In primo luogo era ottobre, un mese eccezionale per i ragazzi. Non che tutti i mesi siano eccezionali. Ma ce ne sono di buoni e di cattivi; come dicono i pirati […] E se è già il 20 ottobre e tutto odora di fumo e il cielo è color arancio e grigio cenere al crepuscolo, sembra che Halloween non verrà mai, in una pioggia di manici di scopa e in un fiottare sommesso di lenzuola agli angoli delle strade. Ray Bradbury, Il popolo dell’autunno
Le soleggiate e afose giornate d’estate sembrano ormai un lontano ricordo. L’equinozio autunnale genera in molti la malinconia d’un altro anno che s’inoltra verso la sua fine inesorabile. Le foglie cadono, assieme alla luce che ogni giorno si spegne in maniera cadenzata. Eppure, alcuni ritrovano in questa stagione momenti indissolubili per colmare le mancanze della propria anima.
Varcate le soglie ottobrine, il ciclo stagionale si riallaccia a ricorrenze non indifferenti per coloro che non paiono estranei al mondo dello spirito. Per i Romani, ad esempio, ottobre era l’“ottavo mese”, e – assieme ai Greci – riservavano i loro onori agli dèi Dioniso o Bacco. Molto più avanti, per Carlo Magno comincia il “mese della caccia”, o “mese della vendemmia”. Persino lo zodiaco s’inoltra in una fase cruciale: il 23 del mese, lo scorpione – con la sua puntura potenzialmente mortale – subentra alla bilancia. Nei ranghi dell’astronomia germanica, esso pare incorporarsi alla lancia di Wotan. L’autunno – insomma – è la chiusura del cerchio iniziato in primavera. È una lotta tra forze solari e notturne. Perciò, in questo periodo, s’addensano svariate tradizioni popolari rafforzate proprio da questa sorta di “dualismo” [1].
Ottobre e novembre sono colmi di richiami al mondo dei morti. Bambini e adulti mascherati da esseri orribili, intenti in feste tambureggianti in salsa macabra, nella notte del 31 ottobre vagano nelle strade d’un Occidente moribondo. I bambini suonano i campanelli, e a tutti rivolgono una domanda dal tono innocente: “Dolcetto o scherzetto?”, riprendendo l’anglofono “Trick or treat?”. Le abitazioni sono decorate da zucche intagliate, all’interno dei cui sorrisi “sdentati” si accende una candela. È la notte di All Hallow’s Eve, la vigilia di Ognissanti, tutt’oggi conosciuta banalmente come Halloween. Tuttavia, l’origine di questa notte gremita di mistero risale a tempi atavici. Al di là delle apparenze, quindi, possiamo voltarci ben oltre il ciarpame consumista che s’è infiltrato nell’essenza delle origini. Morti e santi sono infatti in questi giorni gli attori principali.
Per il Celti, la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre è Samain, spartiacque assimilato al loro Capodanno. In quella notte tenebrosa, divampa il cosiddetto mondo intermedio, e i morti piombano d’un tratto in mezzo ai vivi. Allora, ecco che in Irlanda i fuochi si spengono, mentre i Druidi appiccano un «fuoco rituale» su un’altura, e da quelle fiamme ognuno può attingervi per riscaldare la propria abitazione. In più, il bestiame viene ricollocato nelle stalle in vista della macellazione delle bestie più sfortunate; con esse, ci si ciberà in un «solenne banchetto», potendovi cogliere in maniera simbolica gli aspetti essenziali di vita e morte [2].
L’importanza dei fuochi è emblematica. Ad esempio, nell’isola dello Shamrock il primo fuoco non veniva mai acceso in maniera casuale, bensì «in una località che riceveva il nome da Tlachtga, figlia di Mog Ruith, signore delle ruote del fuoco» [3]. Inoltre, sempre in Irlanda, Samain lo si è interpretato anche come san-fuin; ovvero “fine dell’estate”. Esso, però, contiene anche il significato di “unione”. Forse può riferirsi alla congiunzione di due divinità: «il dio Dagda e la dea Morrigan, che si erano accoppiati, come riportano le narrazioni mitiche relative alla battaglia di Mag Tured, proprio nel giorno di Samuin» [4]. Sicché, anche in questo caso, due divinità si saldano in un legame piuttosto intimo. Siamo altresì nel pieno di festività legate all’alveo dei cerimoniali funebri: la dea che s’accinge ad unirsi al dio, insomma, è palesemente allacciata al mondo infero. Ciononostante, si evidenziano connotazioni financo positive della ricorrenza, a loro volta intrecciate con la fecondità del mondo agricolo: per gli irlandesi, infatti, siamo anche nel bel mezzo d’una festa agraria [5].
