Ho scoperto Robert Brasillach grazie a Stenio Solinas, intellettuale scomodo che ha a lungo militato nel Msi. Solinas, ama molto la cultura francese, in modo particolare la letteratura e ha il merito di diffondere la conoscenza anche ai lettori italiani, alcune perle poco note, soprattutto perché “rimosse” in quanto “politicamente scorrette”, e in alcuni casi inedite in Italia.
Brasillach fu scrittore, giornalista, poeta, e critico cinematografico. È stato un gigante in patria, ma essendo stato caporedattore del settimanale “Je suis partout” giornale che a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, iniziò ad avvicinarsi a idee di estrema destra, fasciste e antisemite, furono fatali in futuro per l’intellettuale. Per questa ragione, al termine della guerra, Brasillach, fu infatti accusato e condannato – dopo un processo farsa durato 6 misere ore – alla pena di morte per “collaborazionismo” con fascisti e nazisti. A nulla servirono le innumerevoli petizioni d’intellettuali francesi che chiesero la sua grazia, affermando che Brasillach veniva accusato solo per “le sue idee”, intellettuali del calibro di Francois Mauriac, Paul Valéry Paul Claudel, Daniel-Rops, Albert Camus, Marcel Aymé, Jean Paulhan, Roland Dorgelès, Jean Cocteau, Colotte, Artur Honegger, Maurice de Vlaminck, Jean Anouilh, Jean-Louis Barrault, Thierry Maulnier. Il Generale Charles De Gaulle, non concesse la grazia, e Brasillach fu condannato a morte a soli 35 anni, una macchia indelebile su De Gaulle che avrebbe potuto e dovuto fermare questa esecuzione.
Di Brasillach, avevo già letto un suo bellissimo, struggente, malinconico romanzo “I sette colori”. E “Edizioni Settecolori” è proprio la casa editrice che evidentemente ispirandosi al titolo della sua opera, ha recentemente pubblicato “Sei ore da perdere” dello stesso Brasillach, e non a caso, il sopracitato Stenio Solinas, è il Direttore Editoriale della casa editrice. “Sei ore da perdere”, sei ore come quelle del processo – fatalità del destino – che furono decisive per dare la morte all’intellettuale.
“Six heures à perdre” uscì in Francia, postumo, nel 1953. Dobbiamo a “Edizioni Settecolori” la prima edizione tradotta in italiano, nel settembre del 2023, arricchita da un’introduzione di Roberto Alfatti Appetiti e da una postfazione di Fausta Garavini. Quello che un tempo era solo uno scrittore di “nicchia” tra i lettori più accaniti dell’ambiente dell’estrema destra, adesso si sta estendendo ad un pubblico più vasto. Perché non occorre essere fascisti o di destra per apprezzare un artista fascista come lui.
1943. Nella Francia occupata dai tedeschi, un giovane ufficiale, Robert B., rientra a Parigi dopo più di tre anni di prigionia. Nell’attesa di un treno che, dalla Gare de Lyon, lo riporti finalmente a casa, ha un tempo di 6 ore esatte da spendere nella capitale e un impegno da assolvere: trovare Marie-Anne, la ragazza che il suo compagno dell’Oflag in cui erano rinchiusi, Bruno Berthier, ha conosciuto durante una breve licenza dal fronte e di cui è rimasto innamorato. Ha inizio così una ricerca attraverso una città che non ha più nulla della Parigi da Robert conosciuta prima della guerra: strade vuote di automobili, mercato nero, code, vetrine spoglie, un’atmosfera di paura, rabbia, disordine morale, troppi volti sconosciuti, nessun volto che riesca a risplendere nel ricordo. Con lo scorrere della trama, la ricerca assume i contorni di un vero e proprio giallo sociale e politico, perché anche la polizia è intanto sulle tracce di Marie-Ange, resasi irreperibile. Perché? Non aggiungo nulla, per non togliere al lettore il piacere di scoprirlo.
In “Sei ore da perdere”, Robert Brasillach costruisce un perfetto noir alla Simenon dove una struttura a incastro illumina di volta in volta gli indizi in vista della loro finale collocazione, con continui balzi temporali e mutamenti di punti di vista, che obbligano il lettore a rivedere continuamente le proprie convinzioni. Allo stesso tempo descrive un crudele quanto illuminante ritratto di una capitale in tempo di guerra dove il senso del «tragico sociale» brucia ogni illusione sul passato e sull’innocenza dei suoi protagonisti. Scritto di getto in pochi mesi, pubblicato come romanzo d’appendice per il settimanale «La Révolution nationale» dal marzo al giugno del 1944, questo poliziesco d’atmosfera è l’ultima prova narrativa di Brasillach e un’ulteriore conferma, qualora ancora ce ne fosse bisogno, del suo grande talento di narratore, ormai disilluso cantore della «giovinezza fascista».
Il valore dell’opera ha molteplici aspetti: l’ottima narrazione, il realismo giornalistico della descrizione dei luoghi e dei tempi storici di cui Brasillach fu reale testimone, la suspance da “giallo-noir”, l’analisi sociale e politica, in bilico tra “militanza” ( Brasillach non rinnegò mai il fascismo), e la constatazione dell’ideale travolto da una realtà crudele. Se la prigionia nell’Oflag viene descritta nella sua desolazione, lo spirito cameratesco che il protagonista-narratore vive in quell’ambiente, sembra avere una dignità superiore rispetto alla Parigi completamente sconvolta nella sua vita, dall’occupazione e dalla guerra che sta prendendo una piega diversa da quella sperata. Alla fine, la vita militare, il combattimento, la lotta, risultano riscattati di fronte alla miseria materiale e spirituale di un mondo urbano e borghese, dilaniato da divisioni ideali, criminalità, povertà economica.
È importante – per meglio comprendere sul piano politico-ideologico il romanzo – ripetere che Brasillach aveva posizioni filofasciste e filonaziste ben prima che la Francia entrasse in guerra, ma che quando vi entrò, Brasillach si trovò mandato a combattere per la Francia, contro l’esercito tedesco. Questa contraddizione, dilania ancora più la coscienza di Brasillach, e il romanzo riflette questa contraddizione: il fascismo e la guerra hanno migliorato la Francia o no? Oppure è solo l’esito infausto della lotta che è mesto, ma l’ideale resta valido?
Brasillach è uno dei migliori testimoni di un “fascismo romantico” e “ideale”, di come sarebbe potuto essere, di come lui lo avrebbe voluto. Al processo che lo portò alla morte, il pubblico, tutto a favore dello scrittore, insorse. Un giovane – successivamente arrestato – ebbe il coraggio di gridare: “Assassini, è una vergogna!”. Brasillach rispose, calmo e fiero: “No, è un onore!”.