Europa Nazione, dominio del capitale e multipolarismo: riflessioni per un destino da europei

Dic 5, 2023

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Nel 1992, il politologo statunitense Francis Fukuyama diede alle stampe La fine della storia e l’ultimo uomo, uno dei libri maggiormente citati negli ultimi anni. La tesi di tale opera è che – con la caduta dell’Unione Sovietica – la storia sia, appunto, finita. A seguito della definitiva scomparsa delle due grandi ideologie del ‘900 che vi si opponevano – il Fascismo e, appunto, il Comunismo – il liberal-capitalismo a guida statunitense avrebbe «conquistato» il mondo e avrebbe regnato per sempre, basando il suo potere universale sulla «pax americana».

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Questo scenario è stato definito come «unipolarismo», sistema-Mondo in cui gli Stati Uniti sarebbero stati l’unica potenza dominante a livello mondiale e avrebbero imposto a tutti i propri valori. Nel 1993, invece, un altro politologo neocon, Samuel P. Huntington, proponeva la teoria dello «scontro di civiltà», secondo la quale non avremmo affatto assistito alla fine delle guerre, ma si sarebbero registrati numerosi scontri a livello regionale attorno a faglie in cui due civiltà contrapposte si sarebbero confrontate-scontrate (una di queste era l’Ucraina). Con l’11 Settembre, e la conseguente «guerra al terrore», la teoria di Fukuyama è stata bollata come completamente errata; quella di Huntington, volutamente poco citata, appena appena considerata come parzialmente accettabile. Ad oggi, con l’ascesa della Cina, viene data per assodata la fine dell’unipolarismo americano, e ci si esalta, almeno in alcuni ambienti, per l’inizio dell’epoca del «multipolarismo», in cui diversi «poli» contenderebbero a Washington il potere mondiale. Si può veramente dire che questa sia la realtà?

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Ovviamente, come sempre, quando si parla per definizioni, si dovrebbe anche spiegare bene cosa si intende con i termini impiegati. Ad esempio per le ideologie, in particolar modo in relazione al periodo di cui si parla, andrebbe chiarito cosa si intende per capitalismo, e – soprattutto – cosa si intende oggi per liberal-capitalismo. A che forma di globalizzazione ci stiamo riferendo? Cosa intendiamo per unipolarismo e multipolarismo? Se questa può sembrare una questione di secondaria importanza, un volersi aggrappare a dei sofismi, è invece il punto centrale che rende molte analisi incapaci di comprendere il presente, finendo per diventare incapacitanti nel descrivere efficacemente lo scenario globale in cui viviamo.

Fukuyama si era effettivamente sbagliato, come oggi è comunemente assodato e come lo stesso politologo ha parzialmente ammesso? Ecco, la risposta sta in quest’ultimo avverbio: parzialmente! Quello che difetta nella teoria della «fine della storia» è una sana spruzzatina di marxismo, quella che evidenzia la differenza – per usare il vocabolario del filosofo di Treviri – tra le «strutture» e le «sovra-strutture». Per Marx, l’economia rappresenta la struttura, potremmo dire «la base»; mentre la sovrastruttura sono le regole, le istituzioni e le forme che da essa derivano. Con la fine della II Guerra Mondiale, i Fascismi vennero sconfitti militarmente e a dividersi il mondo rimasero due ideologie – il Capitalismo e il Comunismo – che si confrontarono, fino al 1991, data che sancì la fine dell’Unione Sovietica, in quella guerra mondiale a bassa intensità che fu la Guerra Fredda.

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Washington vinse tale conflitto con Mosca, affermandosi per anni come unico vero pivot geopolitico globale. In realtà, le guerre in Medio Oriente degli inizi degli anni 2000 furono solo il tentativo di potenze medio-piccole di ritagliarsi un ruolo regionale: né l’Iraq né l’Afghanistan, per non parlare dell’ISIS, avevano chiaramente pretese di avere un’influenza globale. Qual è stato l’evento che ha mutato tale scenario? L’11 Dicembre 2001, appena tre mesi dopo l’11 Settembre, su iniziativa dell’allora Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, la Cina entra a far parte del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, diventando definitivamente parte del mondo capitalista. Tale ingresso nel «commercio mondiale» di Pechino – di fatto – seguiva le prime riunioni dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India e Cina a cui si aggiungerà nel 2010 il  Sudafrica), Paesi in cui il capitalismo non solo era saldamente accettato, ma veniva, e viene tuttora, applicato in un modo ancora più selvaggio che negli Stati Uniti: basti pensare alle sterminate favelas brasiliane; ai milioni di persone che vivono in condizioni poco migliori degli animali nelle megalopoli indiane; ai bambini che cuciono palloni e scarpe da calcio nelle sterminate città cinesi in cui l’aria è poco più che appena respirabile; ecc.