Ovviamente, ciò non riguarda solo la patria irlandese, bensì tutto il più ampio territorio abitato dal popolo celtico che si estende dall’Italia settentrionale, dalla Francia, dalla Pannonia, sino all’Asia Minore. In Scozia è ricordato come Nos Galan-gaeaf, la «notte delle calende d’inverno». Anche in tal caso, attraverso un «rimescolamento cosmico», avveniva un contatto tra morti e i vivi. Da quel Capodanno arcaico risalgono usanze ancora oggi in voga, come la notte di Halloween, durante la quale ragazzi mascherati da fantasmi vagano tra le case chiedendo dolci e minacciando alcuni scherzi nel caso non dovessero ottenerli. Samain, insomma, è una festa fondamentale per i celti. Si pensi: all’alba del Medioevo, ancora veniva praticata [6].
Tuttavia, come nota Jean Markale, i celti non usano celebrare feste in giorni solstiziali o equinoziali. Infatti, lo studioso osserva che:
“Secondo gli antichi testi gaelici irlandesi, l’anno celtico – almeno nelle isole britanniche, poiché nulla è provato presso i celti continentali – era suddiviso in due parti uguali, due stagioni in qualche modo, la metà buia, dunque l’inverno, che cominciava a Samain il 1° novembre, e la metà luminosa, dunque l’estate, che cominciava a Beltaine il 1° maggio. A metà di ogni «stagione» c’era una festa intercalare, Imbolc il 1° febbraio e Lugnasad il 1° agosto. Ma tradizionalmente l’anno cominciava a Samain [7].”
Ad ogni modo, ci troviamo dinanzi alla rottura tra un anno agricolo e l’altro. In quella notte famiglie, tribù e clan si riunivano con lo scopo di rendere grazie agli dèi per il buon raccolto, e per ingraziarseli in vista di quello successivo. La terra, dunque, s’apprestava a dormire, per poi risvegliarsi nella successiva primavera. Il mondo dei vivi, quindi, era maggiormente incline all’incontro col mondo intermedio, «quello di Annwyn – degli spiriti – e di Sidhe – delle fate»[8]. Perciò, in quella notte cementata dal mistero, il confine tra vivi e morti – come già si è notato – non era più invalicabile. James G. Frazer, riguardo a ciò, osserva che:
“[…] non soltanto le anime dei morti si suppone che vaghino non viste nel giorno in cui «l’autunno cede all’inverno il morente anno». Anche le streghe corrono allora per i loro malefici intenti. Alcune attraversano l’aria a cavallo delle scope, altre galoppano per le vie su grossi gatti che per quella notte si trasformano in cavalli neri come carbone. Anche le fate sono tutte in libertà e folletti d’ogni sorta vanno in giro a loro talento[9].”
Tra i rituali cogenti praticati in quella notte, oltre agli aspetti legati a ritualità orgiastiche legate alla fertilità o a sacrifici animali, ve n’era uno considerato particolarmente edificante. Scrive Alberto Massaiu:
“Il 30 ottobre, nelle colline della Britannia, della Gallia, dell’Irlanda e della Caledonia venivano preparate delle enormi cataste di legno. Il 31 queste venivano accese e, in concomitanza, i fuochi dei focolari di ogni singola abitazione di tutti i villaggi venivano spenti per tutta la notte. L’indomani, il primo giorno di novembre, i druidi si recavano di casa in casa a portare le braci ardenti del sacro fuoco nuovo, che simbolicamente delineava il trapasso dell’anno vecchio in quello che appena incominciato [10].”
Se – per citare ulteriori esempi – volgiamo nuovamente lo sguardo alla monumentale opera del Frazer, notiamo che nel nord del Galles, nella notte del 31 ottobre, ogni famiglia accendeva un falò denominato Coel Coeth; ovvero,
“Si accendeva il fuoco nel posto più in vista vicino alla casa e quanto era quasi spento ciascuno gettava nelle ceneri un sasso bianco che aveva segnato: poi tutti dicevano le orazioni intorno al fuoco e andavano a letto. La mattina dopo, appena alzati andavano a cercare i sassi e se uno di questi mancava credevano che la persona che ce l’aveva gettato sarebbe morta prima della prossima vigilia d’Ognissanti [11].”
Inoltre, anche nell’isola di Man s’accendevano un tempo dei fuochi per «stornare la dannosa influenza di fate e streghe» [12].
