Come nasce una pubblicazione tanto intensa?
Nasce da una vera e propria passione per l’antichità greca e i miti che mio padre mi ha trasmesso fin dalla prima adolescenza. In casa non potevo che leggere Pausania, Erodoto, Tucidide, Aristofane… non c’era altro! Il Mito, per me, non è una fuga dal reale, bensì il modo più veloce ed essenziale per entrare nelle profondità del reale stesso. In tal senso, gli Iperborei costituiscono il mito occidentale più antico, edenico, primordiale. Comprendere i carismi di questo misterioso popolo significa anche comprendere le radici della Grecia e, più in generale, della civiltà indoeuropea. Non è un caso, infatti, che Pausania ci ricordi come derivino dagli Iperborei i due centri sacrali che univano tutti i Greci: i grandi Giochi di Olimpia e il santuario-oracolo di Delfi.
“Iperborei”, aggettivo gonfio di significato e pregno di echi ancestrali. Vogliamo tracciarne in breve una linea?
I greci antichi, ma anche i latini, parlano diffusamente degli Iperborei quale popolo antichissimo, nobile, sapiente. Un popolo di eroi e sacerdoti di Apollo e Artemide, per i quali l’elemento femminile sacro e rituale era importante insieme alla dimensione agonica, festiva, aionica. Non è stato facile scrivere questo libro, in quanto le fonti greche e latine sono numerose e abbondanti, ma assai brevi e frammentarie: tutti parlano di loro, ma solo per veloci accenni. Probabilmente, si trattava di un segreto iniziatico, e solamente pochi eroi avevano accesso alla loro sacra terra. Andare dagli Iperborei era davvero un modo per divenire eroi, come per Perseo e per Heracle. Anche Giasone e Odisseo – nientemeno – cercarono di raggiungerli.
Nel tempo del consumismo, del conformismo massificante e della morte delle idee, come può ancora il Mito proporsi come dinamo possente del secolo?
Il Mito è matrice e fonte costante di energia, visionarietà, epos, pathos, dinamica semantizzante ed enfatizzante. Così sarà per sempre. Per questo e in tale veste, esso ci aiuta a reagire vitalmente all’indifferenza, all’aridità e allo scoraggiamento. Il Mito si agita più verso il futuro che verso il passato. Non è un caso, infatti, che i sapienti iperborei, come Abari, fossero sia profeti che guaritori. Erano iatromanti, appunto, e le loro storie giungono fino a noi, in quanto Abari è ritenuto maestro di Pitagora di Samo.
Pochi giorni fa, la fiaccola olimpica è tornata ad accendersi in vista dei Giochi di Parigi. Come europei, possiamo ancora scorgere in quella fiamma una scintilla primordiale, o si tratta ormai soltanto di vuote e stantie consuetudini?
Nel segno del Fuoco e nell’immaginario olimpico residua sempre qualche eco vitale, a patto però di vedere l’essenza agonica in modo atemporale, puro, spirituale, privo di opacità commerciali, personalistiche o di svago. L’importante, ribadisco, è non sporcare i simboli, non mercanteggiarli. Gli immaginari antichi sono potenti, ma pure delicati e reattivi. Vanno maneggiati con cura e rispetto, in spirito di immedesimazione e contemplazione. Possiamo dire che il Mito è “contemplazione in azione”: la lotta è sempre con sé stessi, e il viaggio è sempre verticale.