La romanità come ideale antagonista

Mar 17, 2024

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Il bisogno di rintracciare, ovunque si trovino, validi elementi di contrasto nei confronti della globalizzazione imperante corrisponde alla possibilità che i nostri popoli abbiano ancora, oppure non abbiano più, un elementare diritto alla vita. Si tratta infatti del problema fondamentale, quello che decide dell’essere e del non-essere. Domanda: dove si trova un collante forte, un’idea-forza, un polo aggregativo alternativo al sistema mondiale, che è manifestamente basato sullo sfruttamento e lo sfiguramento delle nazioni? E dove può mai risiedere ancora un bagaglio di potenza creativa che abbia i mezzi immaginali e reali per opporsi all’attacco distruttivo in atto? L’Europa, ed in particolare l’Italia, hanno proprio in casa loro, tra le maglie della memoria così come del futuro possibile, lo strumento forte per attivare una reazione a catena di energie oppositive. La Romanità può ben rappresentare, in questo senso, il contro-cartello popolare, da schierare come arma ben appuntita contro la direzione nichilista che è propria della governance planetaria. Si tratta di qualcosa che ha in sé la capacità di costruire un modello di contrapposizione frontale, disponendo di un retroterra di cultura, di cultura politica, di socialità e di antropologia che non può conoscere flessione. Ciò che stiamo vivendo in questo frangente storico ha la portata della prova decisiva. Quest’epoca richiede una risposta recisa alla domanda di vita, che è implicita nella lacerante e violenta disgregazione cui i popoli sono sottoposti. E dunque il popolo può e deve trovare in sé, nella sua storia, nella sua tradizione, nella sua anima, la risposta che cerca. Quello della Romanità è un simbolo perenne che ogni volta attende soltanto che una volontà politica lo riattivi, secondo le vie dell’attualità e del realismo.

In un altro frangente storico – ma, a ben guardare, non poi così diverso dall’attuale – un poeta e uomo d’arme, ad un tempo idealista e realista, agli uomini del nostro popolo poté chiedere: «Continuerete a permettere la dipendenza del potere politico dall’alta banca meticcia al servizio dello straniero, come quando l’uomo che qui non si nomina riduceva la nostra vita pubblica a un commercio furtivo tra le sue clientele ignobili e la degenerazione parlamentare?». Adesso, mentre altri uomini, che qui ugualmente non si nominano, stanno predisponendo la servitù e la miseria morale e materiale per le generazioni presenti e le future, proprio adesso l’antica domanda di D’Annunzio torna quanto mai urgente ed attualissima: continueremo a permettere “la dipendenza del potere politico dall’alta banca meticcia al servizio dello straniero?” E continueremo ad assistere al furto della ricchezza dei popoli ad opera di “clientele ignobili” e grazie alla “degenerazione parlamentare”? Se mai l’Europa e il mondo hanno conosciuto un’epoca in cui la politìa, la cura del benessere della comunità, era sulla vetta del convivere entro una comunità solidale, quest’epoca fu quella di Roma e della sua Res publica, fu Roma con il suo Imperium. Quello secolare non meno di quello interiore. E questo dato è realtà di storia, un luogo in cui non entrano le retoriche. In quello stesso scritto dannunziano – vogliamo dire Il sudore di sangue, risalente al 1919 – l’Orbo Veggente (autentico monocolo odinico di tradizione nordico-romana, con chakras indoeuropei sparsi in tutto il suo corpo di sciamano…) sferzava l’animo del popolo sottoponendogli la questione della volontà di vita, con parole che noi oggi possiamo tranquillamente sottoscrivere come urgenti e veritiere anche ai nostri giorni: «Se il popolo italiano avesse l’ardire di trapassare senza esitazioni e senza conciliazioni, da un regime rappresentativo bugiardo a una forma di rappresentanza sincera che rivelasse e innalzasse i produttori sinceri della ricchezza nazionale contro i parassiti e gli inetti dell’odiosa casta politica non emendabile, le sette e sette vittorie dell’Alpe, del Carso e del Piano impallidirebbero davanti a questa meravigliosa vittoria civile». Cos’altro aggiungere? Noi oggi vogliamo questa “meravigliosa vittoria civile” sui parassiti e sugli inetti, e la vogliamo attraverso la ricostruzione del mito fondante della nostra storia e della nostra identità, un mito di popolo che non è soltanto nazionale, ma universale, cioè dato una volta per tutte e per ogni epoca.

