Non dovrebbero esserci uomini del New England, di New York ecc., conosciuti sul continente se non con il nome di americani» che condividono «gli stessi diritti fondamentali degli inglesi». Crisopher Gadsden
Le idee dei geni e degli “uomini sagaci”, sono organiche e germinali, sono il “seme” delle scritture. Ezra Pound
Al pari di altre, la storia degli Stati Uniti d’America è colma di rotture epocali. Tra gli attori che se ne sono fatti carico, ne emergono alcuni che, ancora oggi, sono commemorati dall’odierno dibattito pubblico. Molti sono persino bersagliati dai deliri in salsa woke e improntati dall’ossessione del politicamente corretto. L’emersione violenta di alcuni atti evidenti emersi negli ultimi anni, sono quelli d’una lunga serie cementata dalle rotture d’una nazione ancora oggi frammentata. Gli strascichi della guerra civile emergono in maniera tambureggiante in una nazione controversa. A tal proposito, tra i libri che hanno brillantemente colto nel segno di questi anni, vi è L’altra America. L’anima profonda degli Stati Uniti, dall’identità sudista al fenomeno Trump [1] di Federico Franzin.
Dichiarazione d’Indipendenza
Con Thomas Jefferson abbiamo una delle figure maggiormente rinomate nella storia degli Stati Uniti d’America. Il suo volto giganteggia persino sul Monte Rushmore, nel South Dakota. Virginiano sino al midollo, nasce nel 1743 a Shadwell da una famiglia di stampo aristocratico. Nel 1769 si diploma in legge al College di Williamsburg, divenendo poi avvocato. Nel 1769 inizia la sua carriera politica come rappresentante del Parlamento della Virginia e dal 1779 al 1781 ne è stato il governatore. Dal canto suo, ha indubbiamente dato delle impronte indelebili nei processi politico-rivoluzionari Nordamericani: da Padre Fondatore, è stato il primo firmatario ed estensore della Dichiarazione d’Indipendenza, segretario di Stato di George Washington, vice-presidente di John Adams e terzo presidente degli Stati Uniti d’America. Egli ebbe anche incarichi in Europa, dato che nel 1784 si reca a Parigi in compagnia di Benjamin Franklin e Joh. Adams. Nella capitale francese ricopre prima la carica di plenipotenziario, e successivamente diviene ministro come sostituto di Franklin [2].
Il virginiano Jefferson, dal canto suo, ha a cuore il destino della sua nazione. Il 1776 è decisivo per le sorti di quel popolo. Il Congresso rimane attonito da ciò che sta accadendo nelle Colonie. L’intransigenza dei patrioti e l’impatto del Common Law non aiutano ad un approccio sereno nel dibattito. Restando su alcuni esempi, il 4 maggio dello stesso anno il Rhode Island chiede ai proprio delegati di non effettuare l’usuale giuramento a Giorgio III. In Virginia il 15 maggio si tratta un’altra risoluzione: si raccomanda ai delegati del Congresso «di proporre a quel rispettabile corpo di dichiarare che le Colonie sono stati liberi e indipendenti». Tuttavia, la situazione non è ancora delle migliori per concepire il futuro del Nordamerica. Il 7 giugno, Richard Henry Lee, porta al Congresso tre risoluzioni: una perché si cercassero alleanze straniere, la seconda ha invece lo scopo di dar vita ad una Confederazione, mentre la terza riprende la risoluzione della Virginia del 15 maggio. Quest’ultima ha lo scopo di dichiarare l’indipendenza delle United Colonies. In tal senso, la strada verso l’indipendenza pare la sola possibile. Perciò ci si adegua alla linea di Lee e nascono tre commissioni. In una di queste vi sono tre membri di nota caratura come Benjamin Franklin, lo stesso Thomas Jefferson, Roger Sherman, John Adams e Robert Livingston. Costoro hanno il compito del tutto peculiare di «preparare una dichiarazione d’indipendenza». Il dibattito decisivo ha inizio il 1° luglio [3] e l’intensità con la quale si giunge ad una conclusione è inequivocabile. Il richiamo indipendentista della Dichiarazione, all’epoca, ha fatto divampare un meccanismo «globale» ; considerati financo gli svariati movimenti indipendentisti e rivoluzionari susseguitisi nel XVIII secolo – non si diede il giusto peso alla sua reale portata. Come afferma David Armitage
Dopo il 1776 per quasi quattro decenni gli americani diedero quasi più importanza al successo concreto dell’indipendenza che non allo specifico documento che l’aveva proclamata, e fu solo durante gli ultimi dieci anni di vita di Jefferson che la Dichiarazione cominciò a essere vista come l’articolo principe delle «sacre scritture americane», celebrate negli Stati Uniti, da allora, ogni quattro di luglio [4].
