Ne abbiamo parlato con Emanuele Mastrangelo autore, insieme ad Enrico Petrucci, del testo “Iconoclastia. La pazzia contagiosa della Cancel Culture che sta distruggendo la nostra Storia” (Eclettica, 2020).
In Italia c’è poco dibattito sulla “cancel culture”: a differenza di paesi come Stati Uniti d’America, Inghilterra e Francia, noi ancora non siamo stati travolti da questo fenomeno. Come e dove è nata la pazzia contagiosa che sta distruggendo la nostra storia?
Iniziamo dalla seconda parte della domanda. Il libro che ho scritto insieme a Enrico Petrucci affonda le radici nella constatazione che l’ondata di iconoclastia che colpì gli USA nel 2017 – dopo l’elezione di Trump – non era un fuoco di paglia destinato a durare pochi mesi, ma una delle teste di un’idra molto più tentacolare di quanto si potesse (e si volesse) credere. Così a fine 2017, dopo aver scritto un lungo articolo per “Storia in Rete” sugli attacchi iconoclasti alla storia in mezzo mondo, avendo fatto il paio con il fenomeno delle chiese neogotiche distrutte in Francia, Enrico e io ci ritrovammo in mano abbastanza materiale per ricavarne un libro. La gestazione del saggio, poi, fu abbastanza lunga, soprattutto perché ogni tre per due usciva fuori una nuova notizia che non solo confermava la nostra teoria iniziale, ma ne ampliava e peggiorava i contorni. Alla fine, mentre stavamo per chiudere il lavoro – nell’estate del 2020, fra manifestazioni del BLM e campagna elettorale USA – Tom Cotton e Donald Trump iniziarono a utilizzare il termine “cancel culture” come sinonimo di “iconoclastia” e guerra alla storia. La locuzione entrò rapidamente nel linguaggio comune e così il libro adottò quella definizione accanto a “iconoclastia”. Da noi però il dibattito stentò comunque a partire, soprattutto nell’area conservatrice, nazionale e libertaria (ossia la “destra”). A sinistra invece immediatamente partì il negazionismo, con il tentativo di derubricare la “cancellazione della cultura” a una “teoria del complotto trumpista” o a un “piagnisteo di destra”. Il combinato disposto fra questo negazionismo e il pigro fatalismo dell’italiano medio, che pensa sempre che quello che arriva dall’America (o dalla Francia…) sia una “moda passeggera” che non cambierà il nostro stile di vita, ha finora messo in secondo piano il dibattito. Tuttavia, un po’ come la barzelletta del lord e del Tamigi che sta inondando Londra, presto o tardi arriva sempre il momento in cui il maggiordomo bussa alla porta per l’ennesima volta e alla domanda “cosa c’è, ora, Battista!?” del seccatissimo lord, il domestico risponde “il Tamigi, milord…” mentre l’acqua dilaga sui preziosi tappeti del blasonato…
La “cancel culture” è un prodotto del marxismo culturale: cosa c’entra Marx con la riscrittura della storia?
Il “marxismo culturale” sta a Marx come certe sette gnostiche stanno al Cristianesimo: ne prendono spunto, ma divergono totalmente per scopi e mezzi. Procedendo a sciabolate, il Marxismo cerca di raggiungere il comunismo dei mezzi di produzione attraverso la mobilitazione della classe proletaria (quella priva di tali mezzi) contro i borghesi (i monopolisti dei mezzi di produzione). Il Marxismo culturale, nato dalla Scuola di Francoforte emigrata a Parigi prima e in America poi a causa delle persecuzioni antisemite di Hitler, invece persegue una generica “giustizia” attraverso la mobilitazione non più dei lavoratori bensì delle minoranze degli “oppressi”. Anziché la rivoluzione della struttura materiale, il Marxismo culturale intende agire a partire dalla sovrastruttura culturale (da cui la seconda parte del suo nome). In questo senso i filosofi francofortisti erano perfettamente padroni delle teorie di Gramsci sull’egemonia culturale. Peraltro, per non confonderli col Marxismo ortodosso, noi spesso usiamo un’altra definizione: “Trozkismo intersezionale”, ideata da Enrico Petrucci.