La Romanità, nostro scrigno di nazione e di popolo, è valore universale: non universalista in senso cosmopolitico, beninteso, ma universale in senso di eterna e intemporale tavola dei valori, sistema interno all’idea di potere e di potenza grazie a cui si è costruita tutta intera l’Europa. L’Imperium e la Res publica sono realtà possibili ogni volta che lo si voglia. Poiché significano essenzialmente comunità di popolo, onore sociale, concordia fra produttori di ogni rango, sinergia di volontà convergenti tese all’unico scopo per cui valga la pena di vivere: la gloria del buon convivere nella casa comune, in viventi categorie di nobiltà. Comunità di lotta è essenzialmente Roma: la vita deve essere difesa, la propria specificità deve essere salvaguardata, l’identità preziosa deve essere protetta con tutti i mezzi. La sovranità del populus romanus è legittimità assoluta, al di sotto della quale tutti i poteri convergono. In questo quadro, l’uguaglianza di diritto non è che la base della gerarchia, poiché essere di uguale dignità come cittadini a Roma vuol dire, allo stesso tempo, essere diversi come uomini e come ruoli. Ranghi diversificati, ma un unico onore sociale, scaturito dall’appartenenza al medesimo populus. All’interno di questa simmetria, si attua ciò che il grande latinista Wilamowitz-Moellendorff definiva “uguaglianza geometrica”: «la collettività civica era suddivisa in categorie egualitarie ma gerarchiche». In questo modo, il verticale e l’orizzontale erano avvinti l’uno all’altro, la catena di comando era un tutt’uno con la base di massa del popolo, e ciò che si otteneva era l’idea esclusiva di cittadinanza: un privilegio, e non un diritto astratto. 

L’idea di giustizia sociale vigente a Roma si fondava sull’assemblea popolare, sulla possibilità di denunciare gli abusi della magistratura – la provocatio ad populum, istituto assente nelle moderne democrazie parlamentari… –, sulla facoltà di legiferare da parte dei comizi, così da attuare il senso pieno della “democrazia assembleare” fondata sulla gerarchia carismatica. Da Menenio Agrippa ai Gracchi, da Mario a Cesare, Roma è incardinata sul potere del popolo rappresentato dalla guida potente uscita dai suoi ranghi. Ciò, lungi dall’essere soltanto espressione politica, era anche e soprattutto realtà sacrale. La Origo populi romani era l’atto metafisico di una nascita enigmatica e numinosa, in relazione stretta con i voleri di natura e di destino. L’origine, lo stigma iniziale che reca i caratteri distintivi, a Roma è mito affabulante, ma soprattutto è realtà antropologica. Per questo, e soltanto per questo, il diritto di cittadinanza era ristretto agli omologhi: esso integrava i simili, ma dis-integrava i dissimili. Fino a Caracalla, col cui editto di cittadinanza indiscriminata l’Impero conobbe lo scollamento nefasto dai suoi principi fondanti, la Romanità rimase un modello universale di società e di dominio, ma gestito dal nucleo forte italico, allargato al suo massimo alle integrazioni dei popoli celti o germanici, tutti comunque interni alla famiglia indoeuropea. Ciò che, ad esempio, fece Cesare, assimilando la nobiltà celtica delle Gallie facendola accedere alla cittadinanza e persino alla carica senatoria, aveva l’evidente significato di una integrazione di minoranze ormai largamente romanizzate. L’universalismo, in questo modo, riguardava non l’universo planetario generico, ma l’universo imperiale specifico. 

Quando Max Pohlenz – ancora nel 1947 – affermava che l’uomo greco non è un’idea romantica ma «un fenomeno biologico storicamente dato», sapeva quel che diceva. Lo studioso tedesco, una volta di più, inseriva l’antropologia nella storia e nella storia politica, secondo un’antica direttrice, che andava da Teognide a Platone. Allo stesso modo, noi possiamo parlare della Romanità – intesa quale destino europeo – come di una realtà biologica che include i retaggi psichici e culturali, etnici e sociali dei popoli autoctoni del Vecchio Continente. L’uomo romano, dunque, può essere ancora oggi considerato un “tipo”, un archetipo: il simbolo di un metodo, che è quello del civis, l’uomo libero vivente in una comunità di popolo padrona del proprio volere storico. Non per caso, si è potuto parlare del ciclo antico come di un’unica civiltà unificata, l’Impero greco-romano. 

