“L’anima europea”: intervista ad Adriano Scianca sul libro di Robert Dun

Giu 25, 2024

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Una risposta al “Testamento di Dio” di Bernard-Henry Levy, quattordici anni più tardi: in cosa risiede l’importanza di un simile confronto fra spiriti e intelletti tanto eterogenei?

Alla base di questo libro c’è un’intuizione illuminante di Robert Dun: i testi dei nemici non solo vanno letti, ma a volte possono aiutarci a capire chi siamo, persino più di quanto non facciano i testi degli amici. Il testamento di Dio è un libro potenzialmente utilissimo ai militanti identitari. Esprimendo una visione non solo politicamente, ma addirittura metafisicamente opposta a quella dei “buoni europei”, questo saggio può infatti rappresentare un ottimo viatico per pensare fino in fondo ciò che già pensiamo. Robert Dun ha percepito con nettezza l’importanza di questo confronto, e grazie a esso ha messo in luce una visione del mondo che dovrebbe forse essere “scontata”, ma che, oggi come non mai, possiamo dire che è fondamentale ripassare. Certo, in alcuni passaggi si avverte che l’acume di Dun riposa su un’erudizione per lo più da autodidatta. A volte si avventura in territori impervi, e si nota anche, qua e là, una eccessiva predilezione per il mondo celtico-germanico che lo porta a non considerare adeguatamente il mondo mediterraneo. Ma, anche con queste criticità, resta un pensatore importante, un vero intellettuale militante, che era un peccato fosse del tutto ignorato in Italia. Questo libro può costituire un primo contributo per colmare tale lacuna.

 

L’Anima Europea” è, prima di tutto, una potentissima esortazione a rivivere e riscoprire vie ancestrali al Sacro, dato ormai per perduto da una pletora di voci fataliste. Ha ancora senso parlare di mistica, al tempo dell’apparente trionfo dell’economia?

Non esiste civiltà – ma direi anche che non esiste idea forte – che non contempli una sua visione del sacro. Certo, anche in ambito “pagano” non mancano diverse sfumature sull’argomento: c’è chi lo intende come la connessione con determinati enti reali, chi come una dimensione a cui l’uomo attinge eroicamente superando sè stesso, chi ancora ne ha una visione più sociologica, scorgendovi l’idea centrale attorno a cui ruota una società. Non ho la pretesa di sciogliere qui questo nodo. Di sicuro, attraverso il sacro – in qualsiasi modo lo si intenda – si esprime una identità, un radicamento, e attraverso di esso ci si immette in un lignaggio, in un’eredità. Del resto, anche le ideologie “laiche” oggi dominanti riposano più o meno consapevolmente su un fondale religioso, anche quando si vogliono atee. È, peraltro, ciò che Bernard-Henry Levy voleva sostenere con il suo libro, la cui tesi centrale è, in buona sostanza, che l’antifascismo e la Torah sono la stessa cosa, e che non ci può essere buona battaglia antifascista senza andare a distruggere i boschetti sacri e senza rovesciare gli altari ai Lari. A questa visione del mondo (che noi possiamo benissimo, dal punto di vista opposto, condividere: l’antifascismo è davvero quella roba là) non possiamo opporre slogan bottegai e proposte qualunquiste. Serve una risposta sullo stesso livello.

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Come si colloca la critica di Dun ai monoteismi rivelati nell’orizzonte religioso e spirituale della contemporaneità?

Come dicevo sopra, è stato innanzitutto Levy ad attualizzare e a politicizzare l’Antico Testamento. Dun ha colto la palla al balzo per ribadire alcuni concetti che non ha certamente inventato, ma che ha ripreso da una tradizione ben più antica, e che, a ben vedere, hanno il punto apicale in Nietzsche. È stato Nietzsche il primo a criticare le ideologie egualitarie come forme di monoteismo secolarizzato. Si tratta, fra l’altro, di una chiave di lettura quanto mai attuale. Anzi, solo in questa prospettiva storica la critica del monoteismo acquisisce un senso politico reale. Limitarsi a polemizzare con le espressioni religiose del monoteismo, con le confessioni organizzate (che poi significa per lo più prendersela solo con l’anello più debole della famiglia, ovvero con il cristianesimo, la polemica contro giudaismo e Islam essendo ben più rischiosa per motivi diversi), significa abbandonare l’opera sul più bello. Le espressioni più avanzate, ficcanti e potenti del monoteismo sono oggi infatti apparentemente irreligiose e laiche. Monoteista non è chi “crede in un solo dio”, cosa che è peraltro storicamente propria anche di molti contesti estranei alla famiglia abramitica, ma chi assume una determinata visione del mondo che prevede alcuni specifici rapporti tra l’uomo e il mondo, tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e l’animale, tra l’uomo e il sacro, tra l’uomo e gli altri uomini. Una visione del mondo che, paradossalmente, può funzionare benissimo anche senza una professione di fede in una particolare divinità. Prendiamo l’ideologia gender: essa è avversata da tutte e tre le religioni abramitiche, almeno nelle loro forme confessionali. Eppure, cos’è questo rifiuto del corpo, questa identità disincarnata, questa paura del messaggio scandaloso racchiuso nei genitali, se non l’ultimo avatar di una millenaria “grande vendetta contro il corpo”, come avrebbe detto Nietzsche? Mi pare che Dun abbia perfettamente compreso questo aspetto.

 

La risposta di Dun a Levy è una traccia, capace di (ri)aprire nel lettore visioni inedite e antiche al contempo. Come adoperarsi, dunque, per risvegliare l'”anima europea” in una società sempre più confusa e sballottata da stimoli materialisti e contraddittori?

L’Europa è stata per almeno un secolo il mito mobilitante di diverse generazioni di rivoluzionari in tutto il continente. Negli ultimi anni, proprio quando il mito andava rilanciato con più forza, esso è stato quasi completamente dimenticato o ripudiato proprio da quegli ambienti che avrebbero dovuto innalzarne il vessillo, tra ripieghi sovranisti e fughe in avanti “multipolariste”. Si è trattato di un accecamento politico e culturale che ha rischiato di interrompere, per la prima volta da generazioni, la trasmissione di un’eredità capace di attraversare epoche ben più tragiche. Oggi, anche se molti di quegli equivoci sono ancora in piedi, mi pare che il pericolo dell’oblio totale sia stato per lo più scongiurato, e che, soprattutto tra i più giovani, le idee stiano tornando chiare. L’anima europea, quindi, è sempre attiva. Tutto sta a “parlarle”, a coltivarla, a nutrirla. Ecco perché è importante leggere libri come quello di Dun, dal valore peraltro duplice: per i suoi contenuti e per la funzione di documento storico, dato che ci racconta come certe idee sono entrate in circolo negli ambienti militanti francesi, e da lì si sono trasferite a noi. Le sue pagine, davvero, sono un modo per riappropriarci di noi stessi.

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