Esso è un documento allo stesso tempo “eccezionalista”, d’una portata universale. Ma non viene colto immediatamente il senso di un gesto epocale. Malgrado gli entusiasmi generali, infatti, lo stesso Jefferson, con palese modestia, ammette di non aver creato nulla di nuovo rispetto all’epoca. Nonostante ciò, nel 1825 lo definisce come un «appello al tribunale del mondo» [5]. Tuttavia, se apriamo una parentesi, nonostante le aperture globalizzanti d’una certa storiografia intrisa di «studi postcoloniali e Global History, unita nell’eleggere come suo idolo polemico ogni presunto «eurocentrismo», insiste con più forza sull’impatto universale della rivoluzione americana» [6], concordiamo con Giovanni Damiano nella sua analisi che si distanzia da tale apologetica di comodo. «Piuttosto – osserva Damiano -, seguendo il caso di Thomas Jefferson, ritengo più perspicuo limitarsi al contesto rivoluzionario francese, indubbiamente favorito e influenzato dall’esempio americano, e che ingenerò tra gli stessi rivoluzionari come Jefferson la speranza di vedere un’Europa affrancarsi dai suoi regini «tirannici» in modo di porsi non più in contrasto ma in profonda consonanza con gli ideali americani» [7].
L’avvocato e politico virginiano ebbe l’incarico di redigerne una bozza, che in un breve lasso temporale viene modificata. L’intralcio riguarda l’abolizione della schiavitù, elemento contrastato da Stati come Georgia e South Carolina. Inoltre siamo di fronte a un documento non estraneo alla logica di Common Sense di Thomas Paine. Peraltro non sono mancate le accuse alle usurpazioni da parte del re. Jefferson, nel 1774, da vita alla Summary View of Rights of British America; e anche in tali circostanze ha scritto una lista d’ingiurie rivolte al sovrano da parte della House of Burgess della Virginia. Le accuse non erano tuttavia rivolte al re in persona, bensì al Parlamento, che secondo il virginiano non avrebbe dovuto legiferare nelle colonie.
La Dichiarazione d’Indipendenza, insomma, si scaglia fortemente contro la figura del re; imputato a sua volta di numerosi torti e misfatti nei confronti del popolo giunto in quei luoghi del Nordamerica. Seppur cementate da energia e vigore, le accuse restano vaghe. Esse, ad esempio, prendono spunto dal mancato incoraggiamento d’immigrazione nelle colonie, il blocco delle assemblee e quello del commercio, e molto altro. Nella bozza originaria della Dichiarazione, Jefferson scrive che Giorgio III ha mosso una guerra crudele contro la stessa natura umana, violando i suoi diritti più sacri alla vita e alla libertà nelle persone appartenenti a un popolo lontano che mai l’ha offeso imprigionandole e trascinandole in schiavitù in un altro emisfero, o condannandole addirittura a una morte miserabile durante il viaggio. Questa guerra piratesca, obbrobrio delle potenze degli infedeli, è la guerra del re CRISTIANO della Gran Bretagna […]. E poiché in questa congerie di orrori non pare esserci posto per una morte gloriosa, ora [il re] sta aizzando a levarsi in armi contro di noi e a guadagnarsi la libertà, assassinando coloro cui egli l’ha imposta, proprio quella gente a cui egli tale libertà ha tolto, sbarazzandosi così del peso dei vecchi crimini commessi contro le libertà di un popolo con nuovi crimini che egli spinge questo popolo a commettere a danno delle vite di un altro [8].
