Il totalitarismo come mezzo e il totalitarismo come fine: due princìpi opposti

Feb 4, 2025

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È innegabile che lo stato totalitario in sé, da un punto di vista dottrinario, sia la negazione del principio tradizionale di legittimità dello Stato. Se lo Stato tradizionalmente legittimo è imperiale, in quanto l’imperator è colui che da forma a ciò che è inferiore a lui, facendosi da tramite tra il Cielo e la Terra, in ciò coadiuvato da sacerdoti e guerrieri, nello stato totalitario la centralità di tutto diventa lo stato secolarizzato e la collettività. Si tratta dell’aberrante abominio della collettività che si rende divinità essa stessa. È, fra l’altro, quanto di più disorganico possa esistere. L’essenza della Tradizione è il valore delle differenze e della partecipazione, tramite cui, ciascuna casta, seguendo i principi ad essa connaturati e sotto la guida dell’imperatore, si eleva ad uno stadio superiore.
Diversamente, nello stato totalitario, divenendo il centro di tutto lo stato fine a se stesso, i corpi intermedi e i concetti di partecipazione non sono valorizzati e lasciati liberi di organizzarsi, nell’assoluto rispetto, timore e amore che devono all’autorità centrale, sono bensì coattivamente educati a valori uniformanti, per cui accade che l’educazione venga affidata interamente alla burocrazia statale, invece che alla madre nei primi anni di vita, poi al pater familias e sono più in là negli anni alle scuole o alle corporazioni, come invece la Tradizione impone. Dall’avere come autorità, quella del Pater familias, che in ogni stato tradizionale, ha una funzione ben riconosciuta, che nessuno può sottrargli, quella del nobile feudatario, quella imperiale, nello stato totalitario l’unica autorità diventa lo stato divinità.
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Stando così le cose, perché dei totalitarismi f**cisti, chiunque voglia incarnare lo spirito della Rivolta contro la modernità, non può non avere un’idea decisamente positiva? Perché il totalitarismo di tipo f**cista nel secolo scorso è stata l’unica forma entro cui si poteva lavorare per il ripristino dei valori tradizionali antimoderni. Il totalitarismo nel f**cismo non era il fine ma il mezzo. Solo con un’azione autoritaria, in grado di far rivivere e far riprendere forma alla differenziazione e all’organicità, si poteva ricostruire lo Stato come organismo autentico e spirituale. Ogni grande crisi richiede azioni drastiche, che se hanno un fine nobile, pur nei mezzi che non sono ottimali, riescono a realizzare grandi cose, e questo i f**cismi lo hanno dimostrato.
D’altra parte, l’idea di un’autorità forte che dovesse mettere ordine in casi di emergenza era ben chiara anche ai grandi Romani. La figura del Dictator, temporanea, che avrebbe cessato di esistere non appena la situazione dello Stato fosse tornata nei ranghi della normalità. Come tra l’altro dimostra Polibio, il quale, nel descrivere il processo di anaciclosi, ovvero di decadenza da una forma ad un’altra di governo, fa coincidere sempre una forza autoritaria come rettificatrice della situazione. Quando un monarca, un re, diventa tiranno, a prendere il potere con la forza sono gli άριστοι( i migliori, in greco), da cui il termine aristocrazia. Se αρχή, significa, principio, quindi un potere naturale, diversamente, quello dei migliori, per quanto giusto e necessario, è da esercitarsi con la forza. Dopo però la degenerazione dell’aristocrazia subentra la democrazia, che, ben presto sfocia in tirannide, in contrasto alla quale, vi è di nuovo un singolo che ponendosi con forza, ritorna alla monarchia. E il ciclo si ripete.
Tralasciando il resto delle considerazioni che Polibio aveva fatto, essendo decisamente lunghe e non essendo oggetto della presente trattazione, appare evidente che l’azione accentatrice è necessaria, se si vuole ristabilire il cosmos. Ovviamente essa può avere una funzione negativa e altamente degenere, come nel caso del comunismo, dove lo stato totalitario non era che un’ulteriore estremizzazione della democrazia e un passaggio verso le forme subumane e spersonalizzanti, come avviene ogni volta che appunto dalla democrazia si passa alla tirannide. Tuttavia, per tornare al principio originario e tradizionale, non può che essere necessaria un’azione di eguale intensità che, sconfiggendo la bestia senza volto, tutto rimetta nei ranghi della Giustizia. Ed esattamente questo rappresentarono le rivoluzioni italiana e tedesca del secolo scorso, nel momento in cui si trovarono a fronteggiare la loro battaglia contro il bolscevismo subumano e contestualmente a tentare la via per costruire stati che sconfiggessero il modello capitalista e demoliberale. Poi, certo, l’approdo finale fu drammatico, vista la sconfitta dell’Europa nel ’45, ma chiunque oggi desideri la rivincita non può che ispirarsi a quegli uomini e a quei valori, certamente anche analizzando eventuali colpe ed errori, ma sempre partendo dal presupposto che senza f**cismo in Europa nessun tentativo di reale rivolta al mondo Moderno si sarebbe mai concretizzato, fornendoci un modello attuale da seguire.
Ad ulteriore conferma di quanto fin qui riportato, ci viene in aiuto il mito di Esiodo delle cinque età, che ci fa comprendere il tutto su un piano superumano e divino. Al mito tradizionale delle quattro età, perno anche della grande tradizione induista, Esiodo ne aggiunge una quinta, collocata tra l’età del bronzo e quella del ferro. Prima della decadenza finale, vi fu un’era in cui un gruppo di pochi uomini, semidivini, riuscirono a ristabilire i cardini della giustizia dell’età dell’oro. Diversamente da questa, però, a tale traguardo ci arrivarono con la forza e con la guerra, riuscendo quindi a elevare se stessi e chi a loro era sottoposto. Ciò ci insegna la necessità della guerra e il dovere di usare ogni mezzo, sempre tenendo presente le vie dell’onore, per ritornare alle radici. Per gli uomini non nati nell’età aurea questa è una regola da non dimenticare.