Le radici profonde della millenaria civiltà europea sono anche greche. Ma come percepivano e concepivano gli antichi Greci la loro identità? Per cercare di abbozzare una parziale e superficiale risposta ad una domanda così complessa non possiamo che fare appello alle fonti di natura letteraria in nostro possesso. Dalla lettura di fondamentali opere storiografiche, poemi epici e tragedie notiamo che i Greci (in età arcaica, classica ed ellenistica) elaborano un concetto di identità sia in “positivo”, ossia chiarendone i tratti distintivi, che in “negativo”, dicendo cioè quel che non erano rispetto ad altri popoli. Nel cap. dell’VIII libro delle Storie di Erodoto di Alicarnasso il motivo principale per cui gli Ateniesi dichiarano ad una delegazione spartana di difendere la libertà della Grecia dall’invasione persiana è l’appartenenza alla grecità (to ellenikòn) intesa come “comunanza di sangue, di lingua, di santuari, di riti e di usanze”.
Notiamo dunque che, con questa sorta di concezione “romantica” ante litteram del sacro suolo patrio, Erodoto elabora una definizione di grecità “in positivo”, chiarendo cioè cosa significava essere greco per un cittadino ateniese nel primo scorcio del quinto secolo a. C. Tuttavia, in molti altri casi, l’identità greca è tratteggiata in negativo, ossia attraverso il confronto e la contrapposizione con altri popoli. Le guerre persiane, attraverso il metus hostilis, svolgono un ruolo fondamentale nel cementare l’identità collettiva dei Greci. In Omero (come messo in luce dallo stesso Tucidide, cfr. La guerra del Peloponneso 1.3.3) non è attestato l’etnonimo collettivo Hellenes contrapposto a barbaroi (che del resto compare solamente nel composto barbarofonoi, avendo dunque una pura connotazione linguistica).
Detto in altri termini, a combattere sotto le mura di Troia non si recarono i Greci, bensì i Danai, i Micenei, gli Argivi, i Lacedemoni…Inoltre la vittoria delle poleis greche sui Persiani, che diventano i nemici e i barbari per eccellenza, contribuisce a rafforzare il carattere etnocentrico della rappresentazione che i Greci hanno di loro stessi e ad alimentare il senso di presunta superiorità nei confronti dei popoli dell’Asia e del barbaro in genere. Il barbaro, come leggiamo in un passo di Aristotele (Pol.I,1253 a 27sgg.), viene definito: “Colui che non è in grado di vivere in comunità … o che non prende parte alla vita della città ed è tale da essere una bestia oppure un dio”. Dunque, nella speculazione aristotelica, alla tradizionale tripartizione gerarchica dei – uomini – animali si sovrappone il binomio oppositivo greco – barbaro. Un’opposizione che si gioca spesso sul discrimine civiltà (Greci) – inciviltà (barbari). Delle significative testimonianze in tal senso ci sono offerte anche dalla letteratura dell’età ellenistica. La prima di esse è costituita dalle Argonautiche di Apollonio Rodio. Nel secondo libro del poema epico incentrato sul ciclo degli Argonauti l’eroe greco Pollùce (forte, ma dotato di métis e téche) si scontra al pugilato col feroce e selvaggio re dei Bèbrici Amico: alla fine il greco vince non soltanto con la forza, ma anche con l’astuzia e la tecnica.
Da un’analisi dettagliata di questo episodio emerge una contrapposizione fra greco e barbaro (dunque fra civiltà e barbarie) che più netta non potrebbe essere. Apollonio sembra partire dalle tradizioni: i costumi dei Bèbrici sono infatti aeikeeis “indegni, sconvenienti”, in quanto stabiliti dal “più arrogante degli uomini” (2,5); ma – nonostante ciò – i Greci sono disposti a rispettarli perché appena giunti in una terra straniera. L’abissale differenza fra il greco Polluce e il barbaro Amico si esprime anche su un piano estetico: mentre il mantello di Polluce è profumato e raffinato, quello di Amico è grezzo e pesante. Polluce, secondo una collaudata similitudine omerica, sembra una stella splendente nel cielo; Amico viene invece paragonato “ad un essere ctonio parto mostruoso del tremendo Tifèo” (2,9).
Ancora, prima dell’agone pugilistico, l’eroe greco riscalda e flette i muscoli, mentre il truce re dei Bèbrici lo guarda bieco e pieno di odio. Dal piano estetico lo scontro si sposta quindi a quello etico: la vittoria del greco Polluce sul bebrico Amico è anche il trionfo della métis e della téchne (ossia dell’astuzia e dell’arte) sulla bia (la forza bruta). Ma vi è un di più nella barbarie dei Bèbrici e del loro re Amico: il rifiuto delle leggi della xenìa (ospitalità) che invece sono un tratto caratterizzante della civiltà e dell’identità dei Greci sin dai tempi di Omero. Illuminante, a tal riguardo, anche lo scambio di battute fra Polluce e Amico messo in versi dal poeta alessandrino Teocrito (Idill. 22. 60). In pratica, in questo scontro di versi che si configura anche come scontro di civiltà (anzi scontro fra civiltà e barbarie), il greco Polluce dice al bèbrico Amico che se lui venisse in Grecia “Se ne tornerebbe a casa con doni ospitali”. In conclusione possiamo affermare che i Greci hanno di loro stessi un concetto di identità sia in positivo che in negativo, sanno cioè quel che sono e quel che non sono rispetto ad altri popoli. Popoli da cui sono pronti a difendersi in caso di attacco alla loro libertà e nei confronti dei quali sono pronti a rivendicare alcuni aspetti di superiorità etica, ma da cui appaiono anche pronti ad accogliere ed integrare costumi, personaggi e divinità. È il caso di Dioniso. Ma questa è un’altra storia che ci porterebbe lontano.