E ora veniamo a cosa c’entra questo con la storia. Poiché il Marxismo culturale – o Trozkismo intersezionale – prevede la conquista della “giustizia” attraverso l’egemonia culturale, è necessario per esso distruggere il passato in quanto espressione della cultura della classe degli “oppressori”. Il passato storico rappresenta un sostrato collettivo che coinvolge ogni individuo del presente: diabolicamente (nel senso greco del termine) il Marxismo culturale intende dividere (diaballein, appunto) l’individuo da questo contesto per renderlo parte non di un collettivo, bensì solo della propria minoranza (intersecata con le altre, purché ovviamente minoranze e ovviamente “oppresse”). Un gay italiano non deve essere un italiano con un orientamento omosessuale, ma solo un appartenente alla minoranza gay. Egli deve essere dunque devoto alla “causa” dei gay contro “l’eteronormatività”, ossia la presunta “oppressione” esercitata dalla maggioranza eterosessuale (in altri tempi avremmo detto “normale”), causa ovviamente che può esistere solo in un contesto di conflitto permanente fra le auto-costruite minoranze e la presunta maggioranza. Paradossalmente il wokeismo uscito fuori dal crogiolo dei campus americani, amalgama di Trozkismo intersezionalista, decostruzionismo e postmodernismo francese, “ideologia californiana” turbocapitalista, sono quelle che vanno a esasperare tutte le molteplici identità che costituiscono ciascun individuo (uno appartiene a una famiglia, a una nazione, a una razza, a una religione, è definito da un sesso biologico, possiede determinate tendenze erotico-sentimentali, una particolare conformazione fisica, una formazione culturale, appartiene a una classe sociale eccetera eccetera), arrivando addirittura a inventarsene altre (pensiamo ai c.d. “generi”). Il tutto non serve però a valorizzare la rete di relazioni che si concretizzano in ciascun individuo come hub di queste caratteristiche, bensì per dichiararlo separato da un contesto unitario. Le identità (vere o inventate) vengono sfruttate solo per volerne dichiarare l’alterità dal proprio contesto d’origine. E siccome il contesto d’origine è tale perché ha una storia, allora si deve combattere contro la storia.
Inoltre, la storia, con la sua complessità, è l’anatema di queste filosofie, che fanno equilibrismo intellettualoide sul filo del rasoio della dissonanza cognitiva. Per fare un esempio concreto, il principale tema caro ai social justice warriors (il braccio armato del wokeismo) è quello della schiavitù. Ovviamente loro la interpretano solo come “oppressione” dei bianchi sui “non-bianchi”. La storia dimostra che lo schiavismo è una fra le più universali istituzioni dell’umanità, da cui ben pochi possono dire d’esser stati immuni, e che inoltre l’unica civiltà ad averla voluto abolire dichiaratamente è proprio quella europea (da Seneca al Cristianesimo cattolico, fino all’Illuminismo e alle filosofie dei diritti umani). Una visione oggettiva del passato dovrebbe riconoscere queste luci e queste ombre. Sarebbe così impossibile distinguere l’universo mondo in “cattivi oppressori” e “buoni oppressi”. La necessità ideologica di alzare muri impone invece un atteggiamento manicheo verso il passato allo scopo di esaltare certi aspetti e cancellarne altri. Dunque, dagli allo “schiavista”! Buttiamo giù le loro statue! E i più fanatici sono proprio i giovani bianchi ansiosi di farsi vedere come i più zelanti distruttori del loro passato per fare “ammenda” di un retaggio culturale che disprezzano perché lo conoscono solo filtrato dall’interpretazione falsa e bugiarda del wokeismo.
Orwellianamente, il wokeismo aspira a realizzare un eterno presente, con cui esso potrà plasmare ideologicamente il passato e darne l’interpretazione di comodo più confacente ai suoi scopi ideologici.
Nel libro avete scritto che il primo paradosso della “cancel culture” è che “se tutto può offendere, allora tutto può essere cancellato”. In altre parole, la sinistra woke non si fermerà mai, perché la sua fame di “giustizia” è insaziabile? Se George Ciccariello-Maher, professore che insegna alla New York University, può scrivere impunemente “Tutto ciò che desidero per Natale è il genocidio bianco”, qual è l’obiettivo finale?
L’ideologia woke parte dal presupposto che “feelings are more important that facts”. In altre parole, la realtà materiale non esiste realmente se non come interpretazione dell’individuo perché i suoi sentimenti valgono più dei fatti. E ovviamente, l’individuo della “minoranza perseguitata” ha un “diritto” ad avere un’interpretazione della realtà più autentica di quella del “privilegiato” (leggi “maschio bianco etero”). Ma tutti noi sappiamo che la realtà presto o tardi arriva a chiederti il conto. Famosa è la barzelletta del trans che va dal dottore e il medico gli dice: “dunque, signor…” e lui “prego, signora”. Il medico lo guarda e gli fa: “bene, signora, lei ha un cancro alla prostata”. Allora dove il wokeismo arriva al potere (in molti paesi dell’Anglosfera, per esempio) si arriva direttamente a vietare la realtà. Una barzelletta come questa – che “ridendo dice la verità” – sarebbe reato in diversi paesi.
