La redazione di Identitario ringrazia gli amici del Centro Studi Primo Articolo, che hanno gentilmente concesso la ripubblicazione di questo articolo di Roberto Giacomelli.
Nel processo di sistematica distruzione della Comunità l’attacco all’identità riveste un ruolo primario, distruggere la percezione del sé, potente strategia per indebolire le menti, renderle docili e sottomesse.
Il senso di sé si evidenzia tra i primi 15 e i 20 mesi di vita, quando il bimbo riconosce la sua immagine nello specchio e percepisce per la prima volta la sua unicità.
Questa nuova sensazione comporta il concetto fondamentale del limite, che nell’essere umano è la pelle, esteso organo di senso, che separa l’individuo dal resto della realtà.
Annullare questa naturale distinzione tra il sé e l’altro annichilisce le facoltà mentali riducendo gli esseri umani a soggetti indefiniti e senza confine fisico, facilmente manipolabili.
Un’umanità dolente senz’anima, schiavi di pulsioni elementari come il consumo e le dipendenze, privi di idee e valori, deprivati di gusti e volontà. I consumatori della nostra epoca irretiti dal miraggio della materia, ridotti a divoratori compulsivi di cibi spazzatura e acquirenti seriali di oggetti brutti e inutili.
La destrutturazione dell’identità annulla l’unicità di ogni essere umano riducendolo ad atomo di una massa informe.
Il livellamento globale mira alla massificazione per meglio dominare e asservire i popoli ridotti a un coacervo indistinto di individui senza personalità come i numeri di una lista infinita; strategia che stravolge le caratteristiche naturali, perché non esiste un essere umano senza limiti e confini, come non ci sono alberi senza radici.
Preservare l’identità è difendere la propria unicità dividendosi dall’altro, soprattutto se estraneo, escludendo usi e tradizioni incompatibili con il sentire della propria comunità. Le differenze e le peculiarità delle culture vanno protette e rispettate per l’equilibrio mentale dei popoli, la realtà dimostra che gli innesti innaturali generano disagio psichico e violenza.
Le convivenze forzate tra etnie, tra autoctoni rassegnati e persone sradicate da patrie lontane non portano fruttuose sintesi culturali, ma sofferenza e devianza: distinguere il sé dall’altro è la difesa dalla sostituzione dei popoli causa del meticciato distruttore di folklore e tradizioni, dinamica funzionale solo al grande capitale cosmopolita.
Essere tutti eguali, tutti più poveri, tutti consumatori compulsivi, non favorisce l’armonia tra i popoli, ma solo lo sfruttamento intensivo delle loro risorse.
Il feticismo della tolleranza intriso di buonismo e pietismo a buon mercato è ipocrisia e frode, nessun popolo ne trae beneficio, al contrario delle élites economiche che dominano il mondo.
Il Pensiero Unico sopprime le razze, la famiglia, i sessi, le lingue e le tradizioni per distruggere l’identità e le comunità.
Gli indoeuropei non sono il frutto di mescolanza di popoli diversi, ma l’unione di ceppi etnici dallo stesso DNA e dalle lingue comuni, cacciatori e raccoglitori delle regioni occidentali europee, agricoltori dell’Asia Minore e cavalieri delle steppe russe. I sessi non sono il costrutto culturale della fluidità, ma realtà biologica incontrovertibile basata sugli eterosomi, quei cromosomi che determinano l’essere maschio o femmina. La famiglia tradizionale tramanda la memoria e l’identità, il cui frutto è la naturale trasmissione di principi eterni ed immutabili. I valori familiari, il culto degli avi, la spiritualità della stirpe, la storia della discendenza e della Patria terra dei padri. La dissoluzione dell’identità provoca il Disturbo Dissociativo di Identità, la presenza in un unico soggetto di personalità multiple che si manifestano in tempi diversi.
Proteggere l’identità è fattore di centratura psichica ed equilibrio mentale, condizione indispensabile per relazioni sane e vita sociale virtuosa.
Chi difende la propria identità non ama il passato, non soffre di nostalgie patologiche: aspira all’eternità.