Extra omnes – La morte del Papa e il cattolicesimo a un bivio

Mag 7, 2025

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Stat sua cuique dies”. Virgilio, Eneide, X, 467

Alle ore 7.35 del 21 aprile, Natale di Roma e nel calendario liturgico dell’anno domini 2025 Lunedì dell’Angelo, Papa Francesco è morto. La Sede petrina è ufficialmente vacante, e su Jorge Mario Bergoglio cala il silenzio, ad appena un giorno di distanza dalla sua ultima uscita pubblica.

Nelle righe che seguono, non ci abbandoneremo a scomposte danze sulle spoglie ancora calde, a vani pettegolezzi, ad altrettanto inutili improperi ad hominem nei confronti di chi, ormai, ha lasciato questo mondo. Non rientra nello Stile di chi scrive, né si confà a quell’Idea che, negata da torme di avvoltoi e sciacalli che del vilipendere i cadaveri fanno la misura della propria esistenza, rivendica con orgoglio la propria eterogeneità rispetto alle bassezze del mondo. Tuttavia, se, come insegna Mishima, “giustificare sé stessi è un atto di viltà”, giustificare un uomo – di più, un Papa, ossia il reggente di una delle cariche più dense di responsabilità e influenza su questa terra – solo perché il suo cuore ha cessato di battere, tacendo interessatamente su ciò che fu o – addirittura – fingere un’ammirazione post mortem utile soltanto a guadagnarsi una certa rispettabilità dinanzi al sentire comune, ritengo sarebbe ancora più esecrabile e ingiusto.

Papa Francesco, infatti, fu un nemico dell’Europa, valutazione, questa, onesta ma priva di singolari animosità. Fu un nemico, sì, non come inimicus, nemico personale nel volgere delle umane contingenze, bensì in quanto hostis, avversario per spirito, carattere, essenza. Da quel 13 marzo 2013 in cui per volontà del collegio cardinalizio ascese al Sommo Pontificato, l’ex arcivescovo di Buenos Aires non fece mai nulla per nascondere i propri sentimenti, e di questo – in fondo – gli va dato merito. Lui, Papa “giunto dalla fine del mondo”, detestava l’Europa, intesa in senso geografico, ma anche spirituale e identitario. In essa, egli vedeva – in piena conformità con i dettami di quella Teologia della Liberazione che, nell’America Latina da cui proveniva, a lungo cercò di coniugare Cristo e Marx, sovrapponendo rivendicazioni di classe ad antagonismi etnici – l’epicentro del capitalismo e del colonialismo, colpa atavica che avrebbe potuto emendare soltanto annullando sé stessa, e facendosi terra franca per masse diseredate da ogni latitudine. Come Pontefice, provò in ogni modo a sradicare dalla Chiesa le ultime tracce simboliche di quell’evoluzione solare del cristianesimo che, culminata nel Medioevo, nelle guglie di Chartres, nell’impeto guerriero dei crociati e della Lega Santa, nell’Europa imperiale, nelle sue abbazie, corti e cattedrali, fu progressivamente spenta da Riforma e Controriforma prima, e dal Concilio Vaticano II poi. Concistoro dopo concistoro, le sue nomine alla porpora cardinalizia hanno attinto dalle “estreme periferie del mondo”, selezionando caterve di perfetti sconosciuti alla guida di diocesi africane o asiatiche sperdute e irrilevanti, dal merito unico e decisivo di non essere europei, o – meglio – di essere antieuropei. In antitesi al tradizionale spirito missionario del cattolicesimo storico, che in un certo qual modo provava a esportare nelle regioni più remote del globo il carattere e il pensiero della cristianità europea, nell’approccio ecclesiale e politico di Bergoglio l’Europa si poneva come il grande nemico da abbattere e cancellare, a rivincita di infiniti torti storici reali o percepiti.

