Un popolo misterioso e antico, ma sempre affascinante: gli iperborei

Mag 13, 2024

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La Redazione di Identitario.org ringrazia La Verità per la concessione dell’articolo.


«Guardiamoci in faccia: siamo iperborei. Siamo ben consapevoli della diversità della nostra esistenza. “Né per terra né per mare troverai la strada che conduce agli iperborei”: già Pindaro riconosceva questo di noi. Oltre il nord, oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita, la nostra felicità…». Queste parole, che Friedrich Nietzsche pone in modo enigmatico all’inizio del suo Anticristo, proiettano in piena modernità uno dei miti più antichi delle genti europee e non solo: quello, appunto, sui misterioso abitanti che dimoravano nell’estremo Nord del mondo. Per Giacomo Maria Prati si tratta anzi del «primo mito», come recita il titolo della sua ultima fatica: Iperborei: il primo mito (Passaggio al bosco). Si tratta di una perlustrazione mitografica assai raffinata attorno al tema di questo popolo ancestrale, citato da tutte le fonti antiche.

Ecateo di Mileto li situa all’estremo tra l’Oceano e i Monti Rifei, nel settentrione più remoto. Un suo quasi omonimo, Ecateo di Abdera, scrisse addirittura un’opera Sugli Iperborei di cui ci sono pervenuti solo alcuni frammenti: egli colloca la terra di questo popolo in un’isola dell’Oceano «non minore della Sicilia per estensione». Degli iperborei parla anche Erodoto e, soprattutto, Pindaro, che in una delle sue odi Pitiche scrive che Apollo nei mesi invernali è solito dimorare nella terra degli iperborei, descritta come una sorta di paradiso di eterna giovinezza e abbondanza. È qui che troviamo la citazione riferita da Nietzsche: «Né per nave né a piedi potresti trovare la meravigliosa via per le feste degli Iperborei. Un tempo Perseo, condottiero di popoli, visitò le loro case e festeggiò in mezzo a loro, quando li trovò a celebrare gloriose ecatombi di asini per il dio. Apollo gioisce molto delle loro feste e delle loro preghiere, e ride quando vede l’eretta arroganza degli animali. La Musa non è assente dalle loro usanze; tutt’intorno turbinano le danze delle ragazze, gli accordi forti della lira e le grida dei flauti. Essi si incoronano con aurei rami d’alloro e si divertono con gioia. Quel popolo sacro non conosce malattia o vecchiaia; senza fatica o battaglie vivono lontani dalla paura della dura Nemesi».

Verità o leggenda? Né l’una, né l’altra. O forse tutte e due contemporaneamente. Il mito, per definizione, si pone al di qua delle divisioni schematiche e razionaliste, prima di ogni fact cheking storiografico. Sta di fatto, spiega Prati, che «quasi tutte le mappe del mondo e del Settentrione fra inizio Cinquecento e fine Seicento contengono almeno un riferimento al Mito degli Iperborei o a terre simili come quella delle Esperidi o almeno qualche influenza del racconto greco del Nord». L’autore distingue pure l’antica Hyperborea da due terre analoghe con cui spesso è confusa: Thule e Atlantide. Scrive Prati: «La terra degli Iperborei non va confusa con Thule né con Atlantide. La prima è isola nell’estremo nord che rappresenta una terra dove i greci discendenti di Heracle si incontrano con alcuni che vengono dagli Iperborei e vivono insieme da tempo. Si tratta come di una terra a metà strada fra Iperborea e l’Europa dei Celti», mentre invece Atlantide «è una grande isola dove era molto venerato Poseidone e un tempo era molto potente e bellicosa. Ora è per metà ghiacciata e per metà sommersa».

Nella geografia sacra degli antichi, la terra degli iperborei si rispecchiava in quella degli etiopi (termine che etimologicamente significa «viso bruciato»):

«Gli Etiopi sono i popoli speculari rispetto agli Iperborei e dirne qualcosa aiuta a capire i secondi. Zeus banchetta una volta all’anno tra gli Etiopi come Apollo tra gli Iperborei. Gli estremi confini australi del mondo assomigliano agli estremi confini boreali […]. Alla palude boreale detta Meotide corrispondono nell’estremo sud le paludi tritonie di cui parla Apollonio Rodio, mentre come la Luna è assai venerata al Nord estremo, là dove la sua luce non fa male alla salute e là dove appare più vicina alla terra, così il Sole brucia il volto di quei popoli che dalla loro pelle rossa vengono chiamati appunto “etiopi”».

Il «primo mito» non ha cessato di affascinare e attrarre gli europei, anche in epoca moderna. Abbiamo citato Nietzsche, che ne fa una menzione essenzialmente letteraria. Ma, tra Ottocento e Novecento, il tema attrasse tutta una serie di studiosi, a cavallo tra storiografia, etnografia e ideologia politica. Impossibile non citare l’olandese naturalizzato tedesco Herman Felix Wirth (1885-1981), co-fondatore insieme con Heinrich Himmler dell’Ahnenerbe, nonché primo presidente della stessa fino al suo allontanamento avvenuto nel 1937-’38 e che nel saggio Der Aufgang der Menschheit approfondì il tema dell’origine artica dell’uomo europeo. Ma merita una menzione anche l’indiano Bal Gangadhar Tilak, che ritenne di aver trovato nei Veda le prove dell’origine polare degli antichi invasori dell’India. Tutti temi che confluirono poi nelle tesi di Julius Evola. Ovviamente l’ombra di un mefistofelico e presunto arianesimo nordizzante ha gettato discredito su tutte queste ricerche, relegando il tema iperboreo all’ambito delle leggende sinistre. I miti, tuttavia, hanno radici più profonde delle ideologie. E anche vita più lunga.