Ottaviano Augusto: la vita come militia

Apr 30, 2025

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Quando si parla di imperatori filosofi, si pensa immediatamente a Marco Aurelio la cui indole riflessiva emerge nelle prime scene de “Il Gladiatore” come dalle pagine dei suoi “Pensieri”.

Eppure, il primo fra tutti fu proprio Giulio Cesare Ottaviano, meglio conosciuto come “Augusto”.

Gaio Ottavio Turino – questo era in origine il suo nome – aveva un’indole piuttosto ribelle ed il suo prozio Giulio Cesare, allora, fece in modo che gli fosse impartita un’educazione filosofica.

Il luogo prescelto fu Apollonia, presidio militare e centro di studi nell’Epiro, definita da Cicerone “urbs magna et gravis” (città grande ed importante).

Centrale fu il ruolo dei due precettori, Atenodoro ed Ario Didimo i quali forgiarono il carattere di quel ragazzo su cui Cesare riponeva grandi speranze.

Giunsero le Idi di marzo: assassinato Cesare che era in procinto di intraprendere una grandiosa spedizione militare ad Oriente contro i Parti, Ottavio tornò in Italia e, una volta sbarcato, apprese di essere stato designato da Cesare stesso come suo erede.

È a quel punto che egli decise di compiere un voto al dio Marte: punire i cesaricidi, vendicando l’empio omicidio da loro commesso.

I primi due paragrafi delle memorie augustee, le “Res gestae”, descrivono questo avvenimento: “All’età di diciannove anni, con mia personale decisione e a mie spese personali costituii un esercito con il quale restituii a libertà la repubblica oppressa da una fazione (…) Cacciai in esilio gli assassini di mio padre, punendo il loro crimine con sentenze legittime (…)”.

Eppure, tutto ciò parrebbe in netto contrasto con l’etica stoica che propugna il controllo delle passioni tra cui l’ira. In realtà, l’intento era di condurre un “bellum iustum”, ossia una guerra giusta sia per ripagare il torto subito a livello familiare sia per salvare l’ordinamento dello Stato.

Ciò non vuol dire che Augusto sia giunto al potere lealmente, ma del resto nessuno dei suoi avversari lo fu né poteva esserlo in un’epoca dove la vita umana non aveva il valore intrinseco attribuitole oggi.

Indubbia, al contempo, è l’influenza profonda che i postulati umanitari ed etici dello stoicismo ebbero sul modo di pensare e di agire del primo imperatore di Roma.

Una parola che ben descrive il suo principato è “clemenza”, da non confondere con il mero pietismo.

Il principe, come il vero sapiente, per un verso non doveva indulgere al lassismo e, per l’altro, poteva essere mite, se le circostanze lo rendevano opportuno.

Emblematico è il passo virgiliano dell’Eneide: “Parcere subiectis et debellare superbos” (“Risparmiare i vinti e debellare i superbi”).

Il significato è chiaro: è giusto mostrare clemenza, ma mai verso coloro i quali minacciano l’ordine statuale ed il bene pubblico e, comunque, non bisogna mai punire con eccessiva crudeltà affinché la pena sia espiata anche con fini pedagogici.

Il vero capo, insomma, non è colui che si abbandona agli impulsi, ma al contrario è chi riesce a domarli, sottoponendosi ad un addestramento continuo per quell’ardua lotta che è la vita.

Non a caso, il motto che Augusto soleva ripetere, a se stesso e agli altri, era “σπεῦδε βραδέως” (“Affrettati lentamente”), ritenendo che i traguardi più ambiziosi andassero perseguiti, bilanciando con attenzione tra lo sforzo richiesto da un lato e, dall’altro, i possibili vantaggi e svantaggi.

Inoltre, ogni azione poteva dirsi moralmente giusta, solo se finalizzata alla cura dell’interesse generale, quindi della res publica.

Il princeps doveva essere per i governati un esempio di fortitudo e constantia: rispettivamente grandezza d’animo, funzionale all’utilità dello Stato, ed imperturbabilità di fronte alle passioni ed ai rovesci della fortuna.

La vita dell’uomo, come quella del filosofo, è militia ed Augusto incarnò questo principio alla lettera, montando la guardia come una sentinella ed adempiendo ai suoi doveri pubblici dai quali promana il concetto di “statio principis”.

Instancabile e probo, Augusto seguì nel dettaglio i cambiamenti istituzioni, economici e sociali di quella sua meravigliosa creatura che fu l’Impero romano.

Nella “Storia di Roma” del IV secolo d.C. Eutropio riferisce: “Difficilmente infatti qualcuno fu uomo di maggior successo in guerra o più misurato di lui in pace. Nei quarantaquattro anni nei quali amministrò da solo il potere visse in modo assai rispettoso verso i cittadini, e si dimostrò molto generoso verso tutti e molto leale verso gli amici (…) In nessun periodo prima di lui lo Stato romano fu più fiorente”.

L’agire virtuoso di Augusto fu traslato in grandiosi piani architettonici.

Marco Vipsanio Agrippa, suo fidato braccio destro e poi genero, tra il 27 ed il 25 a.C. si fece promotore della costruzione del Pantheon, tempio dedicato a tutti gli dei dell’Olimpo.

Nel 9 a.C. fu eretta l’Ara pacis al fine di celebrare la ritrovata concordia in tutto l’Impero.

Si pensi ancora all’Horologium Augusti, un’enorme meridiana il cui gnomone era costituito dallo stesso obelisco egizio che oggi campeggia in Piazza Montecitorio.

Infine, fu edificato il suo Mausoleo per custodirne le spoglie e proprio davanti all’ingresso furono collocate le tavole di bronzo sulle quali erano incise le “Res gestae”.

Era il compimento della Storia e della missione fatale di Roma, civilizzatrice dell’orbe.

Bibliografia

[1] Fabio Fernicola, “Augusto lo stoico”, Dielle editore, 2020

[2] Ottaviano Augusto, “Res gestae”, Oscar classici Mondadori, 2020

[3] Eutropio, “Storia di Roma”, Rusconi Libri, 2018