Ancor più, non a caso, oltre che d’Europa egli fu nemico di Roma, della Roma eterna e della sua innata, sacrale verticalità, a cui – lo si voglia o no – da due millenni il cattolicesimo è indissolubilmente legato. Sin dall’inizio, da quel suo rifiuto – camuffato da sfoggio di umiltà – di abitare l’appartamento pontificio e di calzare le tanto vituperate “scarpe rosse”, da quel voler assumere un nome mai utilizzato prima per porsi anche anagraficamente all’esterno dell’eredità regale che lo precedeva, Francesco ostentò a tutti quanto egli fosse “diverso”, orizzontale, prosaico. Dinanzi al mondo, egli non doveva essere più il Sommo Pontefice, bensì “solo” il Papa, anzì, un “papà”, un uomo qualunque vestito di bianco, uno zio o un nonno “umilissimo” che dice buonasera e bacia la mano dell’ospite di turno, che rompe le convenzioni, che “puzza di pecora”, che si muove su un’utilitaria a favor di riflettori e parla dinanzi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’intero suo pontificato è stato un continuo spegnimento di un fuoco sacro, e come ciò rappresenta il cardine dei mille elogi di cui in morte e in vita è sempre stato ricoperto, l’osservarlo non rappresenta certo una mancanza di pietas.

Infatti, detto ormai quanto Bergoglio fu, va rimarcato quanto Bergoglio non fu. Bergoglio non fu l’essere perfido e dissennato – dai tratti persino anticristici – che una parte considerevole dei suoi accusatori più o meno conservatori lo ha accusato di essere, fra un complottismo e l’altro. Già, Bergoglio non fu affatto l’inusitato prodotto di chissà quale macchinazione o trama occulta; anzi, la coerenza con cui ha portato avanti le sue posizioni e la schiettezza genuina e, talvolta, persino un po’ goffa, ma sempre adamantina, con cui ha puntualmente spiegato ciò che faceva e cosa aveva in mente, tradiscono una buona fede in cui non stentiamo a credere. Piuttosto, il pontificato di Bergoglio ha costituito lo stadio terminale di un motuus in fine velocior che, naturalmente, come ogni crisi al suo esaurirsi si fa precipitoso e scomposto prima della deflagrazione finale. Bergoglio, senz’altro, è stato il naturale epilogo di un antico conflitto che ha interessato la Chiesa Cattolica per mano di istanze ad essa interne ed esterne, non per colpire il cattolicesimo in sé come confessione religiosa, bensì la verticalità e la trascendenza di cui la Chiesa stessa, la sua gerarchia, i suoi dogmi, i suoi santi, i suoi riti, la sua lingua hanno per lungo tempo nella percezione comune rappresentato un’immediata espressione essoterica. Un processo antagonistico, questo, che nel Concilio Vaticano II e i suoi drastici cambi di prospettiva, nel Novus Ordo Missae creato da Paolo VI per privare la Messa cattolica di ogni tensione verticale e renderla nulla più che un’“assemblea dei fedeli”, nell’appuntamento sincretico di Assisi voluto da Giovanni Paolo II, nell’abdicazione controversa e “parziale” del “conservatore” Benedetto XVI, che picconò via ogni eternità, ogni residua caratura pontificale dal Papato per trasformarlo in una carica eminentemente terrena e materiale assimilabile a una presidenza o un premierato, ha visto tappe ben più significative e fatidiche. In ciò, a parere di chi scrive, Francesco ha avuto responsabilità – e colpe – ben più esigue rispetto a diversi suoi recenti predecessori.