Nota David Armitage che tale passaggio può rivelarsi alquanto anomalo, poiché «Jefferson era coinvolto nella questione della schiavitù, sia perché queste parole sarebbero state inevitabilmente depennate dalla versione finale della Dichiarazione da parte dei rappresentanti di quegli Stati che intendevano proseguire il commercio di schiavi o che quantomeno vi avessero avuto parte prima del 1776». Anche il commercio degli schiavi venne imputato al re. Tuttavia, il più lungo passaggio che venne eliminato dalla bozza di Jefferson, fu quello che definiva come «popolo», sia gli abitanti liberi dell’America britannica, sia gli schiavi [9]. «Popolo» che, nella versione definitiva porta con sé un cambio di paradigma rispetto alla tradizione inglese. Ovvero – se si toglie l’elemento schiavista che portò un’evidente contraddizione – si affermava che gli uomini, per natura, sono nati uguali. Pertanto, non si avevano più di fronte dei sudditi, bensì dei soggetti, che, in caso di evidente tirannia, avrebbero potuto abbattere il governo. Tuttavia, David Armitage afferma che la volontà non era quella di recidere totalmente i legami con la tradizione politica e giuridica del Vecchio Continente; l’ intenzione non era quella di propagare «un incitamento alla ribellione o alla rivoluzione in altre parti del mondo», bensì andrebbe letta come «un incoraggiamento alle riforme» [10]. Lo scopo principale degli americani, insomma, era quello di entrare nello scacchiere internazionale al pari di altre nazioni.
Abbiamo già affermato in precedenza il fatto che Thomas Jefferson, con una sorta di modestia, avesse sminuito il ruolo palesemente rivoluzionario di quella Dichiarazione. Tutto ciò, forse, non rendendosi conto dell’importanza epocale dell’avvenimento: esso diede l’inizio alla modernità politica. Non solo: come già abbiamo affermato, quell’evento ebbe un richiamo globale. E l’impronta accusatoria nei riguardi del re evidenzia in maniera evidente l’impronta del Jefferson avvocato. Oltremodo, nel preambolo egli inizia con un perfetto stile illuminista in cui scrive che «un doveroso rispetto per le opinioni dell’umanità» richiede che si spieghi perché un popolo intenda sciogliere i legami che lo hanno unito a un altro, per assumere «la posizione separata e uguale» a quella degli altri popoli fondata sui diritti ai quali ha titolo in base alle «leggi di Natura e del dio della Natura»: un popolo e fra i popoli della terra e un Dio che non è il Dio biblico, ma un nature’s God [11].
Successivamente il Jefferson avvocato si coagula con quello politico. Nonostante si faccia appello a dimensioni come la vita, la libertà e il perseguimento della felicità – insieme a richiami lockiani permeati di illuminismo scozzese – la sua ratio giuridica non è illuminista, bensì medievale. È il re che non aveva adempiuto sino in fondo ai suoi doveri. Paradossalmente, infatti, gli americani ne uscirono come «conservatori». Tiziano Bonazzi, infatti, nota che il re è venuto meno ai suoi doveri di difesa del popolo rompendo così il patto di protezione e obbedienza su cui, secondo la tradizione giuridica feudale, si fondava l’obbligazione politica, cioè l’obbligo di obbedire. È diventato tiranno cosicché il popolo è sciolto da ogni dovere nei suoi confronti. In questo modo Jefferson esclude che gli americani siano dei ribelli perché è stato il re che ha «abdicato», cessando di compiere i suoi doveri, per cui essi si trovano in uno stato di natura dal quale escono dichiarandosi popolo e fondando una nuova comunità politica [12].
