Caucaso meridionale, tra vecchie e nuove tensioni requiem per l’Artsakh?

Set 21, 2023

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Armenia reports new border clashes with Azerbaijan forces | Conflict News | Al Jazeera

Lontana dai riflettori, la crisi che investe il Caucaso meridionale continua a montare: nelle ultime settimane si sono intensificati gli attacchi azeri lungo il confine con l’Armenia, attacchi che hanno raggiunto il culmine lo scorso 1° settembre. In quella data l’esercito azero ha attaccato, anche con mortai e droni, alcune posizioni tenute dalle forze armene. Il bilancio registra tre caduti nelle fila armene, mentre non è noto il numero di morti e/o feriti da parte azera.

L’attacco ha investito posizioni dell’esercito di Erevan nei pressi dei villaggi di Sotk e Norbak, che si trovano a circa otto chilometri dal confine armeno-azero. Da notare che da mesi reparti azeri hanno occupato posizioni dominanti su monti e colline all’interno del territorio armeno, nel silenzio della comunità internazionale dinanzi alla violazione di un confine internazionalmente riconosciuto. In palese – ed imbarazzata – dimenticanza di quella dialettica fondata sul binomio aggressore/aggredito tanto in voga in questi mesi.

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Da mesi, tuttavia, si registra un vero e proprio stillicidio di piccoli attacchi e provocazioni. Il medesimo copione andato in scena per anni in Nagorno Karabakh, prima della guerra in campo aperto dell’autunno 2020 che ha consentito agli azeri di conquistare buona parte della repubblica armena di Artsakh, stato non riconosciuto che ha recentemente festeggiato il 32° anniversario dell’indipendenza. Anche se, in realtà, c’è poco da festeggiare in Nagorno Karabakh: da ormai da 276 giorni gli azeri, in violazione degli accordi per il cessate il fuoco mediati da Mosca nel novembre 2020 – bloccano il corridoio di Lachin, unica strada di collegamento tra l’Artsakh e l’Armenia.

Nella piccola repubblica la carenza di generi alimentari, carburante e medicinali – a seguito della chiusura delle linee di comunicazione con l’Armenia – ha prodotto una vera e propria crisi umanitaria. Ad oggi le timide mediazioni internazionali non hanno prodotto alcun risultato. Un solo convoglio umanitario della Croce Rossa russa ha raggiunto la capitale dell’Artsakh, ma non attraverso il corridoio di Lachin che resta – a dispetto degli accordi – ancora ben chiuso.

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Alla crisi umanitaria in Nagorno Karabakh si è aggiunta quella politica: il presidente Arayik Harutyunyan ha rassegnato le proprie dimissioni, sostituito da Samvel Shahmaranyan. Il nuovo presidente ha prestato giuramento dinanzi al parlamento karabakho lo scorso 11 settembre.

È di tutta evidenza come l’Azerbaigian stia capitalizzando al massimo la propria posizione di fornitore di gas e petrolio ai Paesi europei – tanto più dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina – e la “distrazione” forzata di Mosca dallo scenario caucasico per portare avanti, nel silenzio quasi totale delle cancellerie europee, una strategia finalizzata ad un obiettivo ormai più che evidente: il riassorbimento totale del Nagorno Karabakh nei confini azeri. E non solo: Baku mira apertamente ad una sostanziosa revisione – a proprio vantaggio, ovviamente – del confine armeno-azero riconosciuto internazionalmente dal 1991.

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Punto focale di questo processo “revisionista” è il corridoio di Zangezur, ovvero un collegamento diretto con l’exclave azera del Nakhichevan attraverso le regioni meridionali dell’Armenia, corridoio che consentirebbe di legare con una connessione terrestre Azerbaigian e Turchia. “Due Stati, una Nazione”, come ha detto in più di un’occasione il presidente turco Erdogan. Una strategia, quella di Baku, che non esclude il ricorso all’opzione militare, come testimonia il costante rafforzamento delle forze schierate lungo il confine con l’Armenia.

Altro aspetto da non tralasciare, il gioco di potenze che si dipana nel Caucaso meridionale, con gli Stati Uniti ben intenzionati ad espellere la Russia dall’Armenia, o quantomeno a ridurne drasticamente l’influenza nella regione. Il pressing diplomatico statunitense sul governo di Erevan guidato da Nikol Pashinyan – fortemente criticato in patria – si fa sempre più forte, puntando a proporre Washington come unico garante della sovranità armena. Garanzia labile, considerato che il ruolo di fornitore di gas e petrolio dell’Azerbaigian ai Paesi europei pone Baku nella comoda posizione di interlocutore privilegiato dell’Occidente nel Caucaso meridionale, con buona pace delle speranze di Pashinyan.

Difficilmente le manovre congiunte tra esercito armeno e statunitense iniziate lo scorso 11 settembre – poche centinaia di militari coinvolti – impressioneranno l’Azerbaigian, Paese che attualmente può contare su un esercito profondamente rinnovato e addestrato e su notevoli risorse per l’ammodernamento di mezzi ed arsenali.

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