Dante: dall’esilio all’esonero il destino di un pensiero vivente

Mag 29, 2024

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Due studenti di religione islamica sono stati esonerati dallo studiare Dante a scuola. Ora, sfortunati loro verrebbe da dire, dato che gli è stata negata la bellezza dei versi del sommo poeta e la grandezza universale del suo pensiero politico che molto probabilmente con il mondo islamico avrebbe avuto un rapporto imperiale e non di subalternità, ben rappresentato dall’operato dell’Imperatore Svevo in Terra Santa. Il punto come al solito non è razziale e nemmeno religioso ma squisitamente politico (forse proprio antropologico): qualcuno in Italia, nella fattispecie i professori di sinistra, ormai da tempo ritengono Dante – a torto o ragione – un Nume del nazionalismo. Quale sarebbe altrimenti la paura di far studiare Dante ad un islamico? Forse la presenza dei musulmani nella Commedia?

Se si dovesse immaginare Dante come un suprematista bianco ante litteram si commetterebbero due “peccati”. Il primo è semplice: nella Commedia ci sono comunque più bianchi cristiani all’inferno, sarebbe sciocco pensare che i musulmani fossero in qualche modo nel suo mirino. Il secondo è d’ignoranza, perché si banalizza quello che in realtà è un rapporto molto più complesso: nella Divina Commedia è sì vero che Dante pone Maometto all’Inferno, tuttavia spiega Paolo Branca (Islamista all’Università Cattolica di Milano) “mostra rispetto per la cultura islamica mettendo i filosofi arabi Avicenna e Averroè nel Limbo, in attesa che salgano in Paradiso il giorno del Giudizio Universale“, insieme ai grandi padri della classicità pagana aggiungiamo noi e insieme al Saladino, sultano di Siria ed Egitto, il condottiero della riconquista musulmana della Terra Santa, riconoscendone quindi un valore guerriero ed una “Fides” strettamente “romana”. Sembra quasi che sia il monoteismo – nonostante Dante ne sia conformato dalla testa ai piedi – ad essere messo alla sbarra. O forse il messianismo? D’altronde è Dante stesso ad intraprendere il suo cammino di redenzione affiancato da Virgilio (un pagano), Beatrice (una donna) e, al culmine della sua ascesi verso Dio, San Bernardo (padre del monachesimo guerriero del recte scire e recto agere – quello che suggeriva il ritorno alla sapienza dei boschi). Diremo quindi che sicuramente era un “monoteista anomalo”, almeno nella scelta delle sue ancore alle quali aggrapparsi (letteralmente) durante il viaggio, almeno nel fargli riconoscere nell’Imperium la sovranità sul mondo terreno. All’epoca non era “poca roba”.

C’è quindi una tremenda aria di banalizzazione nel mondo scolastico ed accademico italiano: al contrario di ciò che una scuola dovrebbe fare, ovvero portare in alto gli studenti, vediamo come questa tenda a fuggire la complessità, spesso proprio in nome di una presunta (o pretestuosa) volontà di uguaglianza. Se non altro una scuola dovrebbe insegnare – più di qualsiasi altra cosa–- che non ci sono argomenti proibiti ed inaccessibili e che ogni “ricerca” non è mai definitivamente conclusa, così come il passato (e quindi il futuro) non è mai definitivamente “chiuso”.
La paura, quindi, più che del Dante poeta sembra essere proprio quella del Dante politico, del Dante sub-creatore di linguaggio e quindi di significato: simbolo di un pensiero imperiale europeo, simbolo del Risorgimento Italiano e ispiratore di un italianità che non resta comoda a leccarsi le ferite (o gli allori) ma crea da sé il suo percorso di civiltà attraverso una ciclica fase di catabasi nella quale deve aggrapparsi a quelle radici pagane che gridano dal profondo della Terra.

Quel “grido della Terra” che non è piagnisteo sul clima ma voce dirompente che arriva dal profondo e scatena il “panico” (πανικός), letteralmente ciò che concerne il regno di Pan, il fermento e l’anima di ogni cosa creata. È quell’italianità che sotterraneamente è sempre esistita: una “nazione carnale”, uno “sberleffo di ragazzo”, uno spirito di “viver libero e senza troppa moraletta” per usare le parole di Berto Ricci. Un’Italianità che per il Fascista toscano ha “un suono imperiale e di generosa umanità” perché non “si può fondare e spargere una civiltà se non si è universali”. Insomma un italiano è italiano quando mostra il carattere, le doti, il coraggio, la santità come la dannazione. È Italiano Caravaggio, pittore e bandito. È Italiano Dante, soldato-poeta e politico esiliato. È Italiano Enatù Endisciau, Muntaz etiope che nel 1941 durante la battaglia di Culqualber, dopo la caduta del ridotto di Debre Tabor non volle arrendersi al nemico e decise di portare in salvo il gagliardetto del suo reparto nelle proprie retrovie a costo di ferite mortali. Con buona pace di iussolisti che credono basti nascere entro certi limiti geografici per avere cittadinanza piena ed intera e quei iussanguinisti che credono… basti nascere entro certi limiti geografici per avere cittadinanza piena ed intera.

Di questo Dante qui – va detto – sono da tempo stati esonerati anche gli studenti italiani (cattolici o atei che siano), mentre “l’antica fiamma” che “s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani” è stata offuscata, banalizzata ed antologizzata sotto un atroce nozionismo. Intraprendere il cammino con Dante significa fare un passo al di là della ragione per addentrarsi negli strati più profondi, e quindi più creativi, della nostra mente ancorata al suo universo logico e coerente. Affidarsi ai suoi endecasillabi vuol dire accettare la sfida dell’ignoto e l’indecifrabilità del Labirinto; vuol dire sospendere il nostro spazio e tempo logocentrico per riattivare quella “mente orale” che fa parte del nostro retaggio almeno dai tempi di Eraclito e Parmenide, i sapienti “oscuri” che non spiegavano ma illuminavano, non “dicevano” ma “indicavano”; dai tempi dei carmi e delle cantilene; dai tempi delle fiabe e delle filastrocche. È un viatico per ri-conoscersi animali mortali presi nei perpetui giri, e da questa presa di coscienza sentirsi liberi di gridare Niccianamente: “Va bene! Ancora una volta!”. Non vi esonerate da questa possibilità. In fondo “ad ogni uomo è concesso di conoscere se stesso”. A patto di accettare la sfida di ciò che ama celarsi. Evidentemente anche sotto queste malsane trovate.