Con la Dichiarazione d’Indipendenza, infatti, si compie un regicidio simbolico: ciò è dimostrato dall’abbattimento della statua di Giorgio III a New York, il 9 luglio. Coi resti vengono fabbricate delle pallottole. Sebbene la ratio giuridica possa far riferimento alla tradizione medievale, vi è un connubio tra essa e il contrattualismo moderno. Quest’ultimo prevedeva l’uguaglianza degli individui sin dalla nascita: a quel punto, sono loro «a fondare un governo del quale sono soggetti e non sudditi». Al di là d’ogni particolarità svoltasi attraverso alcune rotture che portano alla Dichiarazione, ha giustamente osservato Giovanni Damiano in un suo articolo degno di nota, «le caratteristiche indubbiamente originali che hanno connotato il processo di formazione degli Stati Uniti hanno favorito la nascita, nel popolo americano, di una percezione di sé come destinatario di «un progetto d’avvenire» assolutamente irriducibile a ogni altro popolo» [13]. Sicché I patrioti americani infatti hanno sempre avuto piena consapevolezza dell’assoluta novità rappresentata dalla loro ribellione nei confronti della madrepatria. Da qui l’esigenza di un «sovraccarico» ideologico per poterla giustificare. E, per inciso, non è un caso che la ribellione abbia incontrato forti resistenze fra gli stessi coloni, molti dei quali rimasti «lealisti», tanto da innescare una feroce guerra civile a cui fece seguito, a testimonianza della rilevanza del fenomeno, una emigrazione politica in proporzione più alta di quella della rivoluzione francese [14].
Le Ordinanze del Nordovest
Tralasciando gli eventi bellici che scoppiano in maniera decisa successivamente alla ratifica dell’Indipendenza – e che terminano con l’affossamento inglese -, giungono i trattati di pace. Essi hanno inizio a Parigi nel 1783 e si concludono con la ratifica del Congresso. Tuttavia, la Gran Bretagna – che non ha avuto un colpo di grazia decisivo – prosegue nella sua supremazia in quei territori, che permeano anche al di là del territorio Nordamericano. Nel bel mezzo di tali eventi, avviene la ratifica di alcuni documenti, come gli Articoli di Confederazione e il Model Treaty, entrambi del 1776. Gli Articoli di Confederazione rappresentarono il «primo documento amministrativo degli USA: le ex colonie britanniche si univano in una confederazione di stati indipendenti». L’evento è chiamato in causa anche nell’autobiografia di Thomas Jefferson. Egli, oltre a citare passi con un’impronta molto tecnica del documento in questione, espone anche le differenti opinioni che videro la luce in quei momenti. Con spirito cronachistico, il virginiano argomenta le varie opinioni di Samuel Chase, John Adams, John Whiterspoon, Stephen Hopknins ecc. L’elemento chiave, anche in tal caso, riguarda la questione della schiavitù, e il ruolo di prevalenza dei cosiddetti “abitanti bianchi”, insieme ai possedimenti che si potevano ottenere, insieme agli schiavi [15]. Sugli abitanti “bianchi”, pare necessaria una precisazione: chi erano i “bianchi” per alcuni dei Padri Fondatori? Il “bianco”, all’epoca, può essere incanalato nell’alveo dei costrutti sociali. Secondo Mattias Gardell, per i Padri Fondatori, i “bianchi” erano gli anglosassoni; ovvero coloro che avevano diritti politici. Riportando alcune parole di Franklin, afferma che egli «asseriva che “gli spagnoli, gli italiani, i francesi, i russi [i tedeschi], hanno in genere ciò che definiamo una carnagione scura”; egli auspicava l’aumento della popolazione “esclusivamente bianca”, dei “sassoni” e degli “inglesi” (citato in Jacobson1998,p.40)» [16]. Gardell, riguardo a ciò, rammenta persino l’elemento del pensiero jeffersoniano
Thomas Jefferson condivideva il concetto, allora diffuso, che l’antica Inghilterra fosse stata una terra di piccoli proprietari agricoli, liberi ed eroici, il cui sistema sociale e politico fu distrutto durante la Conquista normanna del 1066. Attraverso la separazione dell’Inghilterra, i rivoluzionari americani avevano eliminato dalla società elementi della corruzione normanna come la monarchia, i nobili, la chiesa di Stato e il sistema feudale; emularono, insomma, il sistema dei propri antenati tribali, amanti della libertà (Horsman1981, pp.18-23). La visione ideale di Jefferson, rispetto alle micro repubbliche di sei miglia quadrati circa, ognuna dotata di una polizia locale, e responsabile della cura dei poveri, degli anziani e dei disabili, si basava sulla sua interpretazione della “costituzione naturale” anglosassone. Questa idea si rispecchia tra i moderni pagani norreni nel richiamo al ritorno della società al “socialismo tribale” dei loro antenati pagani. Sebbene non si materializzò mai il decentramento radicale auspicato da Jefferson, prevalse il romanticismo anglosassone, rafforzato da romanzieri come Sir Walter Scott, l’autore di Ivanhoe; gli atteggiamenti si estremizzarono ancora di più nel conflitto con le ondate migratorie provenienti dall’Europa cattolica [17].
