Chi abbia mai avuto la felice opportunità di ammirarlo al Musée d’Orsay (o quanto meno vederne una riproduzione da qualche parte), senz’altro ricorderà il quadro L’Angélus, di Jean-François Millet. La chiesetta di Chailly-en-Bière sullo sfondo, l’atmosfera ovattata di un mezzogiorno agreste, due contadini (forse coniugi?) intenti a raccogliere patate. D’un tratto, però, tutto s’interrompe. Il rintocco delle campane scandisce l’ora della preghiera, i lavoratori si fermano, e immersi nella totale armonia con la Natura che li circonda, si allineano con sé stessi, il proprio spirito, il frutto della loro fatica. Più che un’allegoria religiosa (o una rivendicazione socialisteggiante, come alcuni accusarono), L’Angélus di Millet è nostalgia olio su tela. Nostalgia della propria infanzia normanna, certo, ma anche di un tempo in cui il lavoro – per quanto duro, pesante, talvolta ingrato – consentiva all’uomo di scorgere nelle proprie mani uno strumento di creazione, e in sé stesso la dignità di chi, con un umile e quieto orgoglio, lavorando restituisce un senso profondo a una vita.
Purtroppo, quella preghiera silenziosa appare davvero figlia d’un altro mondo ormai morto. A ucciderlo, non tanto il progresso come idea, che con slancio prometeico aveva saputo ricevere il testimone da quel tempo passato, proiettando l’uomo verso le stelle nella tensione dell’acciaio, e verso il futuro nell’inventiva e nel genio artigiano della figura del capitano d’industria, figura che noi italiani, noi mediterranei più di altri abbiamo conosciuto con fierezza. Piuttosto, a sopprimere quella antica armonia fu la sua negazione più drastica, ovvero la ripetizione vana, la fatica spersonalizzante, la produzione ossessiva e sempre uguale, svuotata di ogni costruttività e di ogni forza spirituale, dilagata sì nel contesto della Rivoluzione Industriale, ma protagonista poi di un piano inclinato che dalla catena di montaggio ha condotto il lavoratore-consumatore, ormai non più uomo (o donna) ma pedina precaria, alla miserabile routine dell’azienda e dell’ufficio, e ai corridoi di un supermercato (o, più recentemente, agli schermi di computer) una volta timbrato il cartellino.
In tal senso, il cinema italiano, da sempre maestro nell’affrescare realtà dolorose ma vere, ha consegnato negli ultimi mesi agli spettatori due film diversi fra loro, ma in qualche maniera complementari nella loro tragicità. Due film bellissimi e strazianti, toccanti e controversi, capaci di raffigurare magistralmente l’imbuto esistenziale che è l’odierno mondo del lavoro, buco nero che tutto inghiotte, degrada, svilisce, e quindi risputa. Due opere che forse non saranno due capolavori, ma che inducono come poche altre a una riflessione critica e attiva, in grado – si spera – di non limitarsi soltanto a una pigra indignazione piccolo-borghese.
Michele Riondino, regista e protagonista di Palazzina LAF (2023, 99 min.) è di Taranto, e per decenni – sulle cronache, in televisione, nell’immaginario collettivo – Taranto ha significato – e, per certi versi, continua a significare – ILVA. ILVA, una sigla divenuta oggi quasi proverbiale, a immortalare per sempre una colonna secolare della siderurgia italiana scaduta a simbolo di malagestione, inquinamento, e drammatico avvizzimento di un’intera regione e del popolo che la abita. Un territorio, come con gran scoramento si ammette nel film, in cui “non si fabbricano forchette”, da cui Riondino ha iniziato la sua carriera di attore, che tra performance premiate e interpretazioni prestigiose (fra le altre, il gioiello Dieci Inverni, di Valerio Mieli), lo ha riportato alla fine a un passo da casa.
Un debutto alla regia estremamente personale, dunque, su canovaccio del durissimo j’accuse letterario Fumo sulla città, di Alessandro Leogrande, prematuramente scomparso e a cui il film è dedicato. Un esordio artistico che, significativamente, si apre su un funerale. La chiesa è la parrocchia del Gesù Divino Lavoratore, situata in uno dei quartieri più profondamente operai di Taranto, il quartiere Tamburi. Proprio sotto, o meglio, al cospetto di un imponente Cristo in mosaico che benedice le maestranze, si consuma l’ennesimo addio a un lavoratore, morto di sfruttamento. Un mesto commiato che sembrerebbe inaugurare uno dei tanti film sulle pietose condizioni della classe operaia (da Elio Petri in avanti, tanti ne abbiano conosciuti di stupendi). Invece, la vicenda si fa ancora più grottesca, e ancora più agghiacciante al pensiero che quanto narrato è accaduto davvero.
