Questo articolo, di Marco Maculotti, è frutto della collaborazione di identitario.org con Axis Mundi, che ringraziamo.
114 anni fa, il 13 marzo del 1907 [l’articolo originale è stato pubblicato il 13 marzo 2021, NdR], nasceva a Bucarest Mircea Eliade. Per l’occasione, spendiamo due parole sul libretto recentemente pubblicato dalle Edizioni Bietti per la collana “Minima Letteraria”, in cui si possono leggere quattro interviste al più importante storico delle religioni del XX secolo rilasciate rispettivamente a Jean Varenne, Alain de Benoist, Fausto Gianfranceschi e Alfredo Cattabiani, negli anni ’70 e ’80.
[…] credo che, più di qualsiasi altra disciplina, la storia delle religioni prepari i nostri contemporanei a diventare “cittadini del mondo”.
Mircea Eliade, Miti delle origini e ritmi cosmici. Conversazioni 1973 – 1984, p. 30
Su queste pagine [di Axis Munidi, NdR] abbiamo spesso citato Mircea Eliade e diverse volte mi è stato domandato quali fossero i testi più adatti (non eccessivamente “avanzati”) per avvicinarsi alla sua opera saggistica. Il sacro e il profano e Il mito dell’eterno ritorno, alquanto significativi a livello di mitopoietica eliadiana eppure agevoli da leggere, possono essere ottime scelte per iniziare, così come La nostalgia delle origini. Ma l’Eliade mitografo emerge limpidamente anche dalle interviste a cui si è sottoposto negli anni, come quella splendida e ricchissima di spunti pubblicata in Italia con il titolo La prova del labirinto.
Mancava però — almeno che io sappia — una pubblicazione più snella riguardante questo genere, e di recente Bietti Edizioni hanno colmato la lacuna pubblicando, per la collana “Minima Letteraria”, Mircea Eliade. Miti delle origini e ritmi cosmici. Conversazioni 1973 – 1984, per la curatela di Horia Corneliu Cicortas e Andrea Scarabelli. Questo libretto contiene quattro interviste fatte nel giro di una decade allo storico delle religioni romeno, nelle quali le domande vengono poste rispettivamente da Jean Varenne (indologo e storico delle religioni asiatiche), Alain de Benoist (filosofo e giornalista), Fausto Gianfranceschi (giornalista e scrittore) e Alfredo Cattabiani (studioso di folklore ed editore).
Conversazioni 1973 – 1984, considerando la settantina di pagine standard per le pubblicazioni di questa collana editoriale, è una lettura veloce, che si può completare agevolmente in un’ora o due. Tuttavia, ogni singola frase sottintende decenni di ricerca e di questi ne è in qualche modo il risultato, il succo, l’estratto. Ogni osservazione è quasi una rivelazione, che non sorprenderà forse chi Eliade lo conosce per aver già letto le sue opere, ma per i non addetti ai lavori potrebbe essere addirittura scioccante. «A dominare in questi quattro colloqui», anticipano i curatori nella premessa, «sono le dottrine fondamentali di Eliade, dalla vigenza del sacro alla valenza originaria del mito, dalla necessità di far dialogare le culture al valore della storia delle religioni, dalla denuncia della desacralizzazione al sorgere di “nuovi miti”» (p. 12).
Si può partire per esempio dalla disamina sulla religiosità cosmica, che Eliade riconobbe persino in certe forme di cristianesimo, perlopiù rurale e connesso ai cicli delle stagioni (ne ha parlato soprattutto nei suoi saggi dedicati alla tradizione romena, pubblicati in Italia da Astrolabio col titolo Da Zalmoxis a Gengis Khan):
quella che io chiamo religione (o religiosità) cosmica, vale a dire che il sacro vi si manifesta tramite il sentore umano dei ritmi cosmici. (p. 19)
Dal Paleolitico al Neolitico, fino alle eresie gnostiche e manichee e poi al folklore medievale, Eliade registra le tracce di un culto sommerso e rimasto in qualche modo vivo, in maniera sotterranea, persino negli ultimi secoli, in quanto sebbene «respinta dal giudaismo, la religiosità cosmica esiste sempre» (p. 43). Dall’altra parte, individua il mito escatologico marxista-comunista della fine dei tempi come intimamente connesso al «profetismo millenaristico giudeo-cristiano»: «una sorta di parodia profana del mito dell’Età dell’Oro», culminante in una «”battaglia finale” escatologica, seguita da uno stato paradisiaco (la “società senza classi”)» (pp. 44-45) — una tematica che aveva già affrontato nelle due raccolte di saggi I miti del mondo moderno e Occultismo, stregoneria e mode culturali. In questo modo, Eliade voleva dimostrare come anche le correnti ideologiche dichiaratamente anti-religiose fossero in ultima analisi fondate su una visione para-religiosa, per quanto i loro accoliti lo ignorassero e perseguitassero non solo gli uomini di chiesa ma persino gli studiosi di storia delle religioni, da essi visti con sospetto.