Un medico che chiamasse “signore” un transessuale che si pretende donna, rischierebbe licenziamento e radiazione dall’albo. Eppure costui è oggettivamente un uomo. I suoi cromosomi, il suo apparato urogenitale, la conformazione del suo scheletro… Per quanta chirurgia estetica possa aver sopportato, egli non può sfuggire dalla sua natura. Dunque, vietiamo direttamente la natura. Che è la denuncia che poco tempo fa lanciò Camille Paglia, affermando paradossalmente che “la natura è fascista”. Se è fascista, è legittimo combatterla e chi la combatte può alzare il proprio “virtue signaling“, la propria medaglia di virtù.
Nei campus e nei college USA sono arrivati a tacciare di “razzismo” e “sessismo” la matematica perché donne e afroamericani ottengono in media risultati meno brillanti dei maschi bianchi o asiatici negli esami. L’odio per tutto ciò che continuamente nega un fondamento materiale all’ideologia woke viene così sublimato sotto forma di “giustizia”. E infatti i militanti wokeisti chiamano se stessi “social justice warrior“, “guerrieri della giustizia sociale”. Il combinato disposto fra la superiorità del sentimento sul fatto e l’atteggiamento da cosplayer del “guerriero” degli wokeisti porta ad espressioni solo apparentemente paradossali come quella che hai citato, espressa da Ciccariello-Maher: costoro si ritengono legittimati a “combattere” e dunque ad esercitare violenza, e il loro bersaglio è ciò che odiano: i bianchi e fra costoro i maschi etero.
Qual è l’obbiettivo finale? Bella domanda. Distruggere i bianchi nei paesi occidentali attraverso ogni genere di attacco (dalla sostituzione etnica alla castrazione morale del maschio bianco, dai “risarcimenti” imposti ai bianchi per i “torti del passato” veri o presunti subiti dai coloured alla cancellazione della cultura delle nazioni bianche) significa in gran parte fare a pezzi la classe media dei nostri paesi, in gran parte o quasi totalmente composta da bianchi. In un’ottica di lotta di classe, significa distruggere quelli che soli possono mettere in discussione la cupola di potere, l’altissima borghesia detentrice delle leve del potere. A volerci vedere del marcio, è un ottimo sistema con cui le elite di potere s’assicurano l’eliminazione di possibili concorrenti o minacce provenienti dal basso. Contemporaneamente la distruzione della società attraverso la “decostruzione” della storia, dei ruoli sessuali (maledetti in quanto “stereotipi di genere”), della famiglia, delle religioni, delle tradizioni, dell’educazione scolastica, della responsabilità individuale crea degli individui sradicati, privi di punti di riferimento etici e di una bussola morale. L’individuo solitario è vittima perfetta per il marketing, incapace di appartenere a una rete sociale di protezione e quindi indifeso dai soprusi del potere tanto politico quanto, sempre più spesso, economico-mercatista nei confronti del quale non ha potere contrattuale. Consuma bulicamente sia per riempire il vuoto della sua esistenza col consumismo, sia perché per banalissimi principi di economia politica, il single spende una frazione del proprio reddito molto maggiore di un membro di una famiglia. Insomma, gli interessi (ideologici, di potere, economici) che convergono in questo gioco al massacro contro le società occidentali, bianche, sono molteplici. E questo spiega anche perché il grande capitale finanzi a piene mani la sinistra estremista del woke.
Nel frattempo in Francia demoliscono le chiese per costruire parcheggi. Anche se questo fenomeno non è strettamente legato alla cancel culture, perché è significativo?
In “Iconoclastia”, Enrico Petrucci si è occupato personalmente delle chiese neogotiche e neomedievali demolite in Francia. All’epoca erano già una sessantina. Poi è arrivato il fenomeno delle “autocombustioni” (la più eclatante, quella di Notre Dame di Parigi) a peggiorare la situazione. Oggi non abbiamo aggiornato il conto, ma ahimè saremo a un’ottantina di chiese ultracentenarie abbattute. Anche se non si tratta di cancel culture nel senso stretto di una deliberata e pianificata distruzione della storia, il fenomeno ottiene risultati analoghi avanzando come l’acqua che tracima, seguendo una linea di “minor resistenza” tipica della società francese: quella del laicismo estremista. In Francia dal periodo rivoluzionario si sono alternati periodi di iconoclastia anticattolica ferocissima e di ritorno alla radice cristiana della nazione. Le chiese distrutte appartengono a un’ondata di quest’ultima tendenza, fra fine Ottocento e primi del Novecento. Oggi è di nuovo forte il laicismo di Stato, e nella società, nella politica e nelle gerarchie ecclesiastiche c’è ben poca volontà di preservare edifici religiosi che risultano sovradimensionati rispetto all’attuale numero di fedeli che li frequenta. Chiese costose da manutenere ed edificate su terreni che spesso le stesse diocesi ritengono sprecati per una chiesa quando più lucrosamente potrebbero ospitare centri commerciali, condomini o perfino parcheggi. La rinuncia da parte della società francese di conservare quelli che sono spesso gli unici elementi caratterizzanti del loro paesaggio semirurale, quelli che in inglese si chiamano landmark, è un caso sui generis di cancel culture in senso lato. Le chiese neogotiche o neomedievali rappresentarono un tentativo di costruire edifici religiosi solenni in continuità con il glorioso passato medievale francese. La loro cancellazione per banali motivi di bilanci comunali in pareggio significa che per le amministrazioni locali e per i vescovi francesi la preservazione di quella continuità vale meno dei fondi necessari a manutenere un doccione o una guglia. Dunque nel caso della Francia forse non c’è un deliberato disegno di auto-genocidio culturale, ma il risultato che si ottiene è il medesimo. E probabilmente c’è chi sotto sotto se ne compiace.