“Palazzina LAF”, letteralmente, significa “Palazzina del Laminatoio A Freddo”, e nei fatti era un edificio dismesso interno al complesso ILVA in cui la proprietà del colosso siderurgico confinava gli operai ‘scomodi’ a non fare nulla, sorvegliati a vista e con il divieto tassativo di interagire con gli operai di altri reparti. Un ozio totale, completo e obbligato, impossibile da rompere in qualsivoglia modo, e capace di protrarsi per mesi e anni, fino alla rieducazione o alla pazzia. Questo, infatti, il duplice scopo del castigo, dall’evidente sapore stalinista: usare la noia come metodo di tortura per rendere docile chi la subiva, o precipitarlo nella depressione e nella pazzia, assicurandosi al contempo di distruggerne qualsiasi reputazione professionale (se dentro la LAF regnava il limbo più insopportabile, all’esterno di essa tutti dovevano sapere come i pelandroni, i nullafacenti, gli scansafatiche che vi risiedevano godessero di un vero paradiso, consegnandoli al disprezzo e allo scherno dei colleghi).
La LAF, con i suoi “abitanti” alienati, i suoi corridoi pieni di anime perse, l’intonaco scrostato della facciata cadente, diventa un luogo quasi metafisico, simbolo materiale di una frammentazione spirituale che non risparmia nessuno: non le vittime di un sistema ingiusto che ne abusa, non i dirigenti (meraviglioso Elio Germano nella parte del mefistofelico dirigente, che con Riondino – Antonio Ranieri già aveva collaborato, interpretando divinamente Giacomo Leopardi, ne Il giovane favoloso di Mario Martone), avvezzi a ogni abietta meschineria e a loro volte rotelle di un ingranaggio ben più grande, non i lavoratori “qualunque” che tirano a campare, e resi miopi dalla realtà in cui sono immersi, non si rendono conto che soggiacere passivamente a logiche infami, o addirittura assecondarle dandosi alla delazione (questo fa, appunto, il protagonista Caterino Lamanna ai danni dei colleghi della LAF), non li salverà.
Se l’indubbia bravura di Riondino, che con Palazzina LAF non teme di immergersi nel fetore di un’incredibile pagina nera della storia d’Italia, centra il problema (impossibile dimenticarsi il rantolo dell’operaio sovrapposto a quello della pecora malata e morente, e la disperata sequenza della lettera al Vescovo), Cento Domeniche (2023, 94 min.), ne allarga ulteriormente la percezione, trascendendo le mere logiche di classe. Chi scrive, non è mai stato un grande ammiratore di Antonio Albanese: satira grossolana, buoni sentimenti e un retroterra ideologico perfetto per l’odierna Italia artistica. Molta era la perplessità per un progetto così anomalo nell’ambito della sua carriera. Difficile credere che l’interprete di Cetto La Qualunque avrebbe potuto realmente affrontare un’idea così tragica, senza far scadere il tutto in un vuoto volemose bene. Eppure, mai come al termine della visione di Cento Domeniche è stato bello e triste ricredersi.
Antonio Riva, come gli obliati di Palazzina LAF, è un lavoratore. Un operaio. Un uomo onesto che ha fatto del sudore della propria fronte e dei quarantatre anni trascorsi in un cantiere nautico a occuparsi di componentistica il vanto della propria esistenza. Non ha vizi, Antonio, oltre a una storiella clandestina con la moglie del suo capo. Non è impegnato in politica. Non ha tensioni particolari a smuoverne l’esistenza. Non ha passioni degne di nota, oltre alle bocce. Una quotidianità del tutto placida e tranquilla la sua, serena, senza privazioni e senza lussi, con pochi ma fidatissimi amici, una vecchia mamma da accudire, una figlia adoratissima in procinto di sposarsi. Una felicità minuta di un uomo positivo, perfettamente integrato nella piccola realtà paesana dal retrogusto quasi guareschiano, fatta di minute gioie, di ritmi posati, di caffè gustati al circolo del paese fra anziani che giocano a carte, di porte lasciate aperte la sera, di tanta, tanta fiducia condivisa.
