Alle origini della Nazione italiana

Gen 25, 2024

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Il 17 Marzo 1860 vide luce, tra il bagliore degli ideali romantici e l’espansionismo piemontese, il figlio insperato di una terra riscattata dal sacrificio dei suoi martiri, liberatori – si diceva – di un popolo e del suo spirito, vessato da lunghi secoli di muto e inerte servaggio. La distanza tra propaganda e realtà non poteva essere più svilente. Sull’avvenire del neo-nato Regno d’Italia già gravava, invero, il peso enorme di un patrimonio spirituale ancora da definire, essendo la partecipazione al medesimo – l’italianità, appunto – un sentimento non ancora percepito con consapevolezza e, comunque, per effetto del corso assunto dagli avvenimenti storici, circoscritto alle sole popolazioni settentrionali.

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La condivisione da parte di quest’ultime, infatti, della bellicosa esperienza anti-austriaca, aveva ingenerato nelle medesime la predisposizione necessaria ad accogliere l’idea di una ricostruzione identitaria comune, influenzata, peraltro, dalle coeve palpitazioni patriottiche che animavano, ormai da tempo, gli Stati tedeschi. Tale predisposizione, al contrario, non aveva eco alcuna nel lontano Meridione come, del resto, nelle legazioni pontificie dell’Umbria e delle Marche (già annesse nel 1860), laddove, cioè, il (ri)congiungimento alla Patria – parola, quest’ultima, capace di suscitare la medesima reazione provocata da Carneade in don Abbondio – era stato imposto con la forza delle armi e l’avvenenza di proditorie promesse. Né, a tal proposito, con specifico riferimento ai caratteri assunti dalle vicende unitarie nel Regno delle due Sicilie, può essere utilmente eccepito il fervente entusiasmo manifestato all’arrivo delle camicie rosse, essendo, quest’ultimo, non già espressione di una limpida volontà di affratellamento, bensì il frutto acerbo delle illusioni fomentate dalle vestigia rivoluzionarie che mascheravano la reale natura della spedizione garibaldina.

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D’altronde, pur dovendosi ripudiare gli eccessi in cui spesso incappa la polemica revisionista, la lucida analisi di Francesco II di Borbone risulta difficile da contestare:

“Non sono i miei sudditi che mi hanno combattuto contro; non mi strappano il Regno le discordie intestine, ma mi vince l’ingiustificabile invasione di un nemico straniero. Le due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani del Piemonte. Che ha dato questa rivoluzione ai miei popoli di Napoli e di Sicilia? (Omissis) Lo stato di assedio regna nelle provincie ed un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli dei miei sudditi che non s’inchinano alla bandiera di Sardegna. (Omissis) Sparisce sotto i colpi dei vostri dominatori l’antica monarchia di Ruggiero e Carlo III; e le due Sicilie sono state dichiarate provincie di un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governati da Prefetti venuti da Torino.” (dal proclama reale ai popoli delle due Sicilie, 8 Dicembre 1860).

La centralità avuta dalle ambizioni espansionistiche piemontesi nella genesi storica del Regno d’Italia, dunque, aveva frapposto tra i cittadini e lo Stato un imponente vuoto spirituale, destinato a colmarsi soltanto a prezzo di feroci sofferenze. La gravità di tale situazione, acuita, comunque, dalla pervicacia del brigantaggio e dagli effetti sociali prodotti dal sacrilegio di Porta Pia, perdurò, accrescendosi, sino all’eccidio di Dogali (Gennaio 1887), evento cruciale per la storia d’Italia, poiché dotato di un impatto così traumatico da porre solide basi per la formazione di una coscienza nazionale. Il valoroso cameratismo che contraddistinse gli uomini del tenente-colonnello Federico de Cristoforis, compatti – come vuole la leggenda – nel rendere l’estremo saluto ai commilitoni caduti, pur imperversando il fatale assedio nemico, turbò profondamente la pubblica opinione, destando nella medesima sincera ammirazione per gli eroi della (nascitura) Nazione. Per quanto l’esigenza di condurre una politica imperialistica fosse oggetto di severe e sempre più crescenti critiche, un sentimento di protezione verso il suolo natio ed i suoi figli pervase l’intera società, indotta, di conseguenza, ad un’intensa maturazione quanto al suo modo di riconoscersi in valori unanimi.

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I successivi sviluppi della partecipazione alla zuffa per l’Africa, dalla fondazione della colonia di Eritrea (Gennaio 1890) sino alla conquista della Libia (Ottobre 1912), attraverso le sconfitte patite in territorio etiope tra il Dicembre del 1895 ed il Marzo dell’anno seguente, inasprendo il dibattito politico, alimentarono la riflessione sul concetto di Patria, pericolosamente esposto a quelle contaminazioni nazionalistiche che avrebbero condotto l’Europa, in seguito all’assassinio dell’ arciduca Francesco Ferdinando, su di un catastrofico sentiero di guerra. E proprio il coinvolgimento nel primo conflitto mondiale, con la sua dolorosa carica ideologica ed il suo particolare significato storico, plasmò l’essenza dell’italianità.

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La brutalità della vita in trincea e la pressante incombenza della minaccia austriaca imposero, infatti, un processo di unificazione spirituale dotato di energia così straripante da oltrepassare i confini del fronte e coinvolgere l’intero Paese, unitosi in ciò che rappresentarono le sponde del Piave, simbolo dell’invitta resistenza opposta allo straniero. Doveroso, a tal riguardo, è un breve accenno all’opera cinematografica “La Grande Guerra” che, attraverso le vicende del romano Oreste Jacovacci e del milanese Giovanni Busacca -l’indicazione della loro origine non è affatto superflua – ben racconta di come gli avvenimenti bellici del’ 15-18 abbiano potuto forgiare l’esistenza di un popolo, sanando le lacerazioni inflitte dal processo unitario. Il sangue e le lacrime versate negli estenuanti combattimenti avverso il nemico asburgico fornirono alla società quell’apporto emotivo di cui la medesima aveva bisogno per riconoscersi Nazione: con l’avvento della vittoria la quarta Italia-insoddisfatta ambizione dell’Ottocento-cessò di essere una sfortunata invenzione letteraria. L’alba era appena sorta. Sull’evoluzione dell’italiano, infatti, avrebbero inciso, nell’immediato dopoguerra, diversi fattori di crisi (tra cui, in un ruolo di prim’ordine, il diffuso malcontento sociale per la debolezza governativa) rafforzando le recondite radici di un istinto dall’aspetto catartico: il fascismo.

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