In aggiunta, alla luce di queste osservazioni, forse si comprende meglio la fuga di Eliade dall’amata patria, inglobata nel blocco sovietico a partire dal 1947. Il regime comunista di Ceaușescu fu rovesciato dalla rivoluzione romena solo nel 1989, tre anni dopo la morte di Eliade avvenuta nell’aprile del 1986. Per mezzo secolo visse da esule, tra la Francia e gli Stati Uniti — destino condiviso da un’altra mente eccelsa della giovane generazione romena del secondo dopoguerra, il suo amico Emil Cioran, e poi dall’allievo Ioan Petru Culianu. Qua a là nelle interviste qui raccolte, nondimeno, vengono nominati altri luoghi dell’anima dello studioso: dall’India in cui trascorse un periodo in gioventù all’Italia rinascimentale, soprattutto la Firenze di Papini, per studiare il quale imparò durante gli anni universitari la nostra lingua.
Mircea Eliade è paragonabile al solo Jung nell’ottica dell’incidenza sulla nozione collettiva del Sacro e della sacralità: similmente al celebre psicologo svizzero anche lui aveva compreso che la storia delle religioni, a lungo relegata ai soli teologi, è invece «una disciplina totale, i cui sviluppi influenzano aspetti della psicologia, della sociologia e dell’etnologia» (p. 39), come è lui stesso a sottolineare nell’intervista a de Benoist. E in quella a Varenne afferma:
La coscienza dell’esistenza di un mondo reale e significativo è intimamente legata alla scoperta del sacro. Attraverso l’esperienza del sacro, la mente umana coglie la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e significativo, e quanto è sprovvisto di tali qualità, vale a dire il flusso caotico e periglioso delle cose, la loro comparsa e scomparsa casuale e priva di senso. Voglio dire che il sacro è un elemento nella struttura della coscienza, e non uno stadio nella storia della coscienza stessa. (p. 27)
Vivere con una mentalità religiosa — o meglio sarebbe dire sacrale — non è per Eliade indispensabile solo per dare un senso alla propria esistenza, ma soprattutto e in primo luogo per accorgersi della sacralità della vita in tutte le sue forme, per saperla scorgere e per sapersi immergere in essa, per potersi elevare dal flusso caotico e periglioso delle cose. Così, in parte riprendendo le teorie di Ernesto De Martino, afferma che «un miracolo è riconoscibile soltanto da chi vive in una dimensione sacrale e partecipa della religione in cui esso si compie» e che «per gli altri è irriconoscibile»; ma appena dopo, spingendosi di molto oltre l’antropologia di stampo razionalistico del collega, chiosa sibillinamente rilevando che «il sacro è evidente per chi sa vederlo e assente per chi non lo vede», perché esso è «a un tempo camuffato e manifestato negli oggetti» (p. 62).
Con queste premesse Eliade poté affermare, nell’intervista a Varenne, che «tutte le crisi dell’uomo moderno hanno un’origine religiosa, molto semplicemente perché una crisi è anzitutto la presa di coscienza di un’assenza di senso» (p. 31). Specularmente nello scambio di battute con Cattabiani esprime la certezza che «l’uomo è tale soltanto in quanto crede e vive in qualcosa di significativo, che non appartiene alla vita quotidiana», e che «la perdita della sacralità conduce invece all’angoscia di fronte allo scorrere banale dell’esistenza» (p. 63). Pur nella consapevolezza di vivere in un mondo sempre più desacralizzato, è lui stesso a chiosare avanzando l’ipotesi che proprio
nel profondo di questo processo di desacralizzazione potrebbe celarsi il seme di un nuovo tipo di sacralità. Io ho fiducia nella potenza creatrice dello spirito, nella libertà dell’uomo. L’esigenza del sacro non è sradicabile, e può affiorare, come avvenne con la generazione degli hippies, in una nostalgia del paradiso: che altro poteva significare la loro fuga dalla società, dalle istituzioni, il tentativo di vivere in comunione con i ritmi del cosmo, rifiutando di lavorare per denaro? Essi, pur ignorando o rifiutando le norme religiose istituzionali, tradivano con il loro comportamento una nostalgia del sacro, del paradiso. (p. 64)
In chiusura di queste brevi note si può rilevare, se non altro, come il punto di vista di Eliade negli ultimi anni di vita fosse molto meno pessimista rispetto alle inquietudini dell’immediato dopoguerra, vergate sia nella saggista (Il mito dell’eterno ritorno) che nella corrispondenza privata (si veda a riguardo l’articolo dedicato al suo scambio epistolare con il già menzionato Cioran). O forse, se non proprio ottimista, quantomeno disincantato. L’intervista rilasciata a de Benoist, datata 1979, si conclude con queste parole:
Non sono pessimista, poiché non credo a un determinismo assoluto. Oggi la civiltà occidentale si sta trasformando in modo considerevole. Gli europei hanno perso il proprio complesso di superiorità. Spero che questo non ci faccia cadere, viceversa, in un complesso d’inferiorità. Da un certo punto di vista, al giorno d’oggi la nostra civiltà ha più possibilità di rinnovarsi di quante non ne abbia mai avute prima. E poi, non si esce mai dalla storia. È possibile evadere da essa solo tramite lo spirito. (p. 46)