Ciò non è tuttavia sufficiente per concepire la complessità degli allora Stati Uniti. Antischiavismo, regolamenti, trattati e legami fra gli Stati stessi, rappresentano un barlume di analisi che dovremmo analizzare cogli elementi intricati facenti parte della storia e della politica. Sicché, successivamente alla guerra d’indipendenza, l’Unione è concepita come a forte rischio. Perciò si tenta la carta dell’espansione verso Ovest, con le sue terre fertili. Esse, nelle menti dei coloni, avrebbero potuto concepirsi come una nuova e corposa speranza. Ciononostante, vi sono Stati minori come il Delaware e il Rhode Island che – non avendo sbocchi territoriali – non avrebbero potuto nutrire le medesime aspettative. Dall’altro lato Virginia, New York e Pennsylvania possono espandersi e sovrastarli politicamente [18]. In ogni caso, per costoro anche i nativi, rappresentano un ostacolo. Sino agli inizi degli anni Ottanta del Settecento, il «dominio federale si limitava a nord e a ovest del fiume Ohio. A Sud, la Virginia aveva annesso il Kentucky; la Carolina del Nord mantenne il Tennessee e la Georgia rivendicava le aree a ovest dei suoi confini sino alle sponde del Mississippi». Perciò, per trovare una soluzione efficace, sono necessari elementi che non avrebbero dovuto scontentare gli stati minori e, allo stesso tempo, controllare i movimenti dei pionieri. Per il Congresso, infatti, tali territori – una volta “acquisiti” – avrebbero dovuto far parte dell’Unione.
Thomas Jefferson, anche in questo caso, ha un ruolo di rilievo. Egli redige un primo documento che viene approvato in via provvisoria nel 1784: la prima «Ordinanza del Nordovest»; la quale porta alla suddivisione del dominio federale in dieci territori. E una volta che questi ultimi avessero raggiunto l’unità di 20.000 cittadini liberi, avrebbero potuto dar vita ad una Costituzione e – quindi – ad un nuovo stato. Tuttavia, nel 1785, è approvata una nuova «Ordinanza del Nordovest»: in questo caso, si regolamentava la vendita delle terre. Per evitare ulteriori attriti sulla proprietà, dal punto di vista tecnico, il dominio federale doveva organizzare il dominio federale in un reticolato di «municipalità di sei miglia per lato suddivise in trentasei sezioni di un miglio quadrato (640 acri). Dopo la mappatura, la terra sarebbe stata venduta all’asta al prezzo minimo di un dollaro per acro» [19]. L’obiettivo era anche quello di regolamentare un territorio che non somigliasse molto al governatorato imperiale britannico. Pertanto, l’Ordinanza definitiva, fu approvata nel 1787.
Come abbiamo già affermato, Thomas Jefferson non era per nulla estraneo al susseguirsi degli eventi e delle ordinanze. Tiziano Bonazzi scrive che «la Nortwest Ordinance rispecchiava le idee di Jefferson in quanto rappresentante della parte socialmente e politicamente più aperta dei modernizzatori, quella che puntava a una nazionalizzazione che mantenesse integra l’idea repubblicana di governi voluti dal popolo e da esso controllati» [20]. Ma non solo. Essa rappresenta il maggior successo politico della Confederazione; ma non risolse, anzi, potenzialmente complicò con la prospettiva di una proliferazione degli stati, la questione istituzionale. Inoltre, se essa, sempre in prospettiva, faceva dell’ovest uno spazio agricolo dominato da piccoli contadini proprietari – e questa fu l’idea che Jefferson promosse quando giunse alla presidenza nel 1800 -, nell’immediato rafforzava la posizione economica delle élite dell’est [21].