Pure l’Italia – del resto – non è esente da usanze folkloriche dal sapore arcaico. Si pensi, in particolare, all’Is Animeddas sardo, all’usanza della Morte Secca in Toscana, oppure alla tradizione campana dei Cicci muorti, descritta nelle righe di Massimiliano Palmesano. Proprio Palmesano, inoltre, rammenta che:
“Quasi a connotare profonde e arcaiche affinità di matrice indoeuropea (o forse ancora più antiche) tra le culture popolari italiane e la tradizione dei paesi di origine celtica vi era la caratteristica consuetudine di ricavare lampade intagliando zucche che venivano lasciate la notte dei morti in luoghi bui e isolati a simboleggiare gli spiriti dei defunti. Probabilmente la loro funzione originaria era quella di illuminare e di indicare la strada alle anime dei morti che transitavano, durante quella notte, nella dimensione di esseri umani: per richiamare la loro attenzione nella speranza di poter rivedere per qualche istante un proprio caro estinto. Le lampade di zucca incarnavano le anime dei defunti “i spiriti” e quelle dei fantasmi, “i pantasemi”. I bambini si divertivano a intagliare le zucche e a collocarle in luoghi bui al fine di spaventare ignari passanti [13].”
Non siamo forse vicini alla storiella del dannato ubriacone irlandese Stingy Jack dalla quale è emersa la famosa leggenda di Jack-o’-lantern?
Col cristianesimo, perlopiù grazie alla diffusione voluta da Alcuino (735-804), consigliere di Carlo Magno, il 1° novembre si celebra la festa di Ognissanti. Negli anni successivi, la volontà di Ludovico il Pio – cementato dall’autorevole richiesta di papa Gregorio IV (827-44), e a sua volta ispirato da alcuni vescovi – l’ha allargata a tutto il regno franco. Tuttavia, prima che la celebrazione s’estendesse a tutto l’Occidente cristiano, il tempo varca oltre i secoli. Papa Sisto IV, infatti, la impose nel 1475. In ogni caso, senza inoltrarci troppo nello specifico, occorre specificare che questa tradizione non ha le sue origini primordiali nella patria francese [14].
Il giorno dei morti
Quei giorni – l’abbiamo già detto – hanno a che fare anche con gli elementi più propri del mondo agricolo. I morti, in tal caso, possono essere parte integrante di culti legati alla fertilità. In effetti, ciò trova riscontro nelle parole di Mircea Eliade, il quale afferma che:
“La solidarietà dei morti con la fertilità e l’agricoltura si nota ancor più chiaramente studiando le feste o le divinità in relazione con uno di questi due complessi cultuali. Spessissimo una divinità della fertilità tellurico-vegetale diventa anche divinità funeraria […]. Numerosi geni della vegetazione e della crescita, di struttura e di origine ctonia, sono assimilati sino a diventare irriconoscibili, al gruppo amorfo dei morti. Nella Grecia arcaica i morti, come i cereali, erano messi in vasi di terracotta. Alle divinità del mondo sotterraneo si offrivano ceri, come alle divinità della fertilità […]. Un tempo, il San Michele (29 settembre) era insieme la festa dei morti e della mietitura in tutta l’Europa settentrionale e centrale. E il culto funerario influisce sempre più su quello della fertilità, appropriandosene i riti, che trasforma in offerte e sacrifici alle anime degli antenati. I defunti sono «quelli che abitano sottoterra», e la loro benevolenza deve essere conciliata [15].”
Com’è noto, anche i Romani rispettano giornate dedicate appositamente ai propri morti. Si pensi, ad esempio, ai Parentalia o ai Lemuria, celebrati in mensilità differenti. Per Georges Dumézil:
“I Parentalia duravano dal 13 al 21 febbraio, dies parentales o ferales […]. Durante quei nove giorni, i magistrati non portavano le loro insegne, i templi erano chiusi, il fuoco non ardeva sugli altari, non venivano celebrati matrimoni […] Sulle tombe vengono portate delle corone ed è preparato un semplicissimo festino: un po’ di sale, un po’ di pane bagnato nel vino puro, delle viole. Durante i nove giorni, i morti risalgono, errano qua e là, e si nutrono dei cibi preparati per loro […]. Non risulta che essi approfittino di questa breve vacanza all’aria aperta per spaventare i vivi e infestare le case […]. Un altro aspetto dei morti si manifestava nei Lemuria, il 9, l’11 e il 13 maggio […] – Gli antenati, col nome di lemures, uscivano e, più arditi che in febbraio, tornavano a visitare la casa in cui erano vissuti; a quegli ospiti poco augurabili bisognava quindi opporre gesti e parole tali da placarli ed allontanarli […] I lemures di maggio non si identificano con le larvae, che in qualche momento dell’anno vengono non a visitare, ma a tormentare i viventi […] [16].”