Questa ecumene imperiale viveva di gerarchia e di solidale unanimismo. La si direbbe una democrazia aristocratico-plebiscitaria, un dominio gestito da un nucleo-guida totalitario attorno al quale si saldano specificità diverse, mai messe in pericolo di omologazione, ma sempre tutelate proprio nelle loro variabili diversificanti. Paul Veyne, nel suo studio sull’Impero greco-romano, ha scritto infatti di una «concezione romana di trasmissione aristocratica» incentrata su un diritto «sempre avallato dal consenso unanime del popolo di Roma durante i comizi, dal Senato e dall’esercito». Un sistema repubblicano che ebbe a continuarsi anche in epoca imperiale, quando l’imperatore, prescelto all’interno della dinastia sovrana, veniva eletto per acclamazione, appunto plebiscitariamente, e certamente ignorando le moderne dinamiche parlamentariste di maggioranza-minoranza, e dunque applicando in pieno il metodo popolare-totalitario: «La successione padre-figlio deve essere sancita dal popolo romano tanto quanto l’ascesa di un generale al rango di capo delle sue legioni». Questi aspetti della partecipazione del popolo alla gerarchia decisionista ha fatto parlare di militanza dei cittadini, un retaggio che Roma riprese dalla Grecia, «che è stato il tacito presupposto – come ha precisato Veyne – di tutta la politica antica e che è valsa a Platone, da Benjamin Constant in poi, la reputazione di totalitario». I diritti, nella polis come nell’Imperium, sono collettivi e riguardano la comunità politica nel suo insieme, poiché «nessuno Stato antico ha mai sviluppato l’idea che singoli individui avessero dei diritti». Questa trovata moderna dei liberali sui diritti individuali non ha spazio laddove prevale la realtà comunitarista e l’individuo è tenuto a far prevalere l’interesse collettivo sul proprio.

La comunità imperiale di cui la Romanità fu esemplare realizzazione costituiva un polo di aggregazione a livello sociale, politico ed economico. Essa – la communitas perfectissima di dantesca memoria – è un contesto in grado di assemblare le varie componenti, armonizzandole e disponendole come elementi tutti essenziali al comune vantaggio. Come ha scritto Schmitt, la comunità imperiale tradizionale esprime una «particolare unità in grado di assicurare la pace e la giustizia tra le comunità autarchiche» che ne fanno parte. Poiché l’autarchia, cioè l’essere spazio politico fine a se stesso, indipendente nella dimensione del suo potere politico, e il non dipendere dal ricatto delle politiche e delle economie mondialiste, è un dato caratteristico della visione imperiale: e la Romanità, saldando le diverse aree etniche ed economiche in un blocco unico, costituisce per definizione proprio la realizzazione dell’indipendenza della politica dall’economia. All’interno della comunità romana e/o romanizzata vigeva la legge superiore dell’armonia differenziata che vive al disotto della guida politica. Un valore che è universale e, come tale, oggi si presenta, non meno di ieri, quanto mai adatto a sfuggire alle implicazioni egualitariste del cosmopolitismo, che basa i suoi fondamenti sulla considerazione che un popolo vale l’altro, che una cultura unica per tutti è l’ideale mondiale, che l’appiattimento delle differenze nel modello unico universalista è l’obiettivo massimo perseguibile dal progresso.

L’appiattimento universalistico che oggi è imposto con le buone o con le cattive rappresenta la perversione della post-modernità. A questo disegno si oppone il mondo dei valori di legame e delle tradizioni nazionali, un patrimonio che le nazioni europee hanno conosciuto con la civiltà imperiale del passato. Dell’idea di Impero come universo che unisce popoli diversi ma dalla storia e della cultura comuni, resi omogenei dalla consimile specificità etnica e destinale, di questa idea antagonista al cosmopolitismo il nome di Roma è massima epitome. Il concetto di Romanità richiama un modello di unificazione di varie specificità all’interno di un sistema comune ed accomunante. Questa, in fondo, può essere la risposta credibile che l’Europa – che della Romanità è erede diretta – può e deve dare al tentativo dell’internazionalismo apolide di soffocare le identità di popolo nel calderone globalizzato.