La redazine di Identitario ringrazia Il Primato Nazionale e Adriano Scianca per aver concesso la ripubblicazione di questo pezzo.
Secondo la leggenda, i fratelli Romolo e Remo, figli del dio della guerra, furono trovati dall’umile pastore Faustolo e da lui affidati alla moglie, Acca Larenzia, una donna che di mestiere faceva la “lupa”, cioè la prostituta. C’è quindi un’origine divina occultata, una matrice marziale obliata e macchiata temporaneamente dal meretricio che è racchiusa nel nome di quello slargo un po’ grigio che si apre fra i palazzoni del quartiere Tuscolano di Roma. C’è una storia in cui è inscritta l’effusione di sangue come destino necessario. E poi c’è la rinascita, l’alba della civiltà, il rito di fondazione. Nel nome di due fratelli.
Anche Franco e Francesco erano fratelli. Fratelli nella lotta. Il 7 gennaio del 1978, alle 18.20 del pomeriggio, Francesco e Franco furono falciati dal fuoco di un commando antifascista mentre uscivano dalla sede missina di via Acca Larenzia. Franco rimane ucciso sul colpo. Altri militanti, feriti, riescono a rientrare in sede. Francesco, invece tenta di trovare scampo sulla scalinata situata a lato dell’ingresso della sezione ma, inseguito dagli aggressori, viene colpito alla schiena e muore in ambulanza durante il trasporto in ospedale.
I Larentalia, detti anche Accalia, erano le festività romane dedicate ad Acca Larenzia, e cadevano il 23 dicembre di ogni anno. È il periodo freddo, oscuro, che però reca in sé la risorgenza della luce. Un nuovo ciclo rinasce, un nuovo sole illumina il cammino della civiltà. Giorno dopo giorno, la luce si riprende ciò che è sua. Quell’anno, però, la vittoria della luce fu oscurata e soffocata sul nascere, perché il viaggio al termine della notte non poteva terminare lì. Neanche quella giornata maledetta può finire lì. Nelle ore seguenti all’agguato, una folla di attivisti si ritrova davanti alla sezione. Un mozzicone di sigaretta gettato da un giornalista nel sangue rappreso sul terreno di una delle vittime crea dei tafferugli. Nei momenti convulsi che seguono, un capitano dei carabinieri mira ad altezza d’uomo. La sua arma si inceppa. L’ufficiale, allora, si fa consegnare la pistola dal suo attendente e spara di nuovo. Un terzo componente si aggiunge a quella fratellanza divina, a quella stirpe figlia di Marte e trascinata nella polvere: il suo nome è Stefano.
Quel giorno c’erano in tanti, in via Acca Larenzia. In seguito diranno che c’erano tutti, sulla scia di quella millanteria stracciona che dilagherà in mancanza di bardi, in attesa del tracollo definitivo dello stile nell’era dei social network. L’eco di quegli spari, tuttavia, lo sentiranno davvero tutti. Dei tre fratelli, due saranno uccisi dalla sovversione e uno dalla reazione. Nascerà su quel selciato il rancore nichilista figlio dell’accerchiamento. In seguito quell’accerchiamento diventerà idea fissa, ossessione, poi griglia mentale, infine alibi. Ma sul momento, sarà solo tragica realtà. Una cappa da cui uscire in qualunque modo, fosse anche facendosi largo frustando il mondo con la disperazione.
Alcuni mesi dopo l’accaduto, un signore si siede su una panchina e beve una bottiglia di acido muriatico, suicidandosi in modo atroce per raggiungere il suo Francesco, quel ragazzo falciato alle spalle, su una scalinata del quartiere Tuscolano. Ancora pochi mesi e Alberto, un ragazzino di 17 anni sceso in strada per ricordare i suoi fratelli, viene colpito da uno sparo. Di nuovo alle spalle, di nuovo dalle forze dell’ordine. La notte dura ancora. È ancora buio, è ancora nero. Poi, pian piano, si diraderà. E il nero lascerà posto al grigio. Non è più notte, non è ancora giorno. Grigio. Ancora grigio. Grigio…