Roma città eterna, idea-forza che non può essere circoscritta nel tempo. Nel corso della storia – italiana ed europea – l’Urbe è sempre tornata. Mito reificato in pensiero tangibile, si dice che il segreto della sua potenza sia nel mistero del nome stesso. In forze ancestrali ed esoteriche proprie di quel villaggio di pastori guerrieri che dal Palatino allargarono le proprie frontiere verso ogni angolo del mondo allora conosciuto. Tornando ogni volta più ricchi, non tanto materialmente, quanto a livello spirituale. “Questa divinità ci piace, facciamola nostra. Questa no, lasciamola qui” per dirla in maniera (un po’ più) volgare. Roma, ovviamente, come città fatale ai destini delle italiche genti. Centro in cui – ancora oggi e nonostante tutto – si misura il polso dell’intera nazione. Politicamente e culturalmente. E, perché no, anche quando parliamo di calcio.
Prendiamo la Lazio, ad esempio. Nata nei quartieri borghesi nella prima decade del 1900. Biancoceleste, omaggio all’Ellade, patria di Giove e delle Olimpiadi. Aquila regale ed elitaria, ha conosciuto la sua versione migliore a cavallo dei due millenni. Ovvero quando il pallone italiano ancora dominava in lungo e in largo il Vecchio Continente. «La squadra più forte del mondo» arrivò a definirla un certo Sir Alex Ferguson, uno che in carriera “qualche” trofeo l’ha vinto. Passando ai cugini, a coloro che della città portano il nome. La storia del rosso porpora e del giallo oro – del Sole e di Marte – inizia un quarto di secolo più tardi, unione di più forze provenienti dalle zone popolari dell’Urbe. Orgoglio e fierezza della lupa capitolina, che in questi anni bui per la nostra sfera di cuoio è stata avanguardia in terra europea. Cinque semifinali in sette anni e la prima, storica, Conference League del 2022. L’interruzione di quel digiuno nazionale lungo oltre un decennio. Regina dei cieli e superpredatore che – non a caso – si ritrovano insieme, incisi sulla colonna di travertino, nel bel mezzo della foresta tosco-romagnola, dove appunto sorge il fiume sacro ai destini di Roma.
Da buon argomento organico, disquisendo di calcio possiamo traslare con facilità il discorso dalle squadre (da un concetto comunque di gruppo in cui ognuno, in senso lato – dai calciatori ai tifosi – trova il proprio posto in questo micro-mondo) ai singoli. E lasciando da parte ogni campanile, concentriamoci proprio su tre figli della capitale che, se manterranno le promesse, avranno la possibilità di scrivere pagine importanti della nazionale di calcio. Il più anziano dei tre – si fa per dire – si chiama Gianluca Scamacca, professione attaccante. Fisico dirompente e spigolature caratteriali che (forse) ne hanno finora frenato la completa crescita. Alto, potente, ambidestro, ha nel repertorio praticamente ogni tipologia di gol. Con quell’esultanza un po’ così, come a dire “visto, è stato facile. Mi serve qualcosa di più arduo”. È cresciuto passando da una sponda all’altra del Tevere – dalla Lazio alla Roma – provando poi l’esperienza olandese (PSV Eindhoven) prima di tornare in Italia. Cremona, Ascoli, la Genova rossoblù, l’ottima annata in quella feconda provincia profonda che risponde al nome di Sassuolo. Poi i gol europei con il West Ham e oggi la (definitiva?) consacrazione vestendo il nerazzurro dell’Atalanta. A suo agio nei grandi palcoscenici, qualche settimana fa – moderno romano in Britannia – ha conquistato Liverpool, ammutolendo Anfield con un’indimenticabile doppietta.
Stesso anno di nascita (1999), ma di nove mesi più giovane Davide Frattesi. Novello campione d’Italia, dalla borgata di Fidene al triangolino tricolore di dannunziana memoria. Se – al di là del calcio – Roma è caput mundi, Milano, per la sua posizione geografica, per la sua importanza strategica, merita il titolo di capitale d’Europa. Proprio qui la bionda mezzala dopo tanto peregrinare (una gavetta in crescendo: Ascoli, Empoli, Monza, Sassuolo) ha siglato un paio di pesantissime reti ai fini della seconda stella nerazzurra. Assaltatore delle aree avversarie anche per lui, oltre all’esperienza in neroverde, un passaggio giovanile dal biancoceleste al giallorosso. Il suo domani, fatto di argento vivo e inserimenti, è già qui, pezzo pregiato dell’undici azzurro che tra pochi giorni dovrà difendere in Germania il titolo europeo. Soldato sull’attenti, pronto come sempre.
Classe 2002, invece, Riccardo Calafiori è la sorpresa individuale nella meraviglia corale in quel di Bologna. Dalla Balduina alla Via Emilia, opera d’ingegneria romana che permise, sfruttandola militarmente, la colonizzazione dell’Italia settentrionale. Profilo poliedrico – nasce terzino, si sta affermando da centrale – e mancino educato, prodotto oggi rimpianto del vivaio romanista. In attesa del debutto con la nazionale dei grandi (ma a quanto pare ci sarà anche lui in terra tedesca insieme a Scamacca e Frattesi) si è tolto lo sfizio di esagerare segnando due volte alla Vecchia Signora. Giocata totale nel caso della seconda marcatura: anticipo pulito sull’avversario, azione accompagnata e chiusa con uno scavetto – a proposito di romanità – alla Totti.
L’Italia chiamò, come ci ricorda giustamente la scritta posta sul colletto delle maglie azzurre. Si dice che nel pallone il nostro paese non produca più talento. Forse è vero. O forse no. In ogni caso non è questo il luogo per discuterne. Ci interessa di più constatare che ancora una volta Roma – impersonata dalla gioventù di Calafiori, Frattesi e Scamacca – è tornata. Non è mai (solo) calcio: l’Urbe con le sue conquiste rese la Dea Vittoria sua “schiava”. E il futuro d’altronde cos’è se non il ricordo – sempre uguale e sempre diverso – di uno stupendo passato?