Comunque sia, il Papa è morto, e fra qualche settimana un altro ascenderà al suo stesso soglio. I dodici anni di Francesco, seguiti a quanto già accaduto nei decenni addietro, hanno costituito un oltrepassare un punto-limite da cui difficilmente vi sarà ritorno. Perciò, confidiamo che il prossimo Papa – o il suo immediato successore – sarà di rottura totale: se con il cattolicesimo tout court o con la “religione del Concilio”, per citare Mons. Marcel Lefebvre, sarà l’avvenire a dircelo. In ogni caso, la crisi della Chiesa Cattolica vive un fatidico punto di svolta impossibile da negare. Il crollo delle vocazioni, il succedersi di scandali infamanti, il caos dottrinale e pastorale, l’irreligiosità ostentata ad ogni grado della gerarchia clericale, il continuo mendicare la considerazione e la stima dei suoi detrattori ne hanno minato la credibilità nel profondo. Le vaste riforme di cui è stata oggetto, oltre a renderla un veicolo metapolitico in balia del progressismo internazionale e delle sue esigenze (aspetto, questo, evidente soprattutto nei piccoli centri d’Europa, in cui le parrocchie, assai spesso, agiscono come veri e propri circoli sovversivi), l’hanno ormai resa una ricca ONG e niente più, in un tempo che abbonda di ricche ONG assai più organizzate, competitive, attraenti. La Chiesa Cattolica, come oggi la conosciamo, non sopravviverebbe a un liquidatore fallimentare in talare candida, e se l’ultimo suo giorno dovesse davvero giungere, si tratterebbe di (auspicabile) suicidio, e non certo di omicidio.

Tuttavia, l’equazione non è così semplice. Accanto al mastodonte moribondo della Chiesa ufficiale vive un’intera galassia di uomini, donne, religiosi, realtà, associazioni, fraternità su cui merita soffermarsi. Una galassia sfaccettata, poliedrica, multiforme e talvolta incerta e contraddittoria, bisognosa – senz’altro – di un indirizzo autorevole e unificante, ma che lì rimane, e non accenna a togliere il disturbo. Chi scrive, solo poche settimane or sono assisteva alla solenne Messa tridentina domenicale presso la meravigliosa chiesa di Saint-Nicolas-du-Chardonnet, sita in Rue des Bernardins, nel delizioso V arrondissement parigino. Saint Nicolas ha una storia che merita di essere raccontata. Nel 1977, infatti, un agguerrito manipolo di fedeli tradizionalisti guidato dal sacerdote François Ducaud-Bourget espelleva manu militari il parroco e occupava l’edificio con la forza. Da allora, per decenni, con l’assistenza costante di un servizio d’ordine di militanti identitari, la Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata dal già menzionato Mons. Lefebvre, si è assicurata il controllo di Saint Nicolas, rendendo la chiesa un baluardo, un’avanguardia ferma e salda nel volgere della dissoluzione. Bene: in quella tiepida domenica d’aprile, circa settecento persone mi circondavano assorte in preghiera, nella quasi totalità etnicamente omogenee, contando moltissimi giovani, giovani francesi d’oggi ma brillanti di una fierezza d’altri tempi, e tantissimi bambini.

Purtroppo, non sempre è così. Se il cattolicesimo tradizionalista francofono, saldamente connesso al mondo identitario e fertilizzato dall’immortale retaggio della Vandea “dei villaggi, degli altari, delle tombe” e delle “falci della boscaglia”, pare godere di una salute sfolgorante, altrove – Italia compresa – non si può dire lo stesso. Se il celebre motto dell’Enrico V shakespeariano, “noi pochi, noi felici pochi”, voleva essere un’esortazione potente a recuperare uno spirito guerriero – solare, quindi – e colmare d’ardore il cuore nel protendersi verso il nemico, da molti, nei ranghi del variegato popolo del “cattolicesimo di sempre”, pare purtroppo esser stato frainteso in un “noi pochi, noi comodamente pochi”, fra anacronistici revanscismi pre-risorgimentali, rievocazioni sparse e inutili purismi. In particolare, più che mai dannosa quella particolare disposizione caratteriale e intellettuale che chiameremmo “guareschismo”, intendendosi con ciò un’ostinata, testarda e incapacitante volontà di barricarsi in una sorta di piccolo mondo antico, roseo e rassicurante rifugio temporale e culturale in cui il mito piccolo-borghese del “buon reazionario” può dirsi adeguatamente tutelato, e ammuffiti moralismi divengono le uniche pulsioni di animi ormai rassegnati a trovarsi orgogliosamente fuori dalla Storia.