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Ecco: questo è lo scenario reale in cui viviamo. Mixando Fukuyama e Marx possiamo affermare che al momento la storia è, se non finita, quanto meno in pausa; ma non dobbiamo confondere la sovrastruttura, gli Stati Uniti, con la struttura, il capitalismo. Con l’ingresso della Cina nella WTO, infatti, si è definitivamente imposto l’«unipolarismo mondiale», quello del capitalismo globalizzato. Non esiste, né se ne vede un seppur flebile barlume, ideologia che contesti il capitalismo, non dico proponendo un sistema diverso, ma almeno ritenendo tale ideologia come superabile. Si parla tutt’al più di «democrazie illiberali», ma mai di sistemi non capitalisti. Si contesta un Occidente fluido, dal pensiero debole, gender e «ideologically» fluid, ma guai a dire che si possa pensare ad un sistema che non si basi sul capitalismo e quello che ne consegue.  L’unica eccezione che si può avanzare è rappresentata dai Paesi islamici, che quanto meno hanno legislazioni ispirate a principi religiosi e, in quanto tali, contrari al materialismo capitalista. Piccolo problema: anch’essi sono Paesi capitalisti! Basti pensare alle «petrol-monarchie» del Golfo che vedono emiri andare in giro per il Mondo a comprare squadre di calcio e, al contempo, migliaia di immigrati che lavorano per pochi spicci in «compound» che forniscono immagini degne dello schiavismo ottocentesco. Non fa evidentemente eccezione l’Iran, che a fronte di pochi miliardari vede una moltitudine di poveri e contadini che vivono a livelli di quasi sussistenza.

Anche spostandoci sul piano geopolitico, le cose non cambiano. Non ci sono «poli» che propugnano idee del mondo diverse – com’era una volta tra Capitalismo, Fascismo e Comunismo – ma blocchi di potere economico (i cosiddetti oligarchi) che si contendono fette di mercato. Gli Stati Uniti rappresentano l’impero uscito vittorioso dalla Guerra Fredda, che cerca di impossessarsi di fette sempre più grandi a discapito degli sconfitti, i russi, che supportati dalla potenza capitalista globale emergente, la Cina, cercano invece quanto meno di difendere quel poco di proiezione europea che gli è rimasta.

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Allora, non si può che condividere il punto di vista di Luciano Canfora, nel libro Guerra in Europa. L’Occidente, la Russia e la propaganda (testo non certamente atlantista…), quando parla di un senso di inferiorità psicologica che attanaglia noi Europei, persi alla disperata ricerca di «una mano a cui aggrapparsi, qualunque essa sia». Pensare che in campo si stia dispiegando una lotta tra «poli», tra «mondi alternativi», che possano porre fine al «dominio del capitale» è frutto o di non volere realmente la fine del capitalismo; o di non essere in grado di «pensare altrimenti» – per usare un’espressione alla Fusaro – rispetto al capitale. Anche per questo, allora, si tifa per il primo che ci elemosina quattro spicci; o è figlio della malafede intellettuale. Qua non si sceglie più tra capitalismo e rivoluzione, ma tra Amazon e Ali Express, tra i miliardari yankees contro i tycoon cinesi, mentre gli immigrati nelle metropoli statunitensi o russe, gli sciami di bambini che in Cina o in India, cuciono palloni o producono beni di lusso per i loro padroni, crepando sempre più di fame. Basterebbe leggere i dati sull’andamento del capitale (Il capitale nel XXI Secolo di Thomas Piketty) e quelli riguardanti la centralizzazione del capitale (La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista), per avere evidenza di tale fenomeno.

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Che fare, allora? Abbandonare il tifo da stadio per questo o quel miliardario che si arricchisce alle nostre spalle, rimboccarsi le maniche e iniziare un percorso di riscoperta dell’unica civiltà che possa rappresentare un «polo» alternativo al capitalismo «unipolare»: l’Europa Nazione! Riscoprire le nostre millenarie radici – civili, religiose, culturali, comunitarie – uniche forme che possano rappresentare il katechon al declino e al disastro verso cui il capitalismo, in ogni sua forma, che sia «a stelle strisce» o dagli «occhi a mandorla», sta portando l’intera umanità. Solo l’Europa potrà dar vita a un mondo veramente «multipolare», in cui ci si possa scontare per un ideale e non per quattro soldi. Sarà una battaglia culturale e militante che richiederà sforzo e decenni di impegno, ma solo essa potrà portare dei risultati concreti. Lasciamo la disperazione e il vuoto del tifo virtuale a coloro che si accontentano della speranza che la salvezza arrivi ancora una volta da qualche dittatore estraneo alla nostra civiltà e – con coraggio – prepariamoci per la battaglia vitale per l’Europa Nazione!