Thomas Jefferson e Alexander Hamilton
Al di là del ruolo di Jefferson nel processo costituzionale – che non sarà qui menzionato – possiamo a grandi linee immergerci nelle linee guida che il virginiano ha nella sua mente nel campo dell’economia. Esse possiamo ritrovarle ne Le Note sulla Virginia (1785). Jefferson, dal canto suo, esprime le difficoltà d’aver avuto un commercio interno di portata significativa, nonostante le difficoltà e le rotture dei precedenti conflitti. Inoltre, il mondo agricolo e i lavoratori della terra sono da lui esaltati e proclamati come «il popolo eletto da Dio». Assieme al settore manifatturiero, l’agricoltura e i suoi derivati sono i prediletti negli scambi col Vecchio Continente. Le produzioni del manifatturiero negli Stati Uniti, secondo Jefferson , rischiano di danneggiare quelle tradizioni e quello spirito popolare che avrebbero mantenuto la Repubblica nel suo splendido vigore [22].
La questione economica è un altro motivo di scontro con Alexander Hamilton, altro padre fondatore. Nonostante nel 1790 vi fosse un indubbio successo delle politiche federaliste che, secondo lo storico Alan Taylor, «portarono pace, prosperità e popolarità», i loro programmi creano alcune divergenze: tra gli americani vi è chi grida al tradimento dei principi rivoluzionari; mentre coloro che avversano Hamilton credono che il suo piano fiscale sia «una proposta opportunistica che aveva lo scopo di controllare i membri del Congresso coinvolgendoli nei fondi pubblici e nella banca nazionale»[23]. La money question è insomma un affare che sin dal principio della storia statunitense non ha un ruolo marginale. Da avversario di Hamilton, Jefferson si cementa nella causa d’una banca nazionale pubblica; perciò, persino in tale frangente, emerge in maniera diffusa la palese distanza tra il Nord forgiato dall’elemento industriale, e il Sud agricolo. T.J. – come lo appella il poeta Ezra Pound -, osserva Luca Gallesi, è stato un fervente repubblicano. Ciò ci aiuta a comprendere l’ostilità nei confronti d’un potere centrale che mostra in maniera eccessiva la propria forza. Al contrario, i Federalisti rappresentavano quelli che saranno gli odierni Repubblicani; ovvero chi ebbe l’occasione di avvicinarsi a quelle che erano le istanze centraliste e i ceti economicamente più elevati[24]. Nota frattanto Giovanni Damiano che la ««repubblica agraria» di Jefferson mirava a conservare le antiche virtù senza però cadere nel feroce utopismo giacobino, che al contrario intendeva servirsi dell’immaginario neoantico (Marc Fumaroli) per costruire una società astratta e dunque del tutto sradicata da ogni concreto contesto storico, che di conseguenza poteva essere imposta solo col ricorso del Terrore» [25]
La presidenza
Nel 1794, Jefferson si apparta dalla vita pubblica. Tuttavia il suo non è un allontanamento definitivo: tre anni dopo diviene in vice-presidente di John Adams, e nel 1800 diviene presidente egli stesso. Definito da Gallesi «figura decisamente atipica» nel panorama politico del XVIII secolo, si oppone alle forze economiche che, come obiettivo dichiarato, hanno lo scopo di controllare le manovre politiche. Thomas Jefferson è stato tra i pochi che in quegli anni si sono opposti a esse. La money question richiamata in precedenza è una di tali occasioni. Altro cavallo di battaglia del virginano è stata quella per la libertà religiosa. In tal senso, nel 1786 le assemblee di stato approvarono un progetto di legge propugnato da lui e da James Madison che prevedeva la libertà di culto. Essi, furono anche tra coloro che si schierarono con gli evangelici della Virginia: il loro obiettivo era l’abolizione dei finanziamenti pubblici alle chiese [26].
