Come correttamente scrive Evola, la tragedia di Eschilo, Eumenidi, ultima parte della trilogia continua Orestea, assume agli occhi della storia greca un significato straordinario. Oreste, figlio di Agamennone, in ossequio all’obbedienza ad Apollo, non per caso rappresentante la divinità sapiente e virile simbolo dell’Ellade aria, aveva ucciso sua madre, adultera e patricida, per vendicare per l’appunto il padre Agamennone. In seguito viene perseguitato senza alcuna pietà dalle Erinni, entità maligne, matriarcali, figlie della notte. Fino a quando non sarà definitivamente assolto dall’Areopago, grazie soprattutto al voto favorevole della dea Atena, per lui non vi fu pace. E, proprio dopo l’atto dell’assoluzione, il coro delle Erinni, ormai divenute Eumenidi, ovvero benevoli, perché sottomesse, segna la decisiva vittoria della cultura patriarcale in Grecia, ovvero ciò che storicamente fu il trionfo degli indoeuropei sul matriarcato delle comunità prearie e autoctone. Il trionfo della virilità apollinea ma anche della femminilità più aurea e celeste, quella di Atena, nata direttamente dalla testa del Sommo Zeus, e, quindi, custode di tutte le grandi virtù, che, con la sua potenza, porta le anime caotiche e matriarcali dell’oscurità, nel giusto rango di protettrici della terra e della fertilità.
Questo straordinario testo di Eschilo ci fa ben comprendere molti elementi importanti della storia greca, i cui fattori principali quasi sempre assumono col mito una chiarezza che non riescono ad avere se esposti in un consueto trattato di storia. E ciò si deve al fatto che il mito, come ricorda il Filosofo per eccellenza, Aristotele, ha la precisa funzione di trasmettere quelli che sono valori universali. Ma, oltre a tali aspetti, è bene tenere nell’animo l’altro grande insegnamento di questa trilogia, ovvero il prezzo e i sacrifici che la virtù richiede. Nella parte precedente a quella su cui fin qui ci si è soffermati, la tragedia delle Coefore, è contenuta la scena in cui Oreste uccide sua madre. Prima del tragico atto, vi è un intenso e serrato dialogo tra Oreste e sua madre in cui vi è un momento da sottolineare particolarmente, quello in cui Clitennèstra si scopre in seno per indurre nel figlio pietà. E tale gesto consegue il proprio risultato inizialmente, in quanto Oreste ha un forte tentennamento, visto che la madre ha appena, col quel gesto, richiamato un forte legame. Eppure proprio quando vi è l’esitazione che subentra il richiamo a qualcosa di ancor più importante, che non consiste soltanto nel rispetto del Padre, ma del voto fatto alla divinità. In queste struggenti parole si racchiude il senso della più grande lotta che gli uomini devono affrontare, quella tra lo spirito divino e gli attaccamenti materiali. Nel momento in cui Oreste non cede al richiamo al seno materno da cui si nutrì quando era infante, dimostra di essere il Vir per eccellenza, ovvero colui che con Virtù si distacca dalla sfera materiale per farsi illuminare dal cielo. Ma tale immagine è anche la metafora di un’altra usanza di tutte le grandi società tradizionali.