Nel libro parlate anche della “scomoda eredità” dell’Italia, il fascismo e il colonialismo. Tuttavia oltre a questi fenomeni storici relativamente recenti, l’Italia ha un immenso patrimonio culturale – potenzialmente “offensivo” – da difendere. Cosa possono fare i comuni cittadini, i giornalisti, gli intellettuali e i politici per prevenire un’ondata italiana di iconoclastia?
Una volta ammesso il principio che il passato possa essere processato sulla base dei “sentimenti” del presente non c’è più un limite all’iconoclastia. Il fascismo o il colonialismo possono essere condannati dal presente per gli stessi motivi che possono portare a condannare il Risorgimento, l’età napoleonica, il Secolo di Ferro, il Rinascimento o il Medioevo, via via fino ai 10 secoli di Roma. Bisogna uscire dall’ottica che il presente deve “scusarsi” per qualcosa avvenuto nel passato. Bisogna rifiutare il concetto che il presente possa giudicare il passato. Dunque, politici, intellettuali, cittadini, tutti devono smettere di chiedere scusa, di denigrare il passato nazionale, gettar fango sulle nostre radici. Gli errori storici si studiano per evitare di ripeterli nel futuro, non per fare processi (anche perché, di tante epoche storiche dubito proprio che la nostra possa impartire qualsivoglia lezione a chi ci ha preceduto, senza esclusioni). Concretamente, i politici devono innanzitutto restituire al popolo la libertà di parola costituzionalmente sancita ma da anni calpestata dalle big tech di internet, dall’Unione Europea e dall’espansione dei “reati d’opinione”: la libertà di parola è il mezzo principale per costringere il wokeismo a combattere ad armi pari. Finora invece esso ha prevalso perché c’è un “arbitro cornuto” che distorce le regole a favore suo, imponendo doppi standard in cui se un wokeista insulta, deride, minaccia un conservatore, è “libertà d’espressione”; se un conservatore fa notare l’inconsistenza di una posizione woke, è un “discorso d’odio” e va bannato dai social, sottoposto a cancel culture, perfino perseguito penalmente. Riconquistare la libertà totale di espressione rimetterà su un piede di parità le posizioni woke con quelle di chi gli si oppone, e a quel punto si vedrà in un confronto onesto quale delle due ha più frecce dialettiche al suo arco: e lì saranno cavoli amari per un’ideologia che nega la realtà… Poi, i politici devono altresì sanzionare inesorabilmente chi deturpa i monumenti per “attivismo”, aprendo finestre di Overton con cui suggerire che “è in fin dei conti possibile” distruggere un bene storico perché una certa “sensibilità” lo ritiene giusto. Inoltre, concretamente, si può rendere indisponibile il patrimonio culturale, storico, paesaggistico, odonomastico e toponomastico alle amministrazioni locali: questo impedirà ai sindaci di ripetere operazioni come quella recentissima di Reggio Emilia, con la cancel culture contro Gabriele D’Annunzio per sostituirlo con un poeta sloveno. Il presente ha il dovere di tramandare al futuro un retaggio storico incrementato, non decurtato di ciò che alle fragili spallucce di certi individui risulta troppo gravoso. Finora si sono visti piccoli passi in questa direzione, come la proposta di inasprimento delle pene per il vandalismo, ma altre mosse- come la richiesta di cancel culture contro il maresciallo Tito – mostrano come il fronte conservatore, libertario, nazionale non abbia capito granché di come funziona la macchina di distruzione dell’identità e della storia del wokeismo. La cancel culture è come l’Anello di Sauron: non puoi impiegarla contro il nemico, perché tu stesso diventerai uno strumento del nemico. La cancel culture non può essere usata. Deve essere distrutta.