Il modo di vivere in comunità è fondato su “tenerezza, reverenza, benevolenza e rispetto”, scrive Ferdinand Tönnies. La comunità è cosa ben diversa della società dei grandi agglomerati urbani e delle grandi città, per intenderci. I paesini disseminati in tutto il belpaese erano l’ultimo baluardo di un modo di vivere che ha offerto – per decenni – una strenua resistenza ai cambiamenti culturali e sociali della post-modernità. Oggi, in quelle comunità, ritroviamo una mescolanza di elementi tipici del nostro tempo, che si innestano ai retaggi antichi di quel mondo che sembrava “ermetico”. Questa mescolanza, di fatto, ha innescato una specie di cortocircuito che si è dimostrato dannoso sia per l’individuo che per la comunità stessa. Sarebbe dunque il caso di considerarla un tipo di aggregato umano in fase di definitivo disfacimento?
La precarietà dei rapporti è diventata una pratica “istituzionalizzata”: questa fase di declino minaccia l’esistenza dei rapporti tipici di ogni relazione autenticamente comunitaria, sia essa la famiglia, il gruppo amicale o il paese in cui si vive. Di conseguenza, l’individuo si ritrova in una sconcertante instabilità. Prendiamo ad esempio l’amicizia, quella che viene definita da Tönnies “comunità di spirito”, dalla quale nascono quei rapporti che – per definizione – sono spontanei e non costruiti, caratterizzati da un identico o simile modo di pensare, ovvero una “comunanza del sentire”. Essa è progressivamente diventata una parola vuota: basta leggere “Laelius de amicitia” di Cicerone per accorgersi che tali legami – nell’odierno ordine sociale – non hanno più un significato profondo. Questo perché la nostra società si connota di quell’individualismo esasperato, dell’uomo disilluso e disincantato, dell’uomo alla ricerca continua dell’utile, che sopravvive e consuma nella cosiddetta “società post-moderna”. Nonostante tutto, però, l’amicizia esiste come prodotto umano: ha importanza solo se gli individui, le comunità ristrette e la società gliene attribuiscono.
La concezione dell’amicizia offertaci da Cicerone – dunque – non ha solo una valenza che coinvolge la sfera intima e privata degli individui: essa diventa un elemento fondamentale per un buon funzionamento della sfera pubblica. Per l’autore, infatti, l’amicizia – dopo la sapienza – è il bene più prezioso, quel sentimento limpido e disinteressato che non nasce dalla ricerca dell’utile, ma da un’inclinazione naturale che unisce due o più persone e diviene anche nobile attività quando si allarga alla sfera pubblica, assumendo la forma della più autentica manifestazione di concordia civile, base della coesione sociale e della forza morale di un popolo. L’amicizia “post-moderna”, invece, è qualcosa di funzionale in una prima fase della crescita: successivamente, essa si cristallizza e diviene una parola vuota e formalistica. Giovinezza, amicizia e comunità sono termini contigui: non hanno confini visibili e hanno la forza di condizionare la biografia di ogni persona, influenzando la società nel suo complesso.
Sarà forse la forza, la passione, la purezza della giovinezza il vero segreto per una rinascita delle comunità e – quindi – dell’intera società? Giovanni Papini scriveva :
“La gioventù è nostalgica e profetica: rimpianto di ciò che non fu mai posseduto, desiderio di quel che non sarà mai nostro. Ma pure è il solo tempo della vita in cui veramente si vive: se vita è fuoco, amore di grandezza, sete di perfezione, amore dell’amore. È il solo tempo in cui l’uomo sia come ferro bianco e duttile, pronto a colare nelle forme vili ma anche in quelle divine; non ancora rappreso per sempre nel duro congelamento dell’abitudine. Tutto il rimanente della vita ci scalderemo alla braciglia lasciata dall’incendio della giovinezza.“
Ripartiamo da queste verità.