Il Fascio di Livorno nasce nella sede dell’Associazione Garibaldina, il 17 novembre 1920, grazie all’aiuto fondamentale del fascismo fiorentino. Alla riunione costitutiva troviamo infatti il neosegretario del Fascio di Firenze Luigi Zamboni. Il primo segretario politico del fascio labronico è il tenente dei bersaglieri e legionario fiumano Goffredo Bartelloni, il mutilato di guerra Armando Bagnoli è il segretario amministrativo; mentre lo studente di Giurisprudenza Paolo Pedani [1] si occupa dei rapporti con il Comitato Centrale e assume la funzione effettiva di segretario. Dopo pochi giorni ci fu l’affissione del primo manifesto in cui veniva rivendicata l’applicazione del patto di Londra, l’annessione di Fiume all’Italia, la valorizzazione della Vittoria nella Grande Guerra, con la promessa di rispondere ai “nemici della patria, sognanti il miraggio leninista”.
Dino Leoni nasce il 19 giugno 1895 da una famiglia dove forte è lo spirito patriottico. Partecipa alla Grande Guerra nella Regia Marina avendo il diploma di capitano. Un arruolamento non semplice, visto che all’inizio fu dichiarato non idoneo per “insufficienza cardiaca”. Grazie a un ricorso riuscì a coronare il suo sogno e a prestare servizio per tre anni sui sommergibili durante la Grande Guerra. Il rientro alla vita civile non fu affatto semplice, come tutti i reduci dovette subire gli insulti dei socialisti che erano sempre stati contrari alla guerra. Inizia a insegnare Radiotelegrafia presso l’Associazione Nazionale dei Combattenti, ma troppo forte era sempre la sua delusione per la situazione sociale che stava vivendo l’Italia. Decide di rispondere “presente” all’invito di Mussolini e lo troviamo tra i fondatori del Fascio di Livorno. Dino Leoni ci viene raccontato come “un tipo spavaldo, di bell’aspetto, col berretto di capitano di mare portato di traverso, dallo sguardo aperto e sincero”.
Il 9 dicembre 1920 l’amministrazione comunale di Cecina, guidata dal sindaco socialista avvocato Ersilio Ambrogi [2] vota una deliberazione in cui si decide di rimuovere la targa di bronzo riportante il testo del Bollettino della Vittoria stilato dal generale Diaz. Ambrogi dichiara che le motivazioni di questa scelta sono solamente politiche. Come scontato fosse forti furono le proteste fasciste. Un articolo di parte fascista avvisa i “Signori bolscevichi” di non procedere, promettendo che in caso la targa sarebbe stata rimessa al suo posto da “Coloro che seppero tutte le ansie, i disagi e i dolori della trincea”. [3] I socialisti rispondono con un loro articolo dove difendono la scelta della rimozione della targa in quanto la guerra spinse “Il proletariato al macello”, concludendo con una forte provocazione: “È già molti giorni, che è stata tolta la targa, e coloro che ci minacciavano di rimetterla immediatamente, non si sono ancora mostrati. Vigliacchi! Vigliacchi! Vigliacchi!”. [4]
Nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1921 raggiungono la cittadina di Cecina fascisti provenienti da Pisa e Livorno, entrano in Municipio e rimettono la targa al suo legittimo posto. La mattina del 25, appena venuti a conoscenza dei fatti, il sindaco e gli assessori ordinano nuovamente la rimozione e proclamano uno sciopero generale. La stessa sera un nuovo gruppo di fascisti si reca a Cecina e chiedono al vicecommissario di Polizia di far rimettere immediatamente la targa al suo posto. Nello stesso istante il sindaco Ambrogi corre dal maresciallo dei carabinieri per chiedere protezione. I fascisti rassicurati dalle Autorità si dirigono verso la stazione, cantando i loro inni, per rientrare alle loro abitazioni: “Però al passaggio sotto la Camera del lavoro da una terrazza partono grida ingannatrici di “Viva l’Italia” e “Viva il Re” e applausi, seguiti però improvvisamente da colpi di rivoltella”. [5] Rimangono feriti il fascista Dino Leoni e il carabiniere Corvetto Andrea di rinforzo. Inizia una feroce battaglia che le forze dell’ordine riescono a stento a fermare. I fascisti si accorgono subito delle gravissime condizioni del loro camerata, il quale morirà dopo ventiquattro giorni di agonia diventando il primo martire del fascismo livornese. La mattina del 26 il sindaco Ambrogi e Alfredo Bonsignori [6] vengono arrestati e trasferiti nelle carceri di Volterra.
I funerali di Dino Leoni si svolgono a Livorno il 22 febbraio. Un funerale imponente, con fascisti venuti da tutta la Toscana. L’Associazione Nazionale Combattenti di Livorno pubblica il seguente manifesto: “Dino Leoni, che nella sua qualità di radiotelegrafista a bordo dei sommergibili aveva dimostrato, contro le insidie del nemico, il suo valore di soldato, aveva così forte il sentimento del dovere di uomo e di cittadino che, abbandonate le Armi quando aveva vinto lo straniero, si pose, con indefessa attività, al compito nobilissimo, di istruire coloro che dalla scienza volevano apprendere una nuova arte, di per sé e per la società proficua: quella del radiotelegrafista. A lui che tanto nobilmente si distinse fra i combattenti, i compagni d’Armi e gli allievi suoi, che tutti lo amarono, danno il mesto saluto di amaro compianto, mentre la sua salma scende nella tomba con le stigmate di martire, nella luce dell’ideale, contro l’ombra di un atroce delitto”.
Negli anni successivi una delle “squadre d’azione” livornesi assume il suo nome e nel 1930 gli viene dedicato un piroscafo, chiamato appunto Dino Leoni, costruito per potenziare il trasporto con le isole dell’arcipelago toscano. Dopo l’8 settembre 1943, il piroscafo viene requisito dai tedeschi e affondato dalle bombe all’alleate nel porto di Bastia in Corsica il 22 settembre 1943.
[1] Agli inizi di gennaio 1921 Pedani per poter completare gli studi divenne vice segretario lasciando l’incarico principale all’avvocato Luigi Mazzola
[2] In seguito confluirà nel Partito Comunista Italiano
[3] C., Intelligenti pauca, Vita Nuova, 12 dicembre 1920
[4] P. Cateni, Conigli!!!, La Fiamma (settimanale della Federazione Socialista di Pisa), 26 dicembre 1920
[5] G.A. Chiurco, Storia della Rivoluzione Fascista
[6] Colui da cui partì la proposta di rimozione della targa