Jefferson – l’abbiamo appena detto – è eletto presidente nel 1800. Il suo mandato dura otto anni. Per Alan Taylor, durante le elezioni di quell’anno, la maggior parte dell’elettorato s’è convinto che si dovesse optare per un governo che avesse un’impronta maggiormente conciliante nei confronti del popolo; tant’è che un giornale repubblicano dell’epoca sottolinea come «la Rivoluzione del 1776 è avvenuta adesso, e per la prima volta è giunta a compimento». Il padre fondatore vince perlopiù grazie ai deputati e agli elettori del Sud, che lo portano a un bottino di voti dell’82%, a discapito di un 27% arrivato dal Nord. Il neopresidente, pertanto, attraverso alcune misure, afferma la sua volontà conciliante, persino coi federalisti. Pone inoltre le basi per l’espansione e il dominio nel territorio del Nordamerica. Il suo «impero della libertà» non frena l’indole espansiva verso i territori dell’ovest; facendo frattanto pressione sugli indiani perché gli concedessero in maggior numero di terra. La sua presidenza s’imposta financo – anche questo è stato già sottolineato – su basi etniche. Nel suo governo democratico, i bianchi avrebbero dovuto avere la gerarchia più alta rispetto alle altre. Egli non è intrigato nemmeno da ciò che accade ad Haiti in quegli anni: per l’allora presidente non è un buon esempio per gli schiavi americani. Per quanto concerne gli acquisti territoriali, invece, nel lasso temporale del suo mandato la Louisiana e l’Ohio entrano a far parte degli Stati Uniti[27].
Altro elemento degno d’interesse lo rammenta ancora Damiano, quando scrive che «sempre Jefferson, in pieno Roman Revival, nel progetto del Campidoglio di Richmond, in Virginia, volle replicare l’antico tempio romano di Nimes, così come si rifece al Pantheon per la Rotonda dell’Università di Charlottesville, ancora in Virginia» [28].
Thomas Jefferson muore nel 1826, a poche ore dal decesso di un’altra figura rilevante come John Adams. Luca Gallesi lo definisce, tra l’altro, come difensore degli schiavi e schiavista, pacifista e vincitore di guerre, Cincinnato che abbandona la scena politica per tornarci da Presidente, e per due mandati, difensore geloso della legalità e spregiatore dei vincitori che gli avrebbero impedito scelte politiche come l’acquisto della Louisiana: sarebbe facile accusare Jefferson di incoerenza, ma solo per chi sbircia la storia dal buco della serratura, per i sepolcri imbiancati e soprattutto per i grandi chiacchieroni pronti a giudicare senza mai mettersi in gioco.
Jefferson e/o Mussolini. Il parallelo di Ezra Pound
Un parallelo che per alcuni può risultare frivolo e bizzarro, lo possiamo ritrovare in alcune pagine di Ezra Pound, il poeta dell’Idaho che – come altri, all’epoca – ha incanalato il fascismo in un velo poetico. Scrive Adriano Scianca che «Jefferson and/or Mussolini fu scritto da Pound nel 1933 e pubblicato nel 1935 a Londra. Nel 1944 fu tradotto in italiano, con qualche modifica e titolo cambiato (cadeva quella “o”, come a dire che fra i due non doveva più esserci alternativa, ma solo complementarietà)» [29]. Per Pound entrambi i rivoluzionari e uomini politici, al di là delle apparenti divergenze, hanno molte analogie. «Le affinità sostanziali tra questi due capi – scrive – sono probabilmente più grandi delle differenze. Non mi sto intrappolando in un paradosso. I loro atteggiamenti esteriori difficilmente potrebbero essere più diversi, tutte le cose in superficie lo sono. I loro modi di esprimersi, o almeno i discorsi più conosciuti, differiscono indubbiamente in alto grado» [30]. È ben lungi dal poeta non concepire le dovute discrepanze inerenti alle rispettive epoche.
Ad ogni modo, Pound, senza remore, trova in ambedue una sorta di rifugio ideale. Ancora Scianca scrive che «L’America delle origini, rurale, frugale, pratica, moderna, ostile ai banchieri, rivive per Pound proprio in quel fascismo che gli appare soprattutto come un movimento pragmatico, popolare, modernizzatore. Una rivoluzione senza preconcetti, attuata da gente che viene dal popolo (Pound benedice il fatto che Mussolini non abbia frequentato l’università), sempre pronta ad ascoltare le idee nuove, come quelle di questo strano poeta giunto dall’America a parlare ai gerarchi di Confucio. Una rivoluzione che ha come nemici solo dogmatici e bigotti» [31].