Ciò che avviava un bambino dall’infanzia all’età adulta era proprio il distacco dalla madre, a cui ad un certo punto subentrava l’educazione del padre. Dopo il taglio del cordone ombelicale, che significava il passaggio dalla vita in potenza alla vita in atto, vi era un altro rito di passaggio, quello che porta dal mondo fanciullesco della debolezza e delle paure di un bambino che si attacca alla madre, al mondo degli adulti che da lì in avanti saranno educati ad essere forti e a non cedere a nessuna forma di debolezza e di pathos. E da tale constatazione comprendiamo quella che nel mondo moderno costituisce una verità scomoda, la pietà e il sentimentalismo sono la quintessenza della mostruosità, perché sono lo strumento a cui ricorre ogni agente della sovversione, che, una volta conseguito tale obiettivo, rivelerà la sua natura spietata e distruttrice. Se Oreste si fosse fatto vincere dai lamenti della madre sovversiva, non avrebbe portato in lei alcun miglioramento, anzi, si sarebbe condannato ad essere schiavo di ogni pulsione sovvertitrice, e mai avrebbe potuto più contare sulla guida di Apollo che giustamente avrebbe scelto uomini ben più degni di lui per rendere la terra piena di templi e di culti in suo onore. Oreste quindi non si piega e nemmeno si fa intimorire dalla maledizione della madre da cui poi per l’appunto scaturirà la persecuzione delle Erinni. E nonostante questi due grandi ostacoli, alla fine trionfa la giustizia. Cosa sono questi versi se non il più grande monito per combattere la battaglia di oggi, la Rivolta contro il mondo moderno per l’appunto? Non è proprio così che procede la sovversione nelle sue molteplici e mostruose forme? Inducendo alla pietà, portando avanti una retorica ampollosa ed empatica, precisamente antidiscriminatoria? Eppure all’uomo virtuoso ben si addice discriminare, che altro non vuol dire che discernere, distinguere È di Apollo distinguere, gerarchizzare e mettere ciascuno al proprio posto perché vi sia pace e armonia nel mondo, è proprio invece del matriarcato mostruoso e deforme, aventi come esempi proprio Clitennèstra e le Erinni, l’odio della forma, dei distinguo e l’istinto come guida. Chi vuole vincere la battaglia apollinea oggi è esattamente in ciò che deve eccellere, nel non farsi minimamente soggiogare da nessuna retorica che possa compromettere la virilità.
Bisogna comportarsi come ossequiosi fedeli di un’idea divina a cui non interessa né dimostrare con la dialettica la bontà delle proprie idee a chi per proprio vantaggio vuol ridurre tutto ad un salotto letterario al fine di seminare discordia, e nemmeno farsi minimamente travolgere dallo slogan che inducono al pianto, all’autocommiserazione a quelle frasi figlie dell’isterismo collettivo del tipo “restiamo umani “. Ad ogni camerata si addice rendersi simile a Dio e alla sua volontà, per quello che la natura consente, e vivere con olimpico e sereno distacco ogni fenomeno caotico e tellurico. I volti delle statue classiche non sono belli per caso, ma proprio perché richiamano quel distacco e quella armonia propria di chi compie ciò che è giusto senza dubbio, senza esitazione. Contemplare la scultura raffigurante un atleta o un guerriero significa diventare quel guerriero o quell’atleta, imparando il ritmo ordinato del cosmo e imparando a schiacciare i nemici, senza odio né passione. Stia ben attento chi crede che assenza di turbamento e mancanza di empatia del nemico significhi odio. L’eroe ario schiaccia il nemico senza odio né passione, perché non è interessato al male del nemico, in quanto per ethos e mentalità è da lui totalmente distante. Fa le cose se sanno di giustizia, di bellezza e di verità, ed è soltanto in virtù di quelle che combatte. Tagliare la testa al serpente non può che essere per i migliori altro che un’azione da compiersi per il raggiungimento di un Bene, ed è in ciò che si ravvede il principio dell’imperialità e dell’impersonalità attiva.
Un uomo che abbia inteso di essere lo strumento di un principio più grande di lui, immenso, di cui il singolo non rappresenta che una manifestazione della sua potenza saprà trovare sempre la via e farà ciò che lo distingue da chi gli è ostile, ovvero il vivere senza pensare di essere una creatura del mondo fenomenico delle apparenze ma parte integrante di un asse dell’essere per cui il mondo altro non costituisce che lo strumento con cui poter dar prova di bellezza e bontà. Questa è infatti la kalokagathia ,amare il Bello in sé. E l’uomo europeo oggi ciò deve fare. Elevarsi ad uno stadio tale che gli consenta di conoscere le forme apollinee per quel che sono nella loro essenza.