L’individualismo come matrice di ogni degenerazione

Gen 22, 2025

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Nell’opera Etica Nicomachea Aristotele descrive le virtù, che rappresentano il giusto mezzo tra due estremi. Il coraggio, per esempio, è la giusta via tra la viltà e la temerarietà. In effetti, il vile è colui che ambisce alla preservazione di sé a tutti costi, tanto da sfociare nella mollezza, mentre il temerario è colui che volontariamente ricerca il pericolo e mette a rischio senza motivo la propria incolumità. Il giusto, invece, è colui che non ha paura di affrontare situazioni rischiose e pericolose, se ciò serve alla difesa della giustizia e della verità.

Aristotele: filosofia e pensiero antico del filosofo

Stesso ragionamento vale per la magnanimità. Tra il vanitoso e l’umile(colui che in modo spesso forzato sottovaluta le sue capacità), la giusta misura è il magnanimo, colui che sa valorizzare se stesso, ma per raggiungere un obiettivo, per operare secondo virtù. In effetti, in che modo si può fare il bene se non si ama se stessi oppure se tutto si fa per accrescere il proprio ego? Non diverso il ragionamento da attuare in ambito economico. La liberalità ( che nulla c’entra con l’uso che di tale termine fanno i liberali), è infatti la giusta misura tra l’avarizia e la prodigalità. E non per caso Aristotele definisce liberalità la capacità di usare i propri mezzi con parsimonia, senza sfociare nell’ossessione dell’accumulo o nell’ossessione dello sfarzo. Libero è l’uomo che può agire sulla realtà senza essere schiavo o prigioniero di alcuna contingenza esterna.

Evidentemente sia l’avaro che il prodigo sono schiavi di passioni e pulsioni esterne, le più materiali, che non permettono loro di agire con rettitudine. L’avaro sarà condizionato nella sua intera esistenza dal denaro ,il prodigo da qualsiasi piacere che col denaro è in grado di procurarsi o dall’approvazione degli altri, facendo tutto il possibile per conquistarli con le proprie risorse. Tante altre sono le virtù, come per esempio la mitezza, i cui estremi sono l’ira e l’Indolenza, peccati collocati da Dante, il quale era un grande studioso di Aristotele, nello stesso girone infernale, proprio come in un altro girone insieme collocò gli avari e i prodighi. In seguito all’esposizione delle varie virtù, Aristotele giunge a descrivere la più importante di tutte, che queste racchiude, ovvero la Giustizia. Ciascuna virtù, come mezzo tra due estremi, è contenuta nell’asse centrale della giustizia, ergo, soltanto chi non pratica la Giustizia, può abbandonarsi agli estremi. Da quanto fin qui esposto cosa è possibile dedurre? Da una parte la profonda organicità del pensiero aristotelico.

Se tutte le virtù non sono isolate, ma partecipano della virtù più grande che esse contiene, evidentemente il presupposto del tutto non può che essere l’organicità, quindi l’equilibrio tra le parti. Ciò ci aiuta anche a comprendere cosa nell’etica greco-romana si intendeva per misura, come modus. I famosi proverbi latini, evidentemente in continuità con la tradizione greca, “in medio stat virtus” e “est modus in rebus”, non significano ciò che i moderni intendono per moderazione, ovvero compromesso, ambiguità, soprattutto quando si parla di politica, significano invece essere pienamente presenti a se stessi, essere perfettamente integrati in un sistema che non permette eccessi che possano compromettere l’armonia generale. I valori supremi sono il fine cui ogni virtù tende e proprio questi non possono essere soggetti a compromissione o a tolleranza di chi li nega.

La giustizia infatti secondo Aristotele è l’asse centrale, il valore gerarchicamente più alto, da praticare in ogni circostanza, e le azioni che ad essa sono subordinate sono la terza via tra due estremi, proprio perché la loro vetta, il loro riferimento, è un principio superiore e verticale. Come si ha modo di constatare, poi, studiando le opere aristoteliche, tale concezione è espressa in ogni ambito, che si tratti della fisica, della metafisica, della politica, della poetica e così via. Ogni azione tesa al bene è il risultato di un ordine superiore e terzo rispetto agli estremismi del caos. E se vi è un cardine che regola le virtù, vi è anche un punto in comune tra le degenerazioni, ovvero l’individualismo, che è alla base del caos e del materialismo. Se un vile, come detto sopra, è un individuo il cui unico scopo è preservare se stesso, bisogna chiedersi cosa lo spinge a ciò.

L’idea di esistere unicamente per soddisfare i propri bisogni più bassi e il proprio ego. E per il temerario il discorso è esattamente il medesimo. Un soggetto che si sottopone volontariamente al pericolo fine a se stesso, altro non è che qualcuno che ha un disperato bisogno del consenso e dell’attenzione altrui. Stesso dicasi per il prodigo e l’avaro. Entrambi sono sottomessi alla materia e lo sono perché percepiscono se stessi come centro del tutto e sono inconsapevoli del fine più alto cui deve tendere la loro esistenza. Non dissimile è il modus operandi dell’iracondo, il quale si adira facilmente perché pretende che ogni aspetto della vita sia da lui controllato, e dell’indolente, che alla sua “tranquillità ” dedica ogni energia e preferisce sempre salire sul carro del vincitore. L’individualismo è quindi la matrice di ogni eccesso e di ogni degenerazione e il fatto che sia il pane quotidiano della modernità tanto comunica sui disvalori che la questa produce.

La famosa frase “a te cosa cambia?” che i più ripetono come ossessi, rappresenta la perdita totale di ogni capacità di giudizio, di volontà, di consapevolezza, di discernimento e di giustizia. Simboleggia l’anticamera del caos. Dove ogni ente vuol darsi forma da solo, non seguire alcuna regola e vivere come fosse esso stesso il parametro delle sue aspirazioni, non vi può essere cosmos, in quanto esso è rappresentato da regole, da armonia, da un collante superiore e dalla conoscenza della propria funzione ed è la naturale antitesi al cancro della modernità, che assume di volta in volta facce diverse, quella liberale, quella comunista, quella progressista, che, però,  come ogni estremo deforme, altro non sono che figlie immonde dell’anarchismo e di una concezione dell’uomo e del mondo acefala e mostruosa.