In uno Stato ben regolato vige il principio dell’equa disuguaglianza qualitativa. Equa, in quanto tutti devono dare e ricevere secondo un principio univoco, quello della propria funzione, disuguale in quanto lo stato è formato da persone e cose non uguali tra loro. Per essere ancora più specifici nello stato vi sono uomini tra loro uguali e non uguali. Il criterio fondamentale di giustizia è dare agli uguali cose uguali, ai diseguali cose diseguali. Tuttavia ai diseguali bisogna conferire cose diverse, secondo un principio di equità, ognuno deve avere non di più, non di meno di ciò che merita. Laddove all’interno dello stato, come impone un’etica tradizionale, la politica sia in chi ha una forte predisposizione all’arte militare, filosofica e sacerdotale, il potere è nelle mani di pochi, i quali però non vengono valorizzati per il fatto di essere pochi, come avviene nei regimi oligarchici, ma per il fatto di essere i migliori.
I migliori quindi sono necessariamente pochi, ma non necessariamente i pochi sono i migliori. Non per caso sia quando si pensa al meglio, sia quando si pensa al peggio, si ha nella mente qualcosa di raro. Le vette dell’eccellenza sono rare e belle, rare e terribili, sono le vette della subumanità. Nel mezzo ci sono varie sfumature che possono essere o trasportate e dirette in alto, o trasportate e dirette in basso. Stabilito quindi che i pochi governano i molti, il rapporto virtuoso che si crea in uno stato ben governato è quello tra pochi migliori e il popolo, nel quale vi saranno tante componenti diverse, che saranno buone, meno buone, degeneri o ignave sulla base del loro grado di vicinanza a chi li governa. Nel momento in cui la giustizia prevede che pochi si rapportino a molti, è evidente che ciascuna parte darà all’altra e riceverà a sua volta in modo diverso. Pochi governanti ottimi forniscono benefici spirituali, etici, culturali alla moltitudine, la quale ad essi deve anche la propria sicurezza. Per legge naturale il popolo deve dare ai governanti ciò di cui dispone secondo criteri di equità. Il provvedere ai bisogni materiali dei governanti permette loro di amministrare lo stato nel modo più saggio e di perfezionare se stessi in virtù e sapienza di cui beneficerà il popolo.

Nell’agire in tal modo ciascuno vivrà per sé stesso e per la comunità, si procurerà la vera felicità per se stesso e per la comunità. Soffermandosi sull’aspetto delle ricchezze materiali, cosa constatiamo alla luce di quanto fin qui scritto? Il singolo aristos singolarmente godrà di maggiori ricchezze del singolo lavoratore, ma, siccome il singolo aristos, non si rapporta al singolo uomo appartenente alla plebe, ma a più uomini, le sue ricchezze vanno commisurate a quelle di più uomini nel loro insieme. Laddove in uno stato, chi governa, quindi, disponga di un numero di risorse pressoché uguale a quello complessivo di cui dispone la moltitudine, la giustizia regna. Da notare che, abbandonando per un attimo la questione strettamente politica, l’idea della socializzazione f**cista, tesa a rendere i proletari di un’azienda partecipi della proprietà, si sarebbe fondata esattamente sul criterio del 50%. Laddove i capitani d’industria, i quali hanno la responsabilità di dirigere il lavoro e l’opera di molta più gente di loro, guadagnino nel loro complesso quanto i dipendenti presi nel loro complesso, la ditta può funzionare in armonia, senza diventare ingestibile a causa delle collettivizzazioni e delle uguaglianze marxiste, senza lo sfruttamento e l’alienazione proprio dei regimi liberali. Quanto ciò permette ai pochi di esercitare la loro autorità sui tanti e ai tanti di vivere sulla base di quelle che sono le loro esigenze e in modo libero.

L’ingiustizia nasce laddove i governanti si arricchiscono più del dovuto e laddove non siano più percepibili i benefici che sono chiamati a conferire al popolo e, ovviamente, questi due problemi spesso sono correlati. Da ciò risulta chiaro che, laddove le sorti dello Stato, che in tal caso nemmeno è più propriamente stato, se non per omonimia, siano affidate alla classe borghese e mercantile, l’ingiustizia e il crimine saranno la regola. Essendo la classe che ha il compito di lavorare e produrre portata all’accumulo di ricchezza, non avendo un valore essenziale superiore in meglio a quello dei cittadini nel loro complesso, come scopo perseguirà quello di arricchirsi e, incapace di provvedere ai bisogni dei più, non potrà garantire né la sicurezza né i benefici etici necessari al popolo. Da qui si comprende perché oggi, nelle società democratiche, i legami tra cittadini e istituzioni siano inesistenti, la gente sia spesso reciprocamente malfidata e né il rispetto, né l’onore, né la parola data regnino. È l’esatta conseguenza di una società che ha abbandonato il principio di equa disuguaglianza qualitativa per sposare quello di egualitarismo. Ma laddove tutti possano svolgere qualsiasi funzione, a governare non saranno i molti, in quanto questo è impossibile. Come spiegato prima l’autorità si esercita sempre nei suddetti termini, i pochi sui molti.
Quindi i migliori devono essere sempre pochi, ma non è detto che i pochi siano migliori. Ma se i pochi possono essere sia i migliori che i peggiori, i molti invece sempre saranno governati, mai saranno governanti. Ma laddove pochi uguali o peggiori dei molti esercitino su di essi il proprio potere, avranno chiaramente più di quello che loro spetta e in tal modo ad essere distrutta sarà l’unica uguaglianza vera, quella di equa disuguaglianza. Ciò accade sempre quando un qualcosa viene distaccata dal suo luogo naturale. L’uguaglianza ha senso come equità, come criterio distributivo, come equilibrio di termini diseguali. Se viene isolata, presa in se stessa e scissa da ciò che deve contenere, ovvero ciò che è diverso per natura, si trasforma nell’estremo dell’arbitrio e della tirannia.




