisa da Piero Gobetti – trova il suo riferimento più rigoroso in Gentile. E l’idea gramsciana, nucleo centrale del suo pensiero, che la conquista della società passi dalla conquista della cultura, fu anch’essa squisitamente gentiliana, non solo sul piano filosofico ma anche sul piano pratico, se si considera che quel progetto fu perseguito attraverso la riforma della scuola, l’organizzazione della cultura, l’enciclopedia italiana».

In definitiva, scrive Veneziani in Imperdonabili «La matrice era nell’idealismo militante e Gramsci teorizzava in carcere quello che lo stesso Gentile e Bottai realizzavano nel fascismo». Parte integrante del mito di Gramsci è la sua carcerazione (il giornalista ha sempre avuto una salute cagionevole), ma spesso si dimentica che nelle carceri fasciste lo stesso Gramsci teorizzava uno Stato altrettanto totalitario (e sul concetto di totalitarismo non tutti sono d’accordo); quindi l’unica accusa che il teorico marxista poteva rivolgere al fascismo, non era quella di aver messo in piedi una dittatura, ma di essere sceso a compromessi con la borghesia, il capitale, la monarchia e la Chiesa (compromessi che la stessa sinistra – che ancora oggi ciancia di Gramsci –ha fatto).

C’è un altro aspetto fondamentale: se Gramsci fosse stato un dissidente in Russia, Stalin lo avrebbe semplicemente eliminato fisicamente (c’è una discreta letteratura sui comunisti italiani uccisi da Stalin con il consenso di Togliatti); mentre nelle carceri fasciste aveva a disposizione libri, riviste e la possibilità di scrivere. (Nella Germania liberata e democratica a Carl Schmitt venne vietato l’accesso alla biblioteca e perfino proibito di scrivere).

Gramsci e la cancel culture

L’errore di Gramsci, scrive Mazzola, è quello di proiettare «su ogni autore, la sua ideologia e lo spirito dei «suoi» tempi; operazione anticulturale per eccellenza». È lo stesso spirito che muove gli iconoclasti che promuovono la riscrittura/cancellazione della nostra cultura in quanto non in linea con i nuovi canoni promossi dall’élite progressista. Allora tutto il patrimonio culturale europeo diventa razzista, eurocentrico, maschilista, omofobo e così via.

Alla luce di questo, possiamo affermare che il vero errore è pretendere di giudicare il passato con le categorie – promosse dai progressisti e non universali – di oggi. Ed è esattamente ciò che fece il tanto venerato Gramsci. Friedrich Nietzsche nel testo Sull’utilità e il danno della storia per la vita ha scritto «Come giudici dovreste stare più in alto del giudicando; mentre siete solo venuti più tardi».