Tanti vivono o hanno vissuto in contesti simili. Tantissimi, anche nella nostra Toscana. Uomini, donne, famiglie, persone semplici, magari poco istruite ma ben solide nei propri valori hanno speso e spendono intere esistenze nel paesello, fra – appunto – il circolo, la piazza, il bar, la chiesa, la posta, la banca. Già, la banca. Non un ufficio, non un luogo amministrativamente asettico, non un’entità distaccata e sovraordinata, fatta di burocrazie, cifre e terminologie finanziarie, ma un confessionale. In una realtà di paese, non ci si reca in banca soltanto per effettuare bonifici o discutere transazioni. In banca si parla, ci si confronta, si ricorda il passato e si pensa al futuro. Si saluta il vecchio direttore, che ha assistito le economie domestiche di più generazioni, e si accoglie il suo sostituto, si presentano progetti e storie, ci si accomoda alla scrivania di quell’impiegata carina o di quel giovane appena arrivato alla cassa, a loro volta figli o nipoti di qualche compaesano, magari proprio di quel nonnino appena entrato a ritirare la pensione, e insieme a loro si programma la vita, perché di loro, appunto, ci si fida.
Se la chiesa è il tempio dello spirito, la banca è il tempio dei patrimoni. La banca di paese c’è sempre stata, e sempre ci sarà. È una certezza, anche e soprattutto quando venti tempestosi spirano all’orizzonte. Così la pensano tutti, e così la vede anche Antonio, quando in banca si reca a richiedere un prestito per finanziare l’unico sogno di tutta la sua esistenza priva di scossoni: regalare un bel matrimonio alla figlia. Antonio stringe mani, chiacchiera lieto, si siede e firma. Firma tutto, firma senza leggere. Non ne ha bisogno. Perché dovrebbe fare domande a quei volti sorridenti e così familiari? In fondo, lui è un operaio, e loro sono lì apposta per consigliarlo. Antonio firma, firma tutto, e si condanna a morte.
Sia Palazzina LAF che Cento Domeniche attaccano con toni feroci e cupi le dinamche fetide che regolano l’economia di questa nostra Italia. Ma se nel film di Riondino era l’umiliazione dello sfruttamento, del conformismo e dell’oppressione da fabbrica a costituire il pernio centrale del narrato, l’opera di Albanese affresca un’altra umiliazione, un’altra atroce violenza perpetrata da vicinissimo: quella subita dal lavoratore defraudato non solo dei propri soldi, ma della propria identità e della propria eredità, della fiducia nel prossimo e della rispettabilità di decenni di fatiche e risparmi, del decoro di uomo e dei desideri di padre. L’umiliazione e la vergogna di riconoscersi ridotto a un numero, a una cifra, a una sigla, e di trovarsi, giunto all’età matura, a rendersi conto di essere vissuto inutilmente.
Tante sono le sequenze che in Cento Domeniche, nella terrificante discesa nell’abisso di un uomo buono, meriterebbero di essere ricordate, ma una su tutte emerge e ghiaccia il sangue: il sogno a occhi aperti di Antonio subito prima del lugubre finale della sua corsa, il sogno di portare all’altare la figlia, di scherzare con lei moglie come tante volte avevano immaginato insieme. Colori caldi, quasi eterei, colmi di affetto e di luce, prima del freddo tombale dell’ultima inquadratura, e poi del nero tenebra che conclude la pellicola, sovraimpressa una didascalia a ricordare a chi il film è dedicato, ovvero ai tanti, troppi italiani che negli ultimissimi anni sono rimasti vittime – come Antonio – di crac bancari dissennati e salvataggi altrettanto osceni, italiani dimenticati per la cui sorte nessuno ha mai davvero pagato e, verosimilmente, nessuno pagherà mai.
Una recente campagna militante promossa anche qui, su Identitario, recitava: “il lavoro nobilita, non uccide”. In quel caso, lo slogan andava inteso in senso letterale, riferendosi alle inaccettabili morti in cantiere che ancora, nel 2024, continuano funeste a susseguirsi. Tuttavia, vi sono anche altri modi in cui il tradimento dell’autentico spirito del lavoro può uccidere, assassinando l’anima e il cuore tanto di singoli uomini, quanto di intere comunità. Recuperare tale spirito, al di là di anacronistici primitivismi che non hanno ragion d’essere, è un dovere imprescindibile e improrogabile di ogni uomo, di ogni italiano. In tal senso, opere come Palazzina LAF o Cento Domeniche giungono drammaticamente necessarie, come nuovi, mesti, terribili Angélus di tempi grigi a ricordarci quanto mille propagande liberiste mai potranno davvero sotterrare nelle coscienze collettive: il lavoro – appunto – nobilita, non uccide, non inganna, non umilia.