A Roma, la famiglia onora gli dèi e i «propri morti», e rammenta Jacqueline Champeaux che per costoro si «celebra il culto degli antenati divinizzati». Lemures, Larvae, Manes sono alcuni dei nomi coi quali si inquadrano le anime materiali dei defunti. Inoltre, sempre Champeaux osserva che:
“La famiglia è contaminata dal contatto con la morte. La morte, eminentemente contagiosa, è anche funesta e deve essere purificata con riti appropriati: sacrificio di una scrofa, la porca praesentanea, a Cerere; pasto sulla tomba, poi pulizia con la scopa e purificazione della casa e di tutti coloro che hanno assistito alla sepoltura. Il grande lutto dura nove giorni; il pasto del nono giorno ne segna la fine. La famiglia è di nuovo pura [17].”
Molto più tardi, nel 998, anche col cristianesimo si giunge a celebrare il ricordo dei morti, collocandolo il 2 novembre; giorno successivo a Ognissanti. Ciò lo si deve a Odilone da Mercœr, maggiormente noto come sant’Odilone di Cluny. Egli, con estrema fermezza, una volta eseguiti i vespri del 1° novembre, ordinò di suonare i classici rintocchi funebri con le campane. L’Anniversarium omnium animarum, tuttavia, lo si ritrova nell’Ordo Romanus del XIV secolo [18].
Come arriviamo a questo cambiamento che tuttora permea la nostra ritualità? Nella Vita sancti Odilonis, nata dall’opera di Jotsald – anch’egli monaco di Cluny -, emerge la volontà profonda del santo nel voler rendere il 2 novembre un giorno cruciale. Pare che un religioso francese, durante il ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme, giunto in Sicilia fu colpito da un incontro con un misterioso eremita. Il solitario ebbe il desiderio di far giungere alle orecchie dell’abate di Cluny un messaggio colmo di dettagli inquietanti: vi è un luogo nel quale le anime dei peccatori, «per un tempo determinato», sono torturate da demoni brutali e senza pietà. Questi demoni «purgano nel fuoco e con grandi sofferenze i loro peccati». I monaci, dunque, nei desideri del figuro misterioso, avrebbero dovuto pregare per quelle anime affrante. Era forse il Purgatorio? Il pellegrino, giunto in Francia, rivolse al monaco il racconto. Affranto e devastato da quella storia colma di orrori, Odilone ordinò le suddette celebrazioni [19].
[1] A. de Benoist, Tradizioni d’Europa, Controcorrente, Napoli, 2006, p.11.
[2] A. Cerinotti (a cura di.) I Celti. Alle origini della civiltà d’Europa, Giunti, Firenze-Milano, 2005, p.104.
[3] S. Mayorca, I misteri dei Celti. Miti, riti, credenze, leggende, De Vecchi, Milano, 2008, p.112.
[4] S. Mayorca, Ibidem, p.112.
[5] S. Mayorca, Ibidem, p.113.
[6] A. Cattabiani, Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Mondadori, Milano, 2008, p.304.
[7] J. Markale, Halloween. Storia e tradizioni, L’Età dell’Acquario, Torino, 2005, p.21.
[8] https://axismundi.blog/2018/10/31/storie-di-mondi-passati-da-samhain-a-halloween/#more-20528.
[9] J. G. Frazer, Il Ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Bollati Boringhieri, Torino, 2019, p.738.
[10] https://axismundi.blog/2018/10/31/storie-di-mondi-passati-da-samhain-a-halloween/#more-20528.
[11] J. G. Frazer, Ibidem, p.739-740.
[12] J. G. Frazer, Ibidem, p.740.
[13] M. Palmesano, Le porte dell’inverno. I cicci (semi), il pasto e la schiera dei morti, in Axis Mundi n.2/anno II/Samhain-Autunno 2022, Eschaton – Fine del ciclo cosmico e feste di fine anno, Axis Mundi Edizioni, Soresina, 2022, p.68.
[14] A. Cattabiani, Ibidem, pp. 304-309.
[15] M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, pp.322-323.
[16] G. Dumézil, La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà, BuR, Milano, 2021, pp.322-323.
[17] J. Champeaux, La religione dei romani, Il Mulino, Bologna, 2020, p. 109.
[18] A. Cattabiani, Ibidem, p.312.
[19] J. Markale, Ibidem, pp.118-119.