In entrambe le epoche, dunque, costoro per il poeta americano giungono con le più svariate novità politiche ed economiche; e – in genere – di forma. «Jefferson iniziò a far pulizia di ogni sopruso sociale, convenzionalismo, privilegio, ecc. In un’Italia piena di pregiudizi, il fascismo significò innanzitutto azione DIRETTA, niente chiacchiere, con un bastardo non si discute» [32]. Nel testo, tra altri attori della storia, troviamo anche Confucio, grande amore del poeta americano. Con la sua scrittura rapida, coglie un sistema comparato tra i due leaders che, a modo loro, rappresentano per lui una ricchezza delle due nazioni.
[1] F. Franzin, L’altra America. L’anima profonda degli Stati Uniti, dall’identità sudista al fenomeno Trump, Passaggio al Bosco, 2022
[2] L.Gallesi in T,Jefferson, La terra appartiene ai viventi, Mimesis, Milano-Udine, 2015, pp.173
[3] T.Bonazzi, La rivoluzione americana, Il Mulino, Bologna, 2018, pp.74-75
[4] D. Armitage, La dichiarazione d’indipendenza. Una storia globale, UTET, Torino, 2008, p.18
[5] D. Armitage, La dichiarazione d’indipendenza. Una storia globale, UTET, Torino, 2008, p.25
[6] G. Damiano, Il doppio volto del popolo eletto, in Il Primato Nazionale, maggio 2020, anno III, n.32, p.87
[7] G. Damiano,Op. cit., p.87
[8] Ibidem, p.25
[9] D. Armitage, La dichiarazione d’indipendenza. Una storia globale, UTET, Torino, 2008, p.27
[10] Ibidem p.32
[11] T.Bonazzi, La rivoluzione americana, Il Mulino, Bologna, 2018, p.76
[12] T.Bonazzi, La rivoluzione americana, Il Mulino, Bologna, 2018, p.77
[13] G. Damiano, Il doppio volto del popolo eletto, in Il Primato Nazionale, maggio 2020, anno III, n.32, p.84
[14] G. Damiano, Op. cit., p.86
[15] T. Jefferson, La terra appartiene ai viventi, Mimesis, Milano-Udine, 2015, pp.19-25
[16] Mattias Gardell, Dèi del sangue, rinascita del paganesimo e del suprematismo bianco, Settimo Sigillo, Roma, 2011, p.60
[17] M. Gardell, Op. cit., pp.60-61
[18] T.Bonazzi, La rivoluzione americana, Il Mulino, Bologna, 2018, p.115
[19] A. Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale, 1750-1804, Einaudi, Torino, 2017, pp.343-344
[20] T.Bonazzi, La rivoluzione americana, Il Mulino, Bologna, 2018, p-117
[21] Ibidem p. 117
[22] T.Jefferson, La terra appartiene ai viventi, Mimesis, Milano-Udine, 2015, pp.29-30
[23] A. Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale, 1750-1804, Einaudi, Torino, 2017, p.410
[24] L. Gallesi in T.Jefferson, La terra appartiene ai viventi, Mimesis, Milano-Udine, 2015, p.174
[25] G. Damiano, Quando l’America pensò di essere Roma in Il Primato Nazionale, Aprile 2020/Anno III – N.31, pp. 89-90
[26] A. Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale, 1750-1804, Einaudi, Torino, 2017, pp.446-447
[27] Ibidem pp.428-421
[28] G. Damiano, Quando l’America pensò di essere Roma in Il Primato Nazionale, Aprile 2020/Anno III – N.31, p.90
[29] https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/jefferson-mussolini-confucio-torna-pound-scorretto-32260/
[30] E. Pound, Jefferson e/o Mussolini, Società Editrice Il Falco, Milano, 1981, p.23
[31] https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/jefferson-mussolini-confucio-torna-pound-scorretto-32260/
[32] E. Pound, Jefferson e/o Mussolini, Società Editrice Il Falco, Milano, 1981, p.83