Lungi dal voler generalizzare, non possiamo però astenerci dall’unica considerazione che affiora inesorabile: l’ora è fatidica. Non coglierla, beh, sarebbe impensabile. Il tempo è maturo per una rinascita cattolica sino a pochi anni fa quasi impossibile. Perché ciò si realizzi, però, non basta l’ancora gettata dalla sorte – o dalla Provvidenza. Prima di tutto, serve coraggio. Volontà. Audacia. Vitalismo. Serve recuperare una visione cattolica non più in antagonismo (aperto o tacito) con il carattere europeo che ha reso grande la Chiesa, inserendola in una tradizione perenne ad essa precedente a cui ha saputo dare linfa nuova, bensì in totale armonia con esso, e serve farlo adesso. Un cattolicesimo nuovo ma antico al tempo stesso, giovane e ardente, amante dell’eredità affidatagli dai propri avi ma con lo sguardo ben fermo sulle sfide del futuro può rappresentare una voce poderosa e decisiva nello sfascio del presente, capace di gettare luce e speranza nel grigiore del secolo a cui il fato ci ha consegnato. Qualche anno fa, per i tipi di Passaggio al Bosco, è uscito in Italia un volume dal titolo più che eloquente: Cattolici e identitari. L’autore, Julien Langella, è dirigente di Academia Christiana, una delle più belle realtà sorte nell’alveo del cattolicesimo tradizionale europeo, una realtà a cui molte altre dovrebbero guardare per imitarne dirompenza, modernità positiva e forza militante. Gli esempi non mancano. Non rimane che comprenderli, e seguirli.

Dominique Venner, uomo pagano e grande europeo, il cui sacrificio a Notre-Dame, lungi dall’essere un’estrema irriverenza, pur da cattolico non ho difficoltà a reputare uno degli atti più luminosi, disinteressati e lungimiranti che la nostra Heimat abbia conosciuto nella sua storia recente, tracciò la linea per tutti:

Io sono della Terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle epopee e delle fiabe, del Solstizio d’inverno e di San Giovanni di estate. È una risposta a coloro che pretendono che l’Europa non sappia cosa essa stessa sia. (…) Il santuario in cui vado a raccogliermi è la foresta profonda e misteriosa delle mie origini. Il mio libro sacro è l’Iliade così come l’Odissea, poemi fondatori e rivelatori dell’anima europea. (…) Del resto non tiro affatto una riga sui secoli cristiani. La cattedrale di Chartres fa parte del mio universo allo stesso titolo di Stonehenge o del Partenone. Questa è l’eredità che occorre assumere. La storia degli europei non è semplice. Essa è scandita di rotture al di là delle quali ci è dato di ritrovare la nostra memoria e la continuità della nostra Tradizione primordiale.”

Prima che il conclave si insedi e inizino le votazioni, il maestro delle cerimonie esorta tutti i presenti a lasciare la Cappella Sistina con due parole lapidarie, ma assai colme di significato: extra omnes, fuori tutti. In quell’attimo, il silenzio cala, e al cospetto del Giudizio Universale di Michelangelo i cardinali si trovano soli, soli dinanzi alla Storia che li osserva. Beh, anche noi, cattolici europei, abbiamo la Storia ad osservarci, e un silenzio nell’animo che, lungi dall’essere di resa, può e deve farsi fertile e vivificante. Abbiamo la chance concreta di una Riconquista epocale, una Riconquista che ci porti a piantare vessilli che garriscano al vento laddove parole vecchie, consumate, stantie si apprestano a lasciare il posto a inesorabili imperativi. Che la Tradizione eterna di cui parla Venner, al termine di questa notte, ci sia dato riscoprirla, ritrovarla, amarla sino alla morte, farne la nostra stessa vita, nella luce di Cristo risorto e vittorioso se cattolici, e, in ogni caso, di un’Europa plurimillenaria e rigogliosa, le cui radici sempreverdi innervano il nostro spirito, il nostro corpo, la nostra mente. Extra omnes, dunque, e che un nuovo Sole, in noi, sopra di noi, rifulgente sorga infine e splenda.