Che fine ha fatto il nazionalismo arabo? La Palestina, tra storia, identità e catastrofe

Dic 18, 2023

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Che fine ha fatto il Nazionalismo Arabo?

Parlare di Questione Palestinese, di Palestina, di Israele e di Terra Santa non è mai semplice. Non è mai semplice per due grandi e principali ragioni. La prima ragione è l’intensità di quello che è diventato vero e proprio tifo. Gli schieramenti contrapposti, nel complesso mondo occidentale, risultano cristallizzati e, dati i notevoli interessi sottostanti, la sensibilità politico-mediatica è elevata.

Palestinian fedayeen - Wikipedia

La seconda ragione, collegata con la prima, è la vetustà delle categorie interpretative che vengono adoperate per leggere la “questione”. Da una parte gli attori in gioco sono concepiti come immutati rispetto a quella che, nei tempi della politica e delle relazioni internazionali, equivale a un’era geologica da lungo tempo trascorsa. Dall’altra, le categorie utilizzate rifuggono da un approccio tecnico, per quanto possibile asettico e avalutativo, per rifluire nell’ambito sostanzialmente moralistico. Questo approccio, oltre che negativo in sé, è figlio di un’epoca in cui i dilemmi geopolitici, che pure esistevano, si inscrivevano in una dinamica che non c’era la possibilità o la volontà di ridiscutere radicalmente. Per provare a ricostruire la “Questione” per eccellenza in una dimensione che testimoni della complessità e della stratificazione esistenti, dunque, un approccio diacronico può essere la soluzione.

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Dopo la seconda intifada del 2006, la questione palestinese sembrava aver assunto un’importanza mediatica di secondo piano nello scenario medio-orientale. Il terrorismo internazionale, le Primavere Arabe, il Nucleare Iraniano, la guerra in Siria e l’emergere dell’ISIS in Iraq sembravano aver preso il sopravvento su una questione cruciale per gli equilibri geopolitici della regione. Addirittura, dopo il COVID e la Guerra in Ucraina, il Medio Oriente stesso sembrava sceso nel dimenticatoio nelle cronache giornalistiche. L’attacco condotto da Hamas contro Israele il 7 ottobre 2023 avrebbe però cambiato il corso degli avvenimenti. Improvvisamente, la questione palestinese tornava ad essere al centro dei dibattiti internazionali. Gli stati occidentali si sono uniti nella condanna dell’attentato, mentre invece – tra gli stati arabi – sembra essere tornato un certo grado di solidarietà per difendere una questione per loro di fondamentale importanza.

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Negli ultimi due mesi, abbiamo continuato ad assistere a continui incontri tra i principali attori della regione, tra chi chiedeva un cessate il fuoco e chi invece invocava la giusta difesa del popolo palestinese contro una situazione che si prolungava da troppi anni. Ciò che salta all’occhio leggendosi le cronache delle ultime settimane è soprattutto l’importanza che la dimensione religiosa islamica ha assunto nella questione. Non è un caso se due tra gli attori più attivi nel sostenere e giustificare l’attacco palestinese sono l’Iran e Hezbollah, attori islamisti sciiti che fanno della politicizzazione della religione uno dei principali simboli della loro esistenza. Poco dopo l’attacco, abbiamo assistito ad un ritorno degli attentati islamisti in Europa, facendoci rivedere episodi che speravamo non si verificassero più dopo la sconfitta dell’ISIS. È in quest’ottica che, oltre alla giusta indignazione per l’atto compiuto e per le modalità con cui è stato condotto, si è parlato molto di una rivalorizzazione del ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese, entità nata nel 1994 sulle ceneri della vecchia Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), in seguito agli accordi di Oslo, che in teoria avrebbero dovuto portare ad una soluzione di “due popoli due stati”. Le cose non sarebbero andate così, anche a causa della miopia dei governi israeliani, che avrebbero perseguito l’opera di occupazione della Cisgiordania, e per l’incapacità dell’ANP di mostrarsi come autorità credibile per governare lo stato palestinese. Questi fattori avrebbero portato all’affermazione di Hamas nel governo della striscia di Gaza, lasciando che fosse l’islamismo il principio che avrebbe dovuto guidare la lotta per la liberazione della Palestina. La rivalorizzazione del ruolo dell’ANP, se non vuole rimanere un semplice slogan, dovrebbe passare anche per la valorizzazione di un principio metapolitico che sia in grado di dare speranza al popolo palestinese, e magari anche una prospettiva di lungo periodo che possa portare alla pace e al reciproco rispetto tra i due popoli.

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Andando a guardare alle origini della questione, ci si accorge che l’aspetto religioso non era l’unico ad essere preso in considerazione. Le guerre arabo-israeliane, del 1948 e soprattutto quella del 1967, avrebbero visto come assoluto protagonista il nazionalismo arabo. In particolare, quest’ultimo è stato personificato dalla figura del Presidente Egiziano Gamal Abdel Nasser, il quale, una volta preso il potere nel 1952, avrebbe attuato una politica estera volta ad unire il mondo arabo sotto la leadership egiziana. Da qui si legge il tentativo di creazione della Repubblica Araba Unita assieme alla Siria e Israele, oltre che ai sostegni finanziari ai movimenti di liberazione algerina e palestinese. Lo scioglimento della RAU a causa del rifiuto della Siria a rimanervi, e dell’Iraq a entrarci, avrebbero mostrato le contraddizioni del tentativo egiziano di perseguire l’unità dei popoli arabi. L’eccessivo desiderio di egemonia da parte di Nasser avrebbe provocato le diffidenze irachene e siriane, e, con la sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni, non sarebbe più stato credibile proporre un modello del genere. Anche perché il tentativo da parte della Lega Araba di usare la questione palestinese per unire gli stati arabi all’indomani della Seconda Guerra Mondiale era già stato screditato con la sconfitta del 1948-49, e quindi non era possibile neanche riproporre un ruolo attivo di un’istituzione sovranazionale. Le ultime vestigia del nazionalismo arabo si sarebbero viste nei regimi baathisti saliti al potere in Siria nel 1967, presto egemonizzato dalla dinastia degli Assad, e in Iraq nel 1968, in seguito consolidatosi con Saddam Hussein. Tuttavia, anche in quel caso, le divisioni tra i due paesi palesatesi durante la guerra Iran-Iraq, in cui la Siria di Assad sembrava patteggiare più per il primo, avrebbero reso impossibile la cosa. In più, il tentativo di esportazione della democrazia compiuto dagli Stati Uniti in Iraq nel 2003 e la Guerra Civile in Siria

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 Le prime guerre

La Palestina, è stata per 400 anni sotto il controllo dell’Impero Ottomano, e durante tutto questo periodo, ebrei e musulmani sono sempre vissuti pacificamente. Le cose, sarebbero cambiate solo dopo la Prima Guerra Mondiale, con l’avvio del mandato britannico in palestina. Quest’ultima, sarebbe stata spartita con l’accordo Sykes-Picot, stretto segretamente tra Regno Unito e Francia nel 1916, che prevede l’istituzione di un’amministrazione internazionale nella zona, la cui forma deve essere decisa insieme agli alleati, alla Russia e i rappresentati dello sceicco della Mecca. Solo nel 1917 le autorità Britanniche rivelarono al pubblico il piano di realizzare in Palestina una national home, ovvero un “focolare nazionale” per dare asilo non solo agli ebrei che già risedevano nei territori della Palestina, ma per tutti i giudei che da secoli si erano diramati in altre nazioni. Questo avvenne con la Dichiarazione di Balfour, nella quale la Corona Inglese impone una condizione: “nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina”.

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Nel frattempo, però, il mondo arabo si stava già preparando ad affrontare il momento in cui l’Impero Ottomano non ci sarebbe più stato. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, sulla scia della spinta riformistica che i Sultani Ottomani avevano intrapreso, i popoli arabi sottomessi all’Impero avevano iniziato a prendere una maggiore coscienza della loro identità, e chiedevano maggiore rappresentanza all’interno delle istituzioni.

Sul fronte intellettuale, il nazionalismo arabo tendeva a trascurare l’elemento religioso, concentrandosi più su quello storico e linguistico, e si opponeva alle tendenze regionalistiche dei nazionalisti siriani ed egiziani sostenendo la necessità di riunificare i popoli arabi in un’unica entità politico-statale. Gli inglesi avrebbero approfittato di questa situazione, aiutando la dinastia Hashemita a forgiare i regni di Giordania e Iraq, tuttavia è in questo periodo che si sarebbe manifestata una prima frattura tra le aspettative dei nazionalisti arabi e gli occidentali. Per queste ragioni sarebbero emersi due ostacoli alla formazione di una grande nazione araba. Il primo riguardava la spartizione del territorio tra le diverse potenze occidentali, il secondo riguardava proprio l’insediamento dei coloni ebrei in Palestina, come dimostrato dallo scoppio della grande rivolta araba, scoppiata nel 1936 e conclusasi nel 1939. L’emigrazione di massa di ebrei occidentalizzati poneva un grosso ostacolo alla possibilità di avere in futuro un unico stato arabo omogeneo. Quando poi si sarebbe arrivati alla vera e propria creazione di uno stato il problema sarebbe stato reso ancora più evidente.

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Va però ricordato che nel 1915 i Britannici avevano promesso agli alleati Arabi l’indipendenza o, se non altro, l’appartenenza ad una grande nazione araba, come ricompensa per l’aiuto nella lotta contro l’Impero Ottomano. Questo causò fin da subito scontri con i sionisti, iniziando con i moti palestinesi del 1920 e culminando nella Grande rivolta araba del ‘36, con la quale gli arabi ottennero la fine dell’immigrazione ebrea in Palestina. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale le forze ebree si schierarono a favore degli alleati, scontentando parte del gruppo Irguan, che fu sempre attivo nella lotta contro l’esercito britannico. Da questo corpo nacque la Banda Stern, che continuò la lotta conto le forze inglesi.

A guerra finita le Nazioni Unite, nate da poco, cercarono una soluzione alla situazione palestinese che potesse soddisfare entrambe le parti. Questo tentativo si rilevò presto impossibile. Venne quindi venne sviluppato un piano per la divisione della Palestina in due stati, uno arabo ed uno ebreo, con Gerusalemme sotto il controllo internazionale dell’ONU, e la fine del mandato britannico entro il 1° Agosto 1948. Questo provocò un’ondata di violenze mai vista prima, sia dalla parte araba che da quella ebraica, che scaturirono nell’aggressione da parte della Lega Araba, costituita da Egitto, Siria, Transgiordania e Libano, al neo-proclamato stato di Israele. Le ostilità finirono nel ’49. Negli armistizi firmati con i singoli stati, Israele ottenne ben più di quanto sancito dalla risoluzione delle Nazioni Unite, ottenendo il controllo del 78% del territorio della Palestina.

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Appare chiaro che le forze colonizzatrici non sono mai riuscite a garantire una pacifica e duratura divisione, nonostante i vari interventi prima della Società delle nazioni, poi delle Nazioni Unite. Ne sono testimoni di questo le successive tensioni tra i due popoli, come la Guerra dei sei giorni e le Intifade. Tensioni che assumono sempre di più un carattere religioso vista la mancanza di una coscienza di un’identità nazionale, necessaria per raggiungere una coesistenza pacifica dei due popoli nella regione. Questo si può ottenere solo con la liberazione dei territori Palestinesi occupati da Israele, e difendendo la popolazione Araba dalla furia espansionista sionista, una difesa che richiede un grande atto di coraggio da parte dell’Europa: il coraggio di ribellarsi al comando statunitense che non osa mollare la presa sul suo vicario in Medio Oriente, così come dimostra il veto posto negli ultimi giorni alla risoluzione dell’ONU sul cessate